Panorama
Apple TV+ ha condiviso con i fan il teaser della nuova comedy The Studio, con protagonista Seth Rogen, che è anche sceneggiatore, regista e produttore esecutivo insieme al candidato all'Emmy Evan Goldberg. La nuova serie farà il suo debutto il 26 marzo con i primi due episodi (sono 10 in totale), seguiti da un episodio ogni mercoledì fino al 21 maggio.
Trama
Seth Rogen interpreta Matt Remick, il nuovo capo dei Continental Studios in crisi. In un settore in cui i film faticano a rimanere vivi, Matt e il suo team di dirigenti in lotta combattono le proprie insicurezze, mentre si scontrano con artisti narcisisti e con i vili proprietari dell'azienda nella ricerca sempre più effimera di realizzare grandi film. Indossando il vestito buono che maschera un infinito senso di panico, ogni festa, set visit, decisione sul casting, riunione marketing e premiazioni offre loro l'opportunità di un successo scintillante o di una catastrofe che pone fine alla loro carriera. Da persona che mangia, dorme e respira cinema, Matt ha inseguito questo lavoro tutta la vita e ora potrebbe distruggerlo.
Cast
“The Studio” riunisce un cast stellare che comprende anche la vincitrice di Emmy, SAG e Golden Globe Catherine O'Hara, la candidata all'Emmy Kathryn Hahn, Ike Barinholtz e Chase Sui Wonders. Il candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award Bryan Cranston apparirà invece come guest star.
Prodotta da Lionsgate Television, “The Studio” è creata dai vincitori di più Emmy Peter Huyck e Alex Gregory insieme a Rogen, Goldberg e Frida Perez. James Weaver, Alex McAtee e Josh Fagen della Point Grey Pictures sono anche produttori esecutivi insieme a Rogen e Goldberg.
Il nuovo progetto segue l'ultima collaborazione tra Apple TV+ e Rogen, la comedy Apple Original “Platonic”, recentemente rinnovata, in cui Rogen è protagonista e produttore esecutivo insieme a Rose Byrne.
TUTTE LE NEWS DI TELEVISIONE
Per rispondere ai diktat europei bisogna produrre meno, fermare gli impianti e mettere in cassa integrazione i dipendenti, se non licenziarli. Ed è quello che sta accadendo.
Con un amico concessionario d’auto in questi anni ho discusso spesso di macchine elettriche. La prima volta fu quando mi prestò per un giorno una vettura a batteria. La provai facendo un viaggio di un’ottantina di chilometri, confidando nel fatto che la casa automobilistica aveva garantito un’autonomia pari al triplo. Arrivato a destinazione mi resi conto che rischiavo di non tornare a casa, perché il cruscotto segnalava poco più di un’altra ottantina di chilometri a disposizione e dunque feci il percorso a ritroso con il patema di restare a piedi. Con un’altra macchina, che assicurava maggior autonomia, non ho avuto il brivido di rimanere a «secco», ma diciamo che lungo tutta la strada ho scrutato il livello della batteria per non avere brutte sorprese, pronto a una sosta tecnica alla ricerca di una stazione di ricarica.
Alla fine, ho detto al mio amico che l’auto elettrica non faceva per me. Almeno fino a che non avesse garantito una maggior tranquillità di utilizzo. Ricordo che in risposta lui mi confidò di pensarla come me. Sono passati un paio d’anni da allora, e il mio conoscente ha rinunciato a vendere vetture elettriche, per non sottostare alle imposizioni delle case automobilistiche, che spingono i veicoli a batteria più di quelli a motore, imponendo target che rischiano di strangolare la rete di vendita.
Intendiamoci, non è tutta colpa delle aziende. Come si è capito in questi giorni, con le dimissioni dell’amministratore delegato di Stellantis, i gruppi del settore subiscono a loro volta gli obiettivi fissati dall’Unione europea per ridurre le emissioni per chilometro percorso. In pratica, Bruxelles chiede che i parametri medi delle vetture immesse sul mercato da una casa automobilistica siano del 15 per cento inferiori rispetto al passato. Tutto ciò non fra dieci anni, quando i motori termici non potranno più essere prodotti, ma subito, cioè a partire dal prossimo gennaio. Pena pesanti multe, che secondo l’agenzia Reuters, raggiungerebbero per il solo 2025 i 15 miliardi di euro, pari all’intero utile di un gruppo come Renault.
Per non rimanere vittime di questa tagliola,i produttori hanno due possibilità. La prima è vendere più macchine elettriche, in modo da portare il saldo del gruppo dentro i parametri fissati dai burocrati della Ue. E questa soluzione è quella che ha indotto il mio amico concessionario a rinunciare alle vendite per dedicarsi alla manutenzione. Per raggiungere gli obiettivi fissati da Bruxelles infatti, è necessario piazzare il doppio delle auto a batteria vendute nel 2024, risultato che è irraggiungibile, per la semplice ragione che il mercato va nella direzione opposta. Cioè, invece di crescere, le immatricolazioni di vetture senza motore ma con la pila diminuiscono, perché superata la curiosità per i nuovi modelli, gli automobilisti si rendono conto delle difficoltà di ricarica, ma anche della scarsa autonomia. Dunque, mettendo sulla bilancia pro e contro, come per esempio il costo maggiore per l’acquisto non più compensato da un pieno alla spina più leggero, decidono di comprare le macchine con motore termico. Passare dal 16 per cento (è il caso di Volkswagen) al 36 come previsto, non è realistico, nemmeno se si stressa la rete di vendita inserendo clausole quasi vessatorie per spingere i concessionari a convincere la clientela.
La seconda soluzione, quella che non prevede un raddoppio della diffusione dei modelli a batteria, è la riduzione della vendita di auto a motore termico. Cioè, per rispondere ai diktat europei bisogna produrre meno, fermare gli impianti e mettere in cassa integrazione i dipendenti, se non licenziarli. Ed è quello che sta succedendo in tutta Europa, con chiusure di fabbriche che coinvolgono i principali marchi (Audi, Volkswagen, Ford) e numerosi fornitori (Bosch, Valeo, FZ, Continental). Più che una soluzione vi pare una follia? Anche a me, ma non mi stupisco.
L’Unione europea ci ha abituato a queste scelte: ricordate quando nel passato - si chiamava ancora Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio - voleva la chiusura degli altiforni, pronta a pagare pur di raggiungere lo scopo? O quando pretese a suon di multe che gli allevatori non producessero più di un certo quantitativo di litri di latte? Ecco, adesso siamo arrivati all’auto: alcuni alti papaveri di Bruxelles, con la condiscendenza di politici, i quali invece che al buon senso danno retta alle ideologie, stanno ripetendo gli errori già fatti con le acciaierie e con le stalle. Il risultato è che presto ci regaleranno non le proteste degli allevatori, ma la rivolta di decine di migliaia di nuovi disoccupati. Ah, dimenticavo: il mio amico ringrazia ogni giorno di aver avuto l’idea di rinunciare alla concessionaria.
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Oltre la metà di chi fa parte delle nuove generazioni non vuole figli: legittimo. Ma non conoscerà mai la felicità che danno certi primi passi...
L’altro giorno mia nipotina Agata, 11 mesi, ha mosso i suoi primi passi. Ho visto e rivisto quel video un’infinità di volte. L’ho commentato. Poi l’ho rivisto. Poi l’ho mandato in giro. E poi l’ho rivisto ancora. Che ci volete fare? Con il passare degli anni si rincitrullisce un po’. Ma avete presente che cosa vuol dire una bimba di 11 mesi che barcolla incerta sulle sue gambe, appoggiandosi a quel che trova, un piede dopo l’altro per compiere quel piccolo passo per un bebè, grande passo per l’umanità, che è la sua prima camminata? Avete presente il suo sguardo prima spaventato, poi compiaciuto, la sua soddisfazione, la paura che diventa felicità? Avete presente quando cade e cerca una mano per rialzarsi? Pensate che possa esistere qualcosa di più vicino alla gioia pura?
State tranquilli, cara generazione No Kids, cari giovani che non volete più fare figli: oggi non vi farò la morale. Non vi dirò che siete egoisti, individualisti, carrieristi, come fanno tutti. Non vi dirò che senza bambini il mondo muore, il Paese si spegne, non vi farò filippiche sulla denatalità, sulle culle vuote, sull’inverno demografico. Mi sono rotto le palle delle sociologie un tanto al chilo, delle analisi statistiche, dei predicozzi moraleggianti. Fate quel che volete. Niente figli? Ok, niente figli. Vi dico solo una cosa: peggio per voi. Non sapete quello che vi perdete. E alla fine, vedrete, vi si ritorcerà contro. Perché tutta la libertà che andate cercando, il benessere economico, i viaggi, le vacanze, le Maldive, i weekend enogastronomici, l’affollamento delle piste da sci, tutto questo, messo insieme, alla fine non riuscirà a darvi la gioia che dà un passettino di Agata. Soltanto che voi non lo sapete. E forse non lo saprete mai.
La ricerca, come al solito, me l’ha segnalata il nume tutelare del Grillo. Io ero troppo impegnato a vedere e rivedere il video di Agata, perciò mi era sfuggita. A lui no, a lui non sfugge niente. Lo studio Generationship 2024, realizzato da Kienn Connecting People and Companies per il gruppo Unipol, riguarda i giovani tra i 15 e i 35 anni. Ebbene: per oltre il 50 per cento di loro avere figli non è importante. Altre sono le priorità: la libertà, la carriera, il benessere economico, il benessere individuale, la possibilità di viaggiare... Alessandro Rosina, docente alla Cattolica di Milano, spiega al Messaggero che «i giovani vivono in un mondo di incertezze e ansia per il futuro» e dunque sono spaventati dall’idea di legarsi ad un figlio, che inevitabilmente è una scelta «irreversibile». Tutto comprensibile, si capisce. Ma la mia domanda è: sono sicuri questi giovani che così saranno felici?
L’ho detto: non voglio colpevolizzare. Non voglio fare prediche. Non voglio parlare di doveri e obblighi morali. Voglio considerare solo ed esclusivamente la questione dal punto di vista del benessere individuale che sembra essere in cima alle priorità dei ragazzi intervistati. Ecco: ma davvero quel benessere individuale si può raggiungere pensando solo a sé stessi? Moltiplicando divertimenti e occasioni di svago? Davvero l’ansia per il futuro si vince negando il futuro? Davvero l’incertezza si sconfigge con altra incertezza? Con la moltiplicazione della precarietà? Annullando le «scelte irreversibili»? Davvero la provvisorietà si supera cercando cose provvisorie come il viaggio last minute per vedere l’aurora boreale o le balene in Canada? Davvero non sentite il bisogno di avere nella vostra vita un programma che sia più importante, e profondo, del programma per il weekend?
Vi faccio i miei auguri, cari ragazzi. Spero che possiate davvero essere felici così, rinchiusi nei recinti del benessere individuale. Soddisfatti dei progressi della carriera. Ma temo che buona parte dell’insoddisfazione che oggi circola fra i giovani, disagio, forme di devianza, fughe nella droga e nell’alcol, ubriacatura di social e eccesso di autolesionismo, siano proprio dovuti a questa idea piuttosto sbagliata della felicità. Che è giusto cercare a tutti i costi, ci mancherebbe. Ma che è difficile trovare senza pensare alla felicità di qualcun altro.
La colpa, temo, è soprattutto nostra. Di noi adulti. Che abbiamo trasmesso ai più giovani l’idea (dall’aborto in giù) che il figlio sia solo un impiccio, un problema, un costo, una noia. Al massimo un dovere. Sia chiaro: è anche tutto ciò. Ma un figlio è soprattutto qualcosa che ti allarga e ti allunga la vita. Dà il senso al tuo tempo. Cambia il significato di tutto quello che fai. I nostri nonni e i nostri padri ce lo hanno insegnato, noi non siamo stati in grado di fare altrettanto con i nostri figli che perciò oggi diventano generazione No Kids. E si condannano all’infelicità proprio mentre cercano la felicità a tutti i costi. Perché la cercano in ogni angolo del mondo tranne nel posto dove è davvero. Per esempio nel video di Agata che muove i primi passi.
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Se l'intelligenza artificiale abolisce storia, realtà e poesia
Una volta vedevi una cosa e ci credevi, ma ormai l’Intelligenza artificiale riesce a creare fotografie, narrazioni e mondi veri e verosimili. L’ennesimo tassello di un’operazione che porterà alla nostra sostituzione? Forse meglio considerare tale tecnologia un avanzamento necessario. Ma senza farsi sbranare
08 December 2024
Grazie all’Intelligenza artificiale la realtà è stata abolita, la creatività è stata sostituita. Se non ci credete ascoltate queste due storie.
Dunque, c’era una volta la fotografia, che documentava la realtà. Non potevi negare la verità, c’è la foto che attesta il vero. Ma un bel giorno un fotografo di New York, Philip Toledano, ha commissionato un miracolo all’Intelligenza artificiale. Ha fatto realizzare per un festival intitolato We Are at War, a Deauville, in Normandia i provini favolosi in cui Robert Capa, il famoso fotografo, documentava il D-day, il giorno del mitico sbarco in Normandia. Sembrava tutto vero, le immagini, le facce, i telegrammi. E invece niente era vero, tutto era frutto di una ricostruzione fittizia di situazioni e materiali. Puro illusionismo, opera di digitazione sullo smartphone, col supporto dell’Ia, anzi prestidigitazione, come fanno appunto i maghi, i prestigiatori. Toledano annuncia: l’idea della fotografia come verità è perduta per sempre. Novità assoluta o ritorno indietro, all’epoca che precede la fotografia quando il racconto, la raffigurazione mitica, pittorica, la testimonianza orale tramandata dovevano comprovare un avvenimento, senza nessuna certificazione inconfutabile. Siamo al surrealismo storico, dice il fotografo creativo. D’ora in poi le immagini non attesteranno più la realtà delle cose, sono malleabili. D’altra parte sono tristemente note le manipolazioni che avvengono sul web, nei social, di volti e corpi, spesso di minorenni, che vengono usati in scene erotiche false.
Diventa difficile anche il compito di vigilanza della polizia postale, perché le immagini passano di mano in mano e possono essere rimodificate, stravolte strada facendo, fino a perdere le tracce a cui risalire. Ma tornando alle foto falsamente storiche: un altro colpo letale alla memoria storica, alla verità dei fatti. Come già accadeva nei regimi totalitari - Stalin faceva sparire dalle foto personaggi del regime caduti in disgrazia ed eliminati fisicamente - o come accade nelle manipolazioni odierne dei servizi segreti e della disinformazia cinetelevisiva, oggi chiunque può manipolare la realtà storica e mescolare eventi accaduti con falsificazioni. Il fotografo si esalta per questa possibilità di cancellare la realtà o modificarla a proprio piacimento. Si può rovesciare la realtà, dice Toledano, entrare in luoghi inaccessibili, vedere cose che nessuno ha mai visto e mai avrebbe potuto vedere. «L’Intelligenza artificiale è incredibilmente flessibile, può essere come un sogno o una poesia». Sì, bello, ma la realtà non lo è, la verità nemmeno. Dovremmo esultare perché la realtà viene cancellata?
A proposito di poesia, l’Intelligenza artificiale riesce pure a simulare l’ispirazione lirica, il genio poetico. La rivista Scientific Report ha reso noto una ricerca compiuta da un team di ricercatori dell’Università di Pittsburgh: è stato sottoposto a un vasto campione di 1.600 persone un repertorio mescolato di cinque poesie scritte da grandi poeti, da Shakespeare in giù, a cinque poesie scritte da ChatGpt. Lo scopo era dimostrare che i lettori non si accorgono della differenza, non sanno distinguere il vero dal falso. E naturalmente l’esperimento è riuscito. Ma l’inganno è doppio. Non solo quello dichiarato di versi scritti dal poeta e di versi scritti dall’Ia. Ma il vero inganno è la falsa creatività della macchina: ChatGpt genera tramite algoritmi testi che assemblano brani provenienti da un immenso magazzino dati. Pescano versi nel mare magnum dell’universo poetico, non c’è alcuna ispirazione creativa.Operazione matematica priva di intelligenza, assemblaggio di alta precisione tecnologica, non ispirato da vena lirica e creativa. Non c’è alcun poeta commosso dietro quei versi, anche se non si può escludere che possano produrre emozione e commozione in chi li legge.
Abbiamo raccontato due storie parallele o forse convergenti, in cui avviene una cosa e accadono tre conseguenze. La premessa è che si perdono i confini tra il vero e il falso, tra l’autentico e il finto, tra il reale e l’inventato. L’utente non sa più distinguere tra i due ambiti, è tutto in balia dell’Intelligenza artificiale. Le conseguenze che ne derivano sono di tre tipi. La prima: la realtà, la storia, i fatti possono essere sostituiti. La seconda: la creatività, l’ispirazione poetica, il genio, possono essere sostituiti. La terza: l’uomo, come la storia e come la poesia, è superfluo, può essere sostituito. Dobbiamo gioire o preoccuparci di tutto questo, festeggiare o spaventarci, esaltarci o deprimerci? È un progresso per l’umanità o una catastrofe?
Lasciate che io lo consideri d’istinto o di primo acchito più una sconfitta che una conquista, più un fallimento che un progresso. Poi mi ricompongo, metto da parte lo spirito apocalittico e provo a ragionare. L’Intelligenza artificiale è preziosa in molti campi, a volte ci fa vivere meglio, espande le nostre possibilità di vita e di conoscenza. Però, a tre condizioni. La prima è che si possa distinguere il vero dal falso, la poesia dal tarocco, il poeta dal robot; ovvero che ci siano ancora i mezzi per separare gli uni dagli altri fino a renderli riconoscibili. La seconda è che si possa controbilanciare la potenza della tecnologia con un sapere critico, un’intelligenza a misura d’uomo, una cultura in grado di compensare la crescita della Ia e l’uomo possa orientare, filtrare, governare, dirigere la Tecnica senza esserne diretto. La terza è che l’espansione dell’Ia artificiale si possa fermare quando diventa inquietante e pericolosa per l’umanità e per il mondo. L’uomo cavalchi la tigre e non sia trascinato e infine travolto.
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Costume
Speciale Scala di Milano - Il tema della guerra nell'opera lirica
Al grido di «Guerra, guerra!» si aprono molti atti dei più importanti melodrammi messi in scena. Da Claudio Monteverdi a Vincenzo Bellini fino a Giuseppe Verdi, le lotte dei popoli coincidono con i conflitti interiori e viceversa, con un’attualità narrativa che fa riflettere sulla natura umana
07 December 2024
L'arruolamento e la trincea, sino alle drammatiche conseguenze che ogni conflitto provoca (fame, morte, povertà) costituiscono il fulcro di molte, anzi della maggior parte, delle opere liriche. Il dolore e la compassione sono infatti i sentimenti che la musica da sempre ha raccontato. Così come ha narrato la guerra. Che insieme all’amore e alla morte è uno dei cardini del melodramma.
Ecco allora un reportage di guerra. In musica. Un reportage «verdiano» che è anche un invito all’ascolto di alcuni passaggi di forte intensità lirica: «Correte allor soldati in Italia dov’è rotta la guerra contro il tedesco» canta Preziosilla, incitando i militari spagnoli, mercenari e prezzolati, ad andare a combattere nel nostro Paese. «Evviva la guerra!» questo non a caso è proprio il grido con il quale si presenta in scena. E una volta giunta in Italia, avendo inseguito i soldati nelle loro imprese, canta il suo inno «Rataplan rataplan rataplan». Inno di guerra. Inno che scalda gli animi. Capolavoro di invenzione musicale di Verdi, note e parole che sembrano anticipare, nella loro furente visionarietà, il Futurismo e la sua esaltazione della tecnologia e della guerra: Rataplan pim, pam, pum! Ecco dunque un breve viaggio intorno al tema della guerra attraverso la sua rappresentazione nel melodramma. Quello ottocentesco, in particolare. E quello verdiano, naturalmente.
Partiamo dal 24 febbraio 1607, quando a Mantova, Claudio Monteverdi mette in scena Orfeo, il primo vero capolavoro della storia del melodramma. Vi si narranno le vicende di un uomo in pena e in lotta con sé stesso che vive un conflitto tutto interiore, vinto attraverso la musica che sconfigge la morte. Ma è con il racconto delle conseguenze della guerra di Troia, ne Il ritorno di Ulisse in patria che Monteverdi passa all’esternizzazione del conflitto come dimensione tematica del dramma, mettendo in scena la guerra in un madrigale ispirato a Torquato Tasso e alla sua Gerusalemme liberata. Per non parlare de Il combattimento di Tancredi e di Clorinda, che racconta del cristiano Tancredi, innamorato della musulmana Clorinda, per la quale deve battersi in duello.
Guerra, dunque, impastata di amore e morte. «Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte. Bello è affrontar la morte, gridando libertà» cantano Riccardo e Giorgio nei Puritani di Vincenzo Bellini. Un grido che è lo stesso degli italiani che nell’Ottocento lottavano per la libertà. Per fare l’Italia e gli italiani. Nel 1848 alla Scala andava in scena Norma, sempre di Bellini e quando risuonò il coro selvaggio di «Guerra, guerra!» gli spettatori si sentirono coinvolti e si misero a cantare con il coro.
Le stesse parole di Norma risuonano ne I lombardi alla Prima crociata, opera andata in scena nel 1843 alla Scala, quarto lavoro di Verdi, che racconta una vicenda del 1096, facendo un passo in più rispetto al testo del Bellini: con una tecnica quasi cinematografica racconta in musica il conflitto, come se facesse una carrellata con la macchina da presa, dal campo lombardo il suo sguardo si allarga, inquadra la battaglia e poi mostra Gerusalemme, dove sono arrivati i Crociati che cantano: «Te lodiamo gran Dio di vittoria». Un altro grido, lo stesso, «Guerra, guerra!» lo si ritrova in Aida, opera verdiana del 1871, quando Radames viene eletto comandante delle truppe che andranno in battaglia contro gli Etiopi. «Ritorna vincitor!» gli augurano tutti.
Attila, sempre di Verdi, anno 1846, ci porta nel campo avversario, qui vediamo la guerra dalla parte del nemico, andiamo tra le fila degli invasori. Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine costellano le vicende del re degli Unni. Siamo nel 452 e Attila ha invaso l’Italia e saccheggiato Aquileia: i suoi uomini festeggiano la vittoria tra le rovine. Immagine che anche oggi, drammaticamente, i reportage di guerra ci restituiscono. Un altro momento spietato verdiano è quello che arriva nel finale del Macbeth, anno 1847, quando il popolo scozzese uccide il tiranno. «Ov’è Macbetto ov’è, dov’è l’usurpator?» si chiedono gli scozzesi sulle macerie di un conflitto che lascia solo devastazione.
E pensare che spesso la follia bellica è perpetrata in nome di Dio. Ma è ancora Verdi, e ancora nei Lombardi, a dirci, con il grido di Giselda che «No, giusta causa non è di Dio, la terra spargere di sangue umano... no Dio non vuole!». Lo conferma ora anche la Chiesa, per fortuna: «Che tutti gli uomini e le società a ogni livello e in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!» scriveva infatti papa Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2011. Una ricorrenza voluta da Paolo VI per sottolineare a ogni inizio di anno l’impegno della Chiesa per questo importante tema. Un’invocazione che fino a oggi resta inascoltata. Come quella del doge di Genova Simon Boccanegra (ancora Verdi per l’opera andata in scena a Venezia nel 1857 e rimaneggiata nel 1881 per la Scala): «E vo gridando pace, e vo gridando amor!». Grido inascoltato. Lo dicono le migliaia di vittime innocenti. Per loro la pietà. La preghiera. Quella che Verdi mette nella sua Messa da Requiem, scritta per l’amico Alessandro Manzoni nel 1874. Riflessione teatrale, teatralissima sulla morte. Grido di un uomo che sfida Dio. «Libera me, Domine, de morte aeterna in die illa tremenda». Liberami dalla morte eterna in quel giorno terribile. Una richiesta. Un accordo sospeso. Quasi un punto di domanda che ci fa affacciare sul mistero.
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Padre Giuseppe Barzaghi, domenicano, teologo e musicista, riflette sulla differenza tra destino, caso e provvidenza, partendo dalle opere liriche e letterarie
A lvaro lo urla a una manciata di battute dalla fine dell’opera: «Destino avverso, come a schermo mi prendi…». Certo, perché il destino «può essere quella forza cieca che governa attraverso il caso gli avvenimenti della vita». Sintesi perfetta della trama de La forza del destino di Giuseppe Verdi. Ma questo è il destino «non pensato cristianamente» precisa padre Giuseppe Barzaghi, domenicano, filosofo e teologo, direttore della Scuola di anagogia di Bologna, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. «E anche musicista, perché ho studiato pianoforte, anche se è da un po’ che non metto le mani sulla tastiera. Ma soprattutto nipote di un nonno melomane che quando uscivo di casa per andare all’università a sostenere gli esami mi avvertiva: “Ritorna vincitor!” citando la verdiana Aida». Perché il destino «pensato cristianamente è altro, è provvidenza, è sicurezza, è fiducia» racconta padre Barzaghi, classe 1958, nato a Monza, a un passo dai luoghi manzoniani che «la provvidenza» evoca.
Ma partiamo dall’inizio. «Partiamo dalla Sinfonia de La forza del destino che si apre con gli accordi degli ottoni, colpi, come di qualcuno che bussa alla porta. E subito ti viene in mente la Quinta di Beethoven, con il suo inizio inconfondibile. Che racconta, appunto, il destino. Sinfonia in do minore, la tonalità tragica per eccellenza. Ma se guardiamo a Johann Sebastian Bach ci accorgiamo che il do minore per lui non è affatto la tonalità tragica, ma è quella che racconta un abbandono fiducioso» riflette padre Barzaghi. Che va poi con la mente alla Suite n.5 in do minore per violoncello.
«Il violoncello, la voce umana per eccellenza tra gli strumenti musicali, non narra con questo do minore una disperazione, ma un abbandono, una consegna fiduciosa… Soli Deo Gloria scriveva Bach alla fine di ogni sua partitura. Ancora, pensiamo a un’altra grande pagina in do minore, l’Offerta musicale che si dice sia su un tema regalato al compositore da Federico II di Prussia. Un’architettura perfetta che ha in sé numerosi riferimenti teologici» aggiunge ancora il teologo domenicano, «ultimo degli scolastici» come si definisce, facendo risalire il suo pensiero a quello di Tommaso d’Aquino. Il santo filosofo e teologo «che non teme di chiamare il destino fato, parola che evocherebbe qualcosa di occulto e misterioso. Ma per san Tommaso il fato è il riflesso nell’ordine delle creature della provvidenza che è nella mente di Dio. Per spiegarlo il teologo fa un esempio. Racconta di due servi, al servizio di uno stesso padrone, che si incontrano per caso al mercato dove si sono recati all’insaputa l’uno dell’altro. Solo il padrone sapeva bene che si sarebbero incontrati perché era stato lui a mandarli. Ecco la casualità dell’avvenimento, governata però da qualcuno, per chi ci crede da Dio. E questa è la provvidenza. «Che, nell’ordine creaturale è il fato, secondo Tommaso d’Aquino».
Provvidenza. Parola che evoca i manzoniani Promessi sposi. «Provvidenza che non è previdenza. Perché pre-videnza è un vedere prima, quasi un indovinare nel futuro. Pro-vvidenza è il vedere davanti, nel presente, in ciò che ci accade, è leggere nel nostro presente i segni di Dio» spiega, sviscerando il significato delle parole. «Parlando dei fatti della nostra vita diciamo: è accaduto per caso. Ma diciamo anche: è capitato. Due espressioni profondamente diverse» riflette padre Barzaghi. «Accadere ha dentro la radice del cadere, qualcosa che non ha un perché, che non mi sollecita e mi spaventa. Capitare ha dentro caput, a dire che da quell’evento capitale, che non è per nulla accidentale, non dettato dal caso, ne scaturiscono altri». Ecco l’inizio della Forza verdiana, quel colpo di pistola iniziale dal quale scaturiscono una serie di eventi che corrono sino al tragico finale.«Capitare. Accadere. Tutto viene percepito come se fosse indicativo di qualcosa di spaventoso e incontrollabile. Ma ecco il salto della fede. Per leggere i segni del destino occorre la fiducia, l’abbandono fiducioso che è la speranza teologale. Il do minore di Bach». Ecco che le morti della Forza si rispecchiano in quelle dei Promessi sposi. Quelle tragiche di Don Rodrigo nel romanzo e di Don Carlo nell’opera, quella manzoniana di Cecilia, messa dalla madre sul carro dei monatti, e quella verdiana di Leonora, che si consegna speranzosa nelle mani di Dio. Lo fa sicura. «Sicura, non solo certa. Perché certezza e sicurezza, che pur noi usiamo attribuendo loro praticamente il medesimo significato, ci raccontano due atteggiamenti diversi. Nella certezza c’è il certamen, il combattimento, c’è la battaglia dove si ha la certezza, appunto, di aver sconfitto un avversario, ma presto ce ne si trova di fronte un altro. “Voi pria cadrete nel fatal certame” canta Alvaro nell’opera, brandendo la spada contro Don Carlo. Invece la sicurezza» precisa filo padre Barzaghi «è una parola che significa sine cura, senza preoccupazione. Allora quando c’è un abbandono c’è una sicurezza, non ci sono preoccupazioni. Non c’è battaglia».
E nel finale, quello che Verdi cambiò profondamente nella versione scaligera del 1869 rispetto a quella di San Pietroburgo del 1862, Leonora canta «Lieta poss’io precederti alla promessa terra, là cesserà la guerra santo l’amor sarà».Ecco, sintetizzato quindi il pensiero di padre Barzaghi, «l’abbandono alla misericordia di Dio, la speranza teologale che è sempre sul presente che viviamo». Il futuro andrebbe preparato non indagato attraverso oroscopi, lettura della mano, fondi di caffè, come fa nell’opera Preziosilla predicendo il destino a Don Carlo. «Il cardinale Giacomo Biffi diceva sempre che la nostra contemporaneità non è priva di fede, ma i nostri contemporanei sono creduloni» commenta Barzaghi. «Niente lettura della mano, nella fede è implicita la razionalità». Niente «destino avverso» che bussa alla porta con il do minore di Beethoven o con gli accordi degli ottoni della Forza. Piuttosto un fato «che è l’altro nome che san Tommaso dà alla provvidenza divina» al quale abbandonarsi. «Come nel do minore di Bach».
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Costume
Speciale Scala di Milano - Leo Muscato: «L'opera di Verdi è un reportage di guerra»
Per il regista, La Forza è la migliore opera di Giuseppe Verdi per ricchezza di personaggi e soprattutto per la sua attualità tematica legata ai conflitti. Da qui una direzione intesa come un «piano sequenza» che dal Settecento arriva ai giorni nostri
06 December 2024
Un viaggio nel tempo. Un viaggio nel tempo e nelle guerre che hanno insanguinato, e continuano a farlo, come la cronaca ci racconta quotidianamente. La forza del destino di Giuseppe Verdi che il 7 dicembre inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala è un «reportage di guerra». Così Leo Muscato rilegge l’opera che il compositore delle Roncole scrisse nel 1862 per San Pietroburgo e ripensò, riscrivendo completamente il finale, nel 1869 proprio per Milano.
«La guerra è la cornice dentro la quale raccontiamo quest’opera, una forza del destino in tempo di guerra» anticipa il regista di Martina Franca, al suo primo Sant’Ambrogio scaligero. «Forse sono più emozionato della prima volta, quando ho fatto Il barbiere di Siviglia. La Scala è un teatro che accoglie e l’emozione e l’eccitazione sono contagiose. La commissione per questa Prima è arrivata proprio un mese dopo il rossiniano Barbiere che abbiamo fatto a settembre del 2021 con Riccardo Chailly. Da allora ho iniziato a pensarci e a progettare la mia prima Prima» racconta Muscato. Sul podio di questa Forza ci sarà proprio Riccardo Chailly, direttore musicale del Piermarini. In scena un cast di stelle della lirica. Dopo il forfait di Jonas Kaufmann, Alvaro è il tenore americano Brian Jagde, il soprano russo Anna Netrebko veste i panni di Leonora, il baritono francese Ludovic Tézier quelli di Don Carlo, il mezzosoprano russo Vasilisa Berzhanskaya è Preziosilla, Alexander Vinogradov è il Padre Guardiano e Marco Filippo Romano Fra Melitone. «Personaggi» sottolinea il regista «che con le loro vicende private si stagliano su uno sfondo storico, di guerra, appunto».
Muscato, perché la guerra?
Perché è presente in tutta l’opera, è il fulcro narrativo del racconto, anche dove Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave non la citano esplicitamente. Pensiamo al primo atto, Leonora, promettendo il suo amore ad Alvaro, dice: «Con te sfidar impavida di rio destin la guerra…» quindi vuol dire che per fuggire con lui è pronta anche a sfidare i pericoli della guerra. Il terzo e il quarto atto sono atti di guerra, lo sappiamo. E alla fine, proprio nel quarto atto, la guerra è in corso, è come se fossimo alla fine di una giornata di bombardamenti, con gente provata dalle conseguenze degli spari, che non ha cibo per sfamare i figli. Quando ho iniziato a lavorare a questo progetto, due delle guerre che oggi tengono il mondo con il fiato sospeso, quella in Ucraina e quella in Medioriente, non erano ancora scoppiate. Ma ce ne erano comunque tante. E col tempo, ahimè, il conflitto si è rivelato la cornice ideale e drammaticamente attuale nella quale inserire il nostro racconto. Dovevo capire di quale guerra parlare. Quella del libretto che è una delle tante guerre di secessione del Settecento? O era meglio avvicinarci a Verdi e alle guerre di indipendenza dell’Ottocento? Oppure schiacciare il pedale dell’attualizzazione e portare la vicenda ai giorni nostri?
E quale guerra ha scelto di raccontare?
Una guerra trasversale, che attraversa i secoli nei costumi di Silvia Aymonino. Partiamo dal Settecento del libretto e arriviamo ai giorni nostri. Nel primo atto la guerra è nell’aria e noi siamo nel Settecento, tra i militari del marchese di Calatrava, perché ogni casato al tempo aveva un suo piccolo esercito. Siamo da subito in un contesto militarizzato, Carlo è un soldato e anche Alvaro lo è. Nel secondo atto facciamo un balzo nell’Ottocento per raccontare il reclutamento con giovani leve che si arruolano mentre Preziosilla canta «Evviva la guerra!». Il terzo atto ci porta nel Novecento, alla Prima guerra mondiale, l’ultimo conflitto che si è combattuto corpo a corpo, siamo in trincea, tra prime file e ospedali da campo, dove ci sono soldati feriti, altri che muoiono, altri che scrivono una lettera d’addio. Il quarto atto ci catapulta nella nostra contemporaneità anche se non metto in scena profughi o persone civili, per non ammiccare al Medioriente, all’Ucraina, Myanmar o altri luoghi dove oggi si combatte, racconto piuttosto un mondo di militari, da un parte i vincitori e dall’altra i vinti che chiedono pane e pietà. Uno scenario oggi drammaticamente attuale. E questo provoca in me un’indignazione mista a frustrazione perché di fronte alla guerra ci sentiamo impotenti.
Raccontata così questa Forza inaugurale assume anche un significato politico: la denuncia, come ripete spesso Papa Francesco, che «la guerra è sempre una sconfitta».
La Forza è una delle più belle opere che Giuseppe Verdi abbia scritto, perché dentro c’è tutto, c’è la vita di ciascuno, l’amore, la fede, la violenza (che è spietata), l’odio (che è feroce). Uno dei temi principali che mi commuove, anche perché è una delle mie più grandi paure, è quello di dover abbandonare tutto improvvisamente, di chiudere con la vita che si è fatta sino ad ora per voltare pagina. Nell’opera questo avviene per una banalità, un momento di ira non controllata, un colpo di pistola che parte accidentalmente. E poi c’è la possibilità di redenzione, un tema attualissimo, in un mondo attraversato da devastazioni. Alvaro me lo immagino come un uomo perseguitato da un senso di colpa atavico che non si placa, cerca sempre un modo per morire perché, da credente, sa che suicidarsi sarebbe un peccato che lo porterebbe ad essere dannato. Ecco perché va in guerra, non per la gloria, ma per cercare di morire sul campo di battaglia. Ecco perché accetta di battersi con Don Carlo. Poi nel finale, quando ritrova Leonora morente lei lo convince a perdonarsi, «Piangi e prega...» e lui finalmente dice: «Leonora io son redento, dal cielo son perdonato». E in quel momento hai la sensazione che succeda un miracolo.
Riccardo Chailly come ha accolto il suo progetto?
Da subito con entusiasmo. Appena arrivata la proposta di lavorare insieme a questa Forza, titolo che anche il maestro affronta per la prima volta, abbiamo iniziato a sentirci periodicamente per confrontarci. Abbiamo parlato frequentemente, abbiamo sviscerato insieme l’opera. Così, in un dialogo continuo, abbiamo costruito insieme questo spettacolo. Che ho immaginato come un lungo piano sequenza. Occorreva uno spazio che cambiasse in continuazione e per questo ho chiesto alla mia scenografa, Federica Parolini, un girevole che sarà una sorta di ruota del destino che gira in continuazione per cambiare continuamente scenario. Tutte le maestranze scaligere hanno fatto un lavoro formidabile per mettere a punto questa struttura scenotecnica complessa illuminata dalle luci di Alessandro Verazzi.
La lirica, il cinema, mondi, linguaggi, che, insieme alla prosa, lei frequenta abitualmente.
Senza, però, l’ansia di usare tutti i linguaggi di cui disponiamo. Uso quelli che servono per toccare le corde degli spettatori. La sfida per un regista è quella di trovare ogni volta una strada diversa per rendere comprensibile una storia. Il che non significa semplificarla, perché spesso per rendere più comprensibile una storia occorre renderla più complessa. Per questo si può anche prescindere dalle indicazioni delle didascalie, ma non dalle parole che i personaggi pronunciano/cantano e dal loro significato. Quando si mette in scena un’opera ci si deve confrontare con quello che lo spettatore sa già di quell’opera, di quella storia. E allora devi sorprenderlo, ma usando le stesse parole di sempre. Da piccoli non ci facevamo raccontare sempre le stesse favole, sempre con le stesse parole, ma restandone ogni volta stupiti e affascinati? Succede lo stesso anche con l’opera. Che un tempo era un mezzo di conoscenza, popolare, perché non tutti avevano accesso ai libri. E anche per questo non possiamo far diventare il teatro elitario - certo, i prezzi dei biglietti spesso non sono popolari, anzi - perché andremmo contro la sua essenza, snaturandolo.
Divulgare l’opera anche in tv, non a caso il 7 dicembre La forza del destino andrà in diretta su Rai1 e in moltissimi cinema in tutto il mondo.
E questo è molto importante. Tanto più che il pubblico del titolo inaugurale non è uno solo. C’è il pubblico della Prima, tutto particolare. C’è il pubblico delle repliche, quello scaligero, che frequenta il teatro durante tutto l’anno. E c’è il pubblico televisivo che forse non verrà mai in teatro, ma dobbiamo cercare di catturarlo con un racconto moderno e attuale. E cosa c’è di più drammaticamente attuale della guerra? «Pace, pace mio Dio» invoca Leonora nel quarto atto. La stessa richiesta che i popoli del mondo innalzano oggi: pace!
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Costume
Speciale Scala di Milano - La forza del destino, fra trionfi e scongiuri
La «ventiquattresima opera» di Giuseppe Verdi, dopo 59 anni, torna ad aprire la stagione lirica del Piermarini. A volerla il maestro Riccardo Chailly, che è al decimo «7 dicembre» consecutivo, e chiude così idealmente il suo percorso nel grande compositore
06 December 2024
Facciamo i dovuti scongiuri e troviamo subito il coraggio di nominarla, La forza del destino, il capolavoro verdiano che il 7 dicembre 2024 apre la nuova stagione della Scala. Ogni melomane, critico, musicologo che si rispetti sa che non si dovrebbe mai dire o scrivere il titolo di quella che è considerata l’opera iettatoria per eccellenza.
«La potenza del fato», «L’opera di San Pietroburgo», «L’innominabile», «La ventiquattresima opera di Verdi» sono solo alcune delle perifrasi usate per parlarne senza rischiare di sfidare la sorte, che sia o meno razionale, o anche solo di buon senso. Che poi, andando a cercare le ragioni della nefasta reputazione della Forza, non è che venga fuori granché. Certo, è noto che nel 1960 il povero baritono Leonard Warren fu colpito da un infarto fatale al Metropolitan dopo aver cantato l’aria «Urna fatale del mio destino», che è preceduta dal recitativo «Morir! Tremenda cosa». Ma a essere onesti, non è che le altre opere verdiane abbiano libretti meno sinistri. E poi cosa si dovrebbe dire del tenore Richard Versalle, morto nel 1996, anche lui al Met (stai a vedere che…) durante L’affare Makropulos di Leoš Janácek dopo aver pronunciato la frase «You can only live so long» («Si può vivere solo per un certo tempo», l’opera si dava in inglese).
Folklore operistico a parte, una particolarità nel titolo di quest’opera in effetti c’è. È l’unico nel catalogo verdiano che sia legato a un concetto, e non a un personaggio o a un fatto o a un luogo. Ci sarebbe stato Rigoletto, che in origine doveva chiamarsi «La maledizione», ma l’idea tramontò per ragioni di censura. Peraltro anche nella Forza la parola «maledizione» ricorre diverse volte, 14 per l’esattezza, contando anche verbi e aggettivi derivati. I maledetti sono i due amanti sventurati, Leonora e Alvaro, colti in flagrante dal padre di lei, il Marchese di Calatrava, ucciso da un colpo partito per sbaglio dalla pistola di Alvaro, che l’aveva gettata a terra in segno di resa. Come diceva Cechov, se in un racconto compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare.
Seguono avventure e disavventure di ogni tipo: la Forza è l’opera più eterogenea di Verdi. L’autore noto negli anni giovanili per la cosiddetta «tinta», ovvero per la coerenza stilistica e drammatica dei suoi lavori, mai come in questo lavoro della maturità sperimenta al contrario la varietà delle soluzioni. Tutto cambia continuamente, a partire dagli ambienti: palazzi, osterie, conventi, accampamenti militari; e poi ancora i personaggi: aristocratici, popolani, soldati, zingare, frati e via così, con tragedia e commedia che si mescolano, anzi si accostano mantenendosi irriducibili l’una all’altra. È proprio per questo che in queste ultime settimane di prove Riccardo Chailly ha spesso fatto riferimento al Manzoni per spiegare l’enigma dell’opera. Riferimento che è qualcosa di più di una suggestione, se si tiene conto che Verdi, per la versione della Forza andata in scena alla Scala nel 1869 (sette anni dopo la prima di San Pietroburgo), ripensa completamente il finale, eliminando il suicidio di Alvaro e scrivendo apposta un terzetto catartico, rarefatto, manzoniano appunto, in cui Padre guardiano chiama i due amanti alla preghiera, come una sorta di Fra Cristoforo con Renzo e Lucia - se non fosse che Leonora è morente. E come se non bastasse il librettista Antonio Ghislanzoni, intervenuto per integrare alcune scene per la ripresa scaligera, in quel periodo stava lavorando a una riduzione in libretto proprio dei Promessi sposi per il compositore Enrico Petrella.
Che sia quindi questa varietà romanzesca dell’opera, una delle più sperimentali del Verdi maturo, a renderla meno presente nei cartelloni? Non che non si faccia mai, anzi. Scorrendo le stagioni scaligere dal dopoguerra a oggi, l’opera viene diretta per primo da Victor de Sabata, poi da Nino Sanzogno e Antonino Votto, quest’ultimo in ben tre occasioni, una delle quali con Renata Tebaldi e Giuseppe Di Stefano. Quanto a Maria Callas, non la canta in scena ma la incide in quegli anni con i complessi della Scala diretti Tullio Serafin. Poi la dirige Gianandrea Gavazzeni nel 1965. Ma la rappresentazione entrata negli annali è sicuramente quella del 1978, per il bicentenario della Scala: direzione di Giuseppe Patanè, regia di Lamberto Puggelli con scene di Renato Guttuso, e un cast leggendario con nomi come Montserrat Caballé, José Carreras, Piero Cappuccilli e Nicolai Ghiaurov.
Bisogna aspettare il 2000 per rivedere la Forza a Milano, prima con Riccardo Muti nella versione ’69 (regia di Hugo De Ana), poi l’anno dopo con Valery Gergiev e l’orchestra del Mariinskij nella versione originale di San Pietroburgo, più cupa e nichilista. Tutto sommato si contano diversi importanti allestimenti, ma solo un’altra volta la Forza aveva inaugurato una stagione della Scala: con Gavazzeni nel ’65. Impietoso il confronto con un altro titolo ambizioso di Verdi, Don Carlo, programmato come apertura del teatro per ben cinque volte, compreso lo scorso anno.
Sono molte le ragioni che rendono importante questa scelta di Riccardo Chailly, giunto al suo decimo «7 dicembre» consecutivo. Innanzitutto si completa idealmente il suo percorso verdiano, dopo Giovanna d’Arco, Attila, Macbeth e Don Carlo, e inoltre sembra perfezionarsi la riflessione musicale su «massa e potere» iniziata con Boris Godunov, capolavoro che Musorgskij può aver concepito solo grazie all’influenza in Russia della Forza verdiana. Per questa nuova produzione firma la regia Leo Muscato, che non intende mascherare la frammentarietà dell’opera, ma al contrario esaltarla, esasperando il passaggio del tempo con ognuno dei quattro atti ambientato in un’epoca diversa, dal Settecento ai giorni nostri. Il tutto ricucito scenicamente da un grande girevole che, ineluttabile come il fato, fa convergere i protagonisti verso il loro tragico incontro finale. In scena Anna Netrebko, che con questo arriva alla sua settima «prima», una in più di Maria Callas e di Mirella Freni, che detenevano il primato. Accanto a lei Brian Jadge, tenore americano chiamato a sostituire Jonas Kaufmann che ha rinunciato per ragioni familiari, allungando così, per chi fosse ancora un po’ scaramantico, la lista degli inconvenienti causati da quest’opera.
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La ritirata delle banche colpisce gli anziani
La chiusura di migliaia di sportelli soprattutto in provincia e l’uso estremo del digitale pesa sui più fragili, privi di competenze. Perché tagliare i costi ormai viene prima delle persone
06 December 2024
Una signora, Vincenza Di Gennaro, ha scritto una letterina al Corriere della Sera dove dice così: «Quello che non capisco è la pretesa delle banche che tutti i clienti si rendano autonomi nella gestione online dei propri conti senza diminuire le spese bancarie.
Io sono anziana e non mi abituerò mai al conto online». Questa signora ha ragione da vendere perché la follia d’imporre a tutti la transizione digitale in tempi brevi, anche a chi non potrà mai adattarsi a essa se non rivolgendosi a qualche buon’anima che l’aiuti nel compiere le operazioni online, non riguarda solo le banche ma anche la Pubblica amministrazione. Che, tra Spid e Spod, ha reso, per molti, impossibile un accesso semplice - come dovrebbe assolutamente essere per come è concepito il rapporto fra la pubblica amministrazione il cittadino nella nostra Costituzione - che, invece, viene trasformato in una specie di labirinto, di periplo che richiede, per un accesso comodo e veloce, competenze che spesso il cittadino non possiede. Ma chi se ne frega! Il mondo deve andare avanti, la tecnologia è il futuro e chi rimane indietro sono cacchi suoi. Vi pare questo un modo di ragionare che parta dalla realtà o, piuttosto, un modo di ragionare ideologico che disegna una società che non esiste e nella quale, ormai, in Italia, tutti sono alfabetizzati da un punto di vista digitale e, quindi, possa essere tolta di mezzo l’intermediazione umana in tutti i rapporti tra cittadino e istituzioni, banche comprese, lasciando ai vari computer il ruolo dell’intermediazione che prima era fatta dalle persone?
Gli sportelli bancari in Italia sono sempre meno, come ci dice una ricerca dell’Osservatorio di First Cisl dedicata al fenomeno della desertificazione bancaria e basato sull’elaborazione di numeri messi a disposizione da Istat e Banca d’Italia, «sono sempre meno gli sportelli in Italia; nel 2024 hanno chiuso finora 163 punti... per un totale di 3.296 Comuni, cioè circa la metà a oggi senza filiali. Prelevare contanti in Italia diventa sempre più un’impresa. La desertificazione bancaria continua ad avanzare in lungo e in largo nella Penisola con una media di meno 600 sportelli bancomat all’anno… una tendenza sempre più in crescita in particolare negli ultimi dieci anni e che riguarda ormai quattro Comuni italiani su 10, pari a una superficie di Lombardia, Veneto e Piemonte messi insieme». Sono dati che fotografano una situazione sostanzialmente irreversibile e che non tiene conto del fatto che «in un Paese con oltre 13 milioni di abitanti con più di 65 anni, il risultato è di rischiare di lasciare troppi cittadini, che non hanno dimestichezza con gli strumenti digitali e che spesso non possono spostarsi in auto, completamente sprovvisti di un servizio fondamentale per la quotidianità».
Tra l’altro, il fenomeno riguarda più le piccole città che non le grandi come Milano, Roma e Napoli, cioè riguarda quella fetta di territorio che ha anche meno servizi di trasporti e che non permette, evidentemente, ai più anziani di girovagare in cerca di uno sportello bancomat. Per carità, forse è legittimo che le banche badino all’efficienza e màcinino utili sempre crescenti riducendo il costo del personale. Sono imprese private per cui agiscono nella legittima ricerca del profitto, ma ci sarebbe un articoletto della Costituzione, il numero 47, che, al primo comma, recita così: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina coordina e controlla l’esercizio del credito».
Questo certo non vuol dire che il parlamento possa imporre alle banche un numero di sportelli, di bancomat e di servizi che facilitino la vita di quei vari milioni di italiani, non solo anziani, ai quali nessuno si è premurato di insegnare come usare i computer e come entrare nel mondo digitale. Quello che è certo è che questo modo di fare non incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme perché le difficoltà estreme incontrate da chi non ha pratica digitale nel mettersi in comunicazione con l’istituto certamente non incoraggia e tutela il risparmio. Siamo alle solite. Grandi obiettivi ideologici, come la transizione digitale, anche nel sistema bancario, enormi difficoltà delle persone cui non è dato né il modo né il tempo di adattarsi a questo cambiamento. Strana via di procedere, fa specie quando si sentono affermare concetti tipo la centralità della persona nel credito e altre fandonie del genere. Comunque, questi sono i numeri , affidiamo le conclusioni alle lettrici e ai lettori.
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