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Apple TV+ ha condiviso con i fan il teaser della nuova comedy The Studio, con protagonista Seth Rogen, che è anche sceneggiatore, regista e produttore esecutivo insieme al candidato all'Emmy Evan Goldberg. La nuova serie farà il suo debutto il 26 marzo con i primi due episodi (sono 10 in totale), seguiti da un episodio ogni mercoledì fino al 21 maggio.
Seth Rogen interpreta Matt Remick, il nuovo capo dei Continental Studios in crisi. In un settore in cui i film faticano a rimanere vivi, Matt e il suo team di dirigenti in lotta combattono le proprie insicurezze, mentre si scontrano con artisti narcisisti e con i vili proprietari dell'azienda nella ricerca sempre più effimera di realizzare grandi film. Indossando il vestito buono che maschera un infinito senso di panico, ogni festa, set visit, decisione sul casting, riunione marketing e premiazioni offre loro l'opportunità di un successo scintillante o di una catastrofe che pone fine alla loro carriera. Da persona che mangia, dorme e respira cinema, Matt ha inseguito questo lavoro tutta la vita e ora potrebbe distruggerlo.
“The Studio” riunisce un cast stellare che comprende anche la vincitrice di Emmy, SAG e Golden Globe Catherine O'Hara, la candidata all'Emmy Kathryn Hahn, Ike Barinholtz e Chase Sui Wonders. Il candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award Bryan Cranston apparirà invece come guest star.
Prodotta da Lionsgate Television, “The Studio” è creata dai vincitori di più Emmy Peter Huyck e Alex Gregory insieme a Rogen, Goldberg e Frida Perez. James Weaver, Alex McAtee e Josh Fagen della Point Grey Pictures sono anche produttori esecutivi insieme a Rogen e Goldberg.
Il nuovo progetto segue l'ultima collaborazione tra Apple TV+ e Rogen, la comedy Apple Original “Platonic”, recentemente rinnovata, in cui Rogen è protagonista e produttore esecutivo insieme a Rose Byrne.
In Germania i progressisti consigliano di non rivolgersi agli anziani parenti con dolci vezzeggiativi: potrebbero non trovare lavoro. Assurdo? Di più.
Nella furia di cancellare tutto quello che appartiene al nostro patrimonio naturale, culturale, storico e direi anche esistenziale, di questa furia l’ultima autentica follia è ciò che sta avvenendo in Germania, patria del politically correct divenuto, ormai, la religione totale e assoluta dei progressisti tedeschi. Una tale Ferda Ataman, di anni 46, a capo della commissione per l’antidiscriminazione presso il ministero della Famiglia, dando corso alle direttive della sua ministra, la Verde Lisa Paus, ha consigliato ai tedeschi - udite udite - di non chiamare più le nonne Sueßi Omi che vuol dire «dolce nonnina».
Perché mai, si chiederà una persona normodotata, non si può più dire dolce nonnina o dolce nonnino? Quale ricerca psicanalitica, scientifica, psichiatrica, sociologica ci ha portato alla conclusione di non usare più questo termine? Ebbene, la risposta ce la forniscono Ferda & Lisa, e la risposta andrebbe sottoposta appunto a un bravo psichiatra: questo modo di dire discrimina per l’età e si rischia di non trovare lavoro perché «non giovani» e dunque scartati ai colloqui. Ora, è pur vero che, ultimamente, siamo abituati a occuparci di cose talmente cariche di imbecillità che questa la classifichiamo tra quelle, ma non diminuisce l’effetto di smarrimento e incredulità nei confronti di ciò che succede in questo mondo ormai impazzito, che sembra avere perso qualsiasi livello di ragionevolezza e, soprattutto, di rispetto della realtà così com’è e non così com’è pensata da alcuni mentecatti e mentecatte che ci triturano gli attributi costantemente.
Ma voi potete mai immaginare che, in questo momento storico particolare, dopo decine di anni di pace e dopo che si prospettano scenari di guerra potenzialmente mondiale, due signore tedesche, una politica e una funzionaria, debbano occuparsi dell’espressione «nonnina dolce»? E pensare che le signore in questione, per concepire tali cose e proporle ai tedeschi, vengono anche regolarmente retribuite con stipendi niente male. In sintesi: si paga Ferda & Lisa per pensare, scrivere e consigliare ai connazionali qualcosa di aberrante e irragionevole.
Ormai siamo abituati, purtroppo, al fatto che ciò che è naturale non conti, ciò che appartiene alla nostra natura umana non sia più da prendere in considerazione a favore del «pensiero» di qualche straccione o stracciona che vuole imporci la sua visione del mondo. È vero che siamo in una società dove al posto di papà e mamma si vuole scrivere «genitore uno» e «genitore due» e che, quindi, essendo il nonno il padre del padre o della madre, dovremmo scrivere padre o madre del genitore uno o del genitore due, ma anche questo magari potrebbe essere offensivo; quindi, potremmo chiamare il nonno x e la nonna y così che quando ci si riferisce al nonno paterno si dice x del genitore uno e quando ci si riferisce alla nonna materna si dice y del genitore due. Purtroppo non sto scherzando. Si tratta di scenari possibili.
Vedete, così come c’è la cancel culture che vuole cancellare la cultura passata in quanto omofoba o, comunque, non politically correct - vedi Cristoforo Colombo simbolo della colonizzazione secondo questi ignoranti come capre, o vedi l’eliminazione della cultura greca e romana in quanto focalizzata solo sui diritti dell’uomo bianco (falsità totale) -, dicevamo, così come esiste la cancel culture esiste anche la cancel nature che vuole tirare via la parola nonno o nonna perché potrebbe discriminare.
Ma a questi cerebrolesi non viene in mente che il nonno e la nonna, in quanto mamma e papà di un’altra mamma e di un altro papà, sono previsti dalla natura e non da una legge emanata da qualche Stato? Sanno questi signori che così come il legame con la grande storia ci rende più coscienti di qual che siamo e ci aiuta a crescere nella conoscenza delle nostre radici e dunque di noi stessi, così anche la storia più intima, quella familiare, connette il nipote con le generazioni precedenti aiutandolo - esattamente come nel caso della grande storia - a recuperare il senso di sé stesso e delle sue radici? Le ipotesi sono due: o queste due signore non hanno avuto i nonni o queste due signore non ci hanno capito assolutamente nulla. Propendo per la seconda ipotesi.
Pechino adegua il suo apparato giuridico internazionale. Obiettivo: avere nuovi strumenti nelle controversie con gli altri Paesi. E un’arma in più rispetto agli Stati Uniti.
La Cina di Xi Jinping si pensa definitivamente impero. Di questa sua nuova autocoscienza del potere si è occupato un pregevole studio dell’Institut Montaigne, uno tra i più quotati centro studi francesi, a firma di Mathieu Duchatel e Georgina Wright. L’analisi, intitolata China’s Extraterritoriality: A New Stage of Lawfare, prende in esame l’utilizzo «fuori porta» che Pechino sta facendo del diritto come strumento strategico - da far valere appunto anche all’estero - per rafforzare la sua posizione globale e proteggere i propri interessi nazionali.
Sul piano storico e culturale, l’extraterritorialità del diritto è stata a lungo considerata simbolo di sottomissione perché riportava le menti al «secolo delle umiliazioni», il periodo della storia cinese che va dal 1839 al 1949, cioè dalla Prima guerra dell’Oppio (1839- 1842) fino alla fondazione della Repubblica popolare nel 1949, dopo la vittoria del Partito comunista nella guerra civile contro il Kuomintang. Durante questo secolo, la Cina subì una serie di offese politiche e perdite territoriali a causa di guerre, trattati rovinosi e ripetuti interventi stranieri, che portarono a una significativa perdita di sovranità e dignità nazionale. L’extraterritorialità del diritto era quella degli altri, dal momento che le potenze straniere erano di casa in Cina e vi applicavano le proprie leggi. Oggi questo paradigma è rovesciato e reinterpretato come mezzo per affermare una supremazia cinese.
Sul piano geopolitico, tutto ciò rappresenta una nuova fase del «lawfare», espressione che descrive la guerra guerreggiata a suon di leggi. In particolare, possiamo distinguere diverse principali direttrici. La prima è la difesa o ritorsione contro interventi esterni percepiti come interferenze rispetto alla strategia del Partito. La Cina utilizza per esempio strumenti legali per contrastare sanzioni economiche e restrizioni tecnologiche, principalmente provenienti dagli Stati Uniti. Per esempio, norme come la «Export Control Law» e le «Blocking Rules» mirano a ridurre l’impatto delle sanzioni straniere e proteggere le imprese del Dragone. Così il regolamento sulla lista delle entità inaffidabili del 2020 prende di mira aziende straniere che danneggiano gli interessi cinesi, mentre la legge contro le sanzioni straniere del 2021 permette di rispondere a misure economiche che fanno saltare la mosca al naso agli strateghi di Pechino.
In secondo luogo, il regime ricorre a norme extraterritoriali per giustificare azioni internazionali. È il caso delle rivendicazioni nel Mar cinese meridionale, dove le cronache danno conto con allarmante frequenza di fibrillazioni e incidenti. La strategia reattiva del gigante asiatico, sul piano legale, sta rapidamente cedendo il campo allo sviluppo di soluzioni offensive e coercitive, così da costringere altre nazioni o aziende a conformarsi alle sue politiche. Questo approccio riflette la rivalità sistemica con gli Stati Uniti e il desiderio cinese di riequilibrare l’influenza globale in proprio favore. A farne le spese potrebbe tuttavia essere l’Unione europea, che secondo l’analisi dell’Institut Montaigne non ha ancora adeguato il suo «arsenale» giuridico per contrastare una simile repressione transnazionale. Ancora una volta, in Europa, toccherà fare affidamento sui popoli più determinati. Come i lituani, che, aggrediti dalla Cina per i loro rapporti con Taiwan sul finire del 2021, ebbero il merito di prendere il toro per le corna, determinando un sussulto da parte della Commissione, obbligandola a una riflessione sulle soluzioni giuridiche attivabili in caso di «bullismo» da parte di Pechino.
Vale infine la pena di ricordare che la Cina proietta il suo regime di oppressione interna anche all’estero, prendendo sistematicamente di mira dissidenti cinesi e oppositori politici tramite pratiche come intimidazione, rimpatrio forzato e la minaccia rappresentata dalla creazione in altri Stati di stazioni di polizia per mano degli apparati di sicurezza. Non sono registrate, ma la presenza di queste stazioni è ben nota in Italia e ha formato oggetto di interrogazioni parlamentari. Si ritiene infatti che siano operative in almeno quattro città italiane: Roma, Milano, Firenze e Prato.
Antonio Galdo è un collega la cui firma non è certo sconosciuta ai lettori di Panorama. Per circa vent'anni ha scritto per il nostro settimanale, per poi dedicarsi a inchieste in tv, trovando il tempo di dirigere un paio di giornali e anche di scrivere alcuni libri.
Negli ultimi anni la sua attenzione si e pero concentrata sullo sviluppo sostenibile, al punto da aver fondato un sito che si chiama Nonsprecare.it, dove si parla di stili di vita compatibili con il pianeta e con la necessità di non inquinarlo. Se oggi scrivo di lui è perché una settimana fa mi è arrivata una mail in cui Antonio mi annunciava l'uscita di un suo nuovo libro, dal titolo Il mito infranto: come la falsa sostenibilità ha reso il mondo più ingiusto. Ma come, mi sono chiesto, Antonio si è pentito? In realtà no, nessun ravvedimento. E però Galdo si è reso conto che dietro la cosiddetta transizione energetica verso un futuro ambientalmente compatibile, ci sono tanti imbrogli e non tutto ciò che viene presentato come rispettoso della natura poi lo è davvero.
Mi hanno colpito le prime pagine della sua ultima fatica, dove racconta dello spazzolino da denti. A differenza della maggioranza dei comuni mortali, lui non ne usa uno di plastica, preferendo quelli con il manico di bambù. Ma poi, orgoglioso di non contribuire all'inquinamento con un prodotto che non è riciclabile e dunque poco sostenibile, si rende conto che le setole sono uguali sia che si usi lo spazzolino in plastica sia che il manico sia di legno. E poi scopre che il bambù, bagnandosi rischia di diventare un ricettacolo di muffe e batteri. Insomma, la soluzione cosi bella e sostenibile alla prova dei fatti lo è molto meno. A Galdo ho chiesto di mettere in fila i suoi dubbi sulla transizione ecologica e su quella che ormai sembra un'ideologia che non ammette obiezioni, un dogma a cui cedere senza discussioni. Ne è cosi nata l'inchiesta che trovate nelle pagine interne, cui da parte mia aggiungo solo qualche riflessione.
Credo che questo giornale sia stato tra i primi a scrivere senza imbarazzi del difficile passaggio dalle auto a propulsione termica a quelle a batteria. Le perplessità non erano dovute alla nostalgia per il rombo del motore. No, le vetture elettriche ci affascinano, perché non fanno rumore e hanno prestazioni che spesso superano quelle delle quattro ruote tradizionali. Ma poi arrivano i problemi pratici, primo fra tutti il costo di questi nuovi modelli, che al momento non li rende alla portata di tutti. E non c'è solo la questione del prezzo, ma anche quella della praticità. Un'auto a benzina o diesel (ma anche a gas o Gpl) la rifornisci facilmente, perché l'Italia è disseminata di stazioni di servizio e in pochi minuti si può fare il pieno. La vettura a pile invece non si ricarica nel tempo in cui si può fumare una sigaretta o bere un caffè. Ci vuole molto di più, e chi lavora e della macchina ha bisogno per ragioni di servizio, non può certo attendere mezz'ora e anche oltre.
E poi, sempre per parlare di aspetti pratici, il numero di colonnine per fare «il pieno» di energia continua a essere scarso, senza contare che per alimentare le migliaia di punti di ricarica necessari a rendere competitiva l'auto a pila serve un'infrastruttura che al momento non esiste. Dettagli? Può darsi, ma il prezzo, l'autonomia, la rapidità della ricarica e la disponibilità delle colonnine fanno sì che la mobilità elettrica per adesso sia un'idea fantastica ma soltanto per persone che se la possono permettere. E non apro il capitolo della compatibilità ambientale, ovvero di come sia prodotta l'energia che, grazie a un cavo, immettiamo nel «serbatoio» della vettura a batteria. E nemmeno mi metto a discutere di quanto inquinamento sia generato per estrarre il materiale necessario a fabbricare le pile o quanto costi e come si debba fare lo smaltimento del pacco energetico che consente alle quattro ruote di muoversi senza fare uso di benzina o di gasolio o di qualsiasi altro combustibile. Galdo però non parla solo di macchine elettriche. ma anche di molto altro, smascherando alcuni luoghi comuni. Il che non vuol dire che all'improvviso si sia convertito all'inquinamento. Tutt'altro. Continua a essere un ambientalista convinto e un acceso critico di una società che consuma e spreca troppo. Però ora lo si può definire un ambientalista scettico.
Essere pronti alla nascita del nuovo, coltivare fiducia come «gravidanza di futuro». Un filosofo à la page ci scuote dall’angoscia, il male dell’Occidente. Pecca però di ingenuità politica. E trascura il senso religioso.
Nonna Speranza torna a farci visita con la scusa del Giubileo, a lei dedicato. La vecchia è sempre l’ultima a morire ma da troppo tempo non si vede più in giro. A lei era dedicato il celebre salotto dal poeta Guido Gozzano, di vecchie cose inutili, in disuso, un po’ kitsch. Ma la speranza è da lungo tempo bandita, non rientra negli orizzonti previsionali o negli algoritmi. La speranza è perduta da quando non si ha più fiducia in Dio e nella mano materna della Provvidenza; e da quando non si confida più nella storia e nella politica, nel futuro e nella rivoluzione. Chi si affida ancora alla speranza è considerato un meschino che si attacca a una flebile attesa di futuro; al sud, il tapino appeso a quell’esile filo era chiamato «speranzuolo».
Byung-chul Han, filosofo tedesco-coreano, è invece convinto che la speranza sia l’unico efficace antidoto «contro la società dell’angoscia» in cui siamo immersi e che dà il titolo alla sua nuova opera, edita da Einaudi. Con la freschezza ingenua di chi non proviene dalla stanchezza dell’Occidente cristiano, naufrago dalle speranze, il pensatore venuto da Seoul sforna un ennesimo, breve ma efficace libretto ed esorta a scommettere sulla speranza. Liberiamoci dalla pandemia dell’angoscia, dice Han, e dalla facile tendenza apocalittica; smettiamola di sopravvivere, riprendiamo ad aprirci agli altri, all’Altro. Angoscia e libertà si escludono a vicenda, l’angoscia è il preludio a una società prigioniera. Lo sosteneva già 60 anni fa il conservatore Salvador de Madiariaga nel saggio Dall’angoscia alla libertà. Sull’angoscia, sostiene Han, campano «le destre populiste e alimentano l’odio»; e il regime neoliberale «è il regime dell’angoscia». Il rimedio è la speranza, che è al di là dell’ottimismo e del pessimismo, fa «credito alla realtà», in cui ripone fiducia: «Solo nella speranza noi siamo in cammino. È lei a darci senso e orientamento». La speranza si collega all’amore ed è sempre rivolta al «noi», a differenza dall’angoscia che non genera comunità. Sperare significa essere pronti alla nascita del nuovo; sperare è una gravidanza di futuro, lo sostengo anch’io nel mio ultimo libro Senza eredi. Dobbiamo usare il perdono per il passato e la promessa per il futuro: Han usa categorie cristiane ma al di fuori di ogni contesto e senso religioso.
Qui, infatti, sta la fragilità del suo pensiero e la superficialità della sua osservazione. Han non si chiede da dove derivi l’angoscia e da cosa nasca la speranza, si limita a usare le due categorie in chiave psicologica e sociologica. Ma si può rimediare a un male solo se si individua l’origine, la causa. L’angoscia deriva dal nichilismo e dal relativismo, dalla perdita dei legami comunitari e del senso della vita: quei legami civili, sociali, religiosi, famigliari intorno a visioni della vita, significati e principi, comunitari e trascendenti. Quando denuncia l’uso politico dell’angoscia da parte della «destra populista», impropriamente considerata intercambiabile col «regime neoliberale», dovrebbe rovesciarne la sequenza: è la scristianizzazione, lo spirito radical-progressista, il nichilismo pratico e il relativismo soggettivo a generare quel vuoto e quell’angoscia, a cui quella «destra populista» tenta di dare una risposta. E su cui fonda il suo consenso: promette sicurezza, comunità, difesa dei confini e delle tradizioni, libertà e senso della realtà e della natura. Probabilmente quella risposta è insufficiente, inadeguata, ma non è la causa dell’angoscia, semmai l’effetto e il tentativo di reagire. Il problema è a monte, in chi e in cosa ha generato l’angoscia, la perdita del passato, il vuoto del presente, la paura del futuro, l’assenza dell’eterno. Sono stati spezzati tutti i fili che ci legavano al mondo, al tempo, alla storia e all’avvenire. E siamo piombati nella solitudine globale di massa. Tutto questo ha generato l’assenza di speranza, anzi di più: la sfiducia nella vita e in ciò che ci aspettiamo da essa. Ma per ripristinare la speranza devi coltivare il terreno da cui nasce.
Da tempo abbiamo voltato le spalle alla speranza nella storia. Dal principio speranza di Ernst Bloch siamo scivolati al principio disperazione di Gunther Anders; la teologia della speranza di Jurgen Moltmann si spense nell’angoscia di un’epoca che non vede spiragli oltre sé stessa e vive ripiegata nel presente. Ne scrissi in un saggio intitolato non a caso Dispera bene. È venuta meno non solo la speranza progressista che le cose possano cambiare ma si è persa pure la speranza conservatrice che le cose possano durare. Da lì sorge l’epoca dell’angoscia in cui viviamo: è curioso notare che questa definizione della nostra società sia stata applicata da Eric Dodds, e da una famosa mostra a Roma, alla tarda romanità del terzo secolo. Allora un mondo era tramontato, un altro non ancora sorto. E ora? Per superare l’angoscia non basta dunque ripristinare la parola speranza o l’utopia, appese al nulla: si tratta di darle un corpo, un’anima, una storia, un ritrovato senso dell’essere, non più smarrito nella foga del divenire e nell’angoscia di deperire, fino a scomparire. Anche la comunità, il noi, non è un semplice enunciato altruistico ma passa dai legami reali, carnali e spirituali, naturali e culturali in cui viviamo. Predisporsi alla nascita del nuovo significa aprirsi alla natalità e a un pensiero natale o neonato. Dopo Nonna Speranza nascerà sua nipote e porterà il suo nome.
Da una parte ci sono i discorsi sul presente, sul futuro, sui cambiamenti del rapporto fra persone e lavoro dopo il Covid, sulle nuove dimensioni dell’impegno professionale che vedano una maggiore quantità di tempo lasciata libera, quindi una dimensione del lavoro marginale rispetto alla vita nel suo complesso. Discorsi. Poi c’è da mettere insieme il pranzo con la cena e allora torna la dimensione reale di ciò che si fa, quella che prevede orari normali, uno stipendio degno e, possibilmente, un’occupazione non «a intermittenza». Sembrava che il sogno del posto fisso si fosse incamminato sul viale del tramonto, snobbato dalle giovani generazioni, dai Millennials, dalla Generazione Z refrattaria al famoso impiego dietro a una scrivania.
Intendiamoci, quei giovani che vanno ai colloqui e come prima domanda pongono quella relativa al tempo libero hanno una concezione dell’impegno un po’ particolare che è la seguente: faccio quello che mi pare e questo è la parte fondamentale della mia vita poi, nel caso, lavoro anche. Molti di questi sono i cosiddetti «figli di papà» che sanno benissimo di avere soldi indipendentemente dall’impiego ma, purtroppo, esclusi loro, ce ne sono molti altri che non fanno di conto finché il conto non glielo presenta la vita e cioè finché non abbandonano il tetto familiare dove mangiano, bevono, dormono ed escono di casa - come si dice - lavati e stirati. Basti pensare che in Italia la media dell’età alla quale si lascia la famiglia d’origine è 34 anni (la più alta in Europa, dove invece è intorno ai 24). Non tutti questi, anzi non la maggioranza, sono giovani che stanno lì perché non potrebbero stare altrove. Questo spiega molto di ciò che avviene nei colloqui di lavoro.
Ma torniamo al famoso posto fisso e, in particolare, torniamo a quello «pubblico», cioè all’interno della pubblica amministrazione. Ebbene, sette italiani su 10 ne sono attratti. Ce lo dice l’indagine Barometro PA. Basti pensare che nel 2024 saranno 1,3 milioni i candidati a questi impieghi. Dicevamo prima che i discorsi stanno a zero perché, alla fine, a parte tutti i sofisticati sociologismi, ci troviamo davanti a un ritorno massiccio costituito dalla ricerca di stabilità. Del resto questo non deve stupire perché nel nostro mondo la sensazione di instabilità dopo la pandemia, con le guerre, con mezza Africa in fiamme, ha pervaso larga parte della popolazione e non vede solo chi non vuol vedere. Nell’incertezza generale un lavoro stabile torna a giocare un ruolo principe.
Giova ricordare qualche numero: i pubblici dipendenti nel 2022 toccavano i 3,7 milioni dei quali 2,35 sotto i 55 anni e ben 1,35 sopra i 55 anni. Di questi oltre un terzo potranno andare in pensione nei prossimi 10 anni, si tratterà di oltre un milione e 300 mila posti di lavoro. Numeri imponenti. Oggi la classe di età più rappresentata è quella tra i 55 e i 59 anni. Il fatto di trovare la pubblica amministrazione attrattiva come datore di lavoro è dato, per il 28 per cento, perché considerata un’esperienza professionale importante, per il 44 (che resta comunque la risposta predominante) come un impiego stabile. È interessante rilevare anche che ad attrarre sono soprattutto i profili «giuridici», cioè i laureati in legge, mentre per i profili più tecnici, quali ingegneri informatici, geologi, architetti, la Pa soffre da anni la concorrenza del settore privato dove i laureati preferiscono rivolgersi, in prima istanza, perché magari scontano una maggiore instabilità e incertezza del posto fisso, ma possono ambire - in caso fortunato - a stipendi più alti o a remunerazioni che, nel tempo, possono arrivare a livelli importanti. Il pubblico è ancora percepito come legato a una carriera collegata all’anzianità piuttosto che ai risultati. Purtroppo, questo fatto è largamente veritiero.
Che ci dice tutto questo? Una cosa semplice: le previsioni futurologiche che ci venivano propinate durante il Covid e anche dopo, e in particolare quella «Nulla sarà più come prima», si sono rivelate, nel migliore dei casi, delle fandonie. Nel peggiore dei casi, scenari che hanno impegnato cervelli e istituzioni anche accademiche per mesi - nei quali si è tentato di costruire una rappresentazione del mondo del lavoro per il domani - che di fronte al classico posto fisso pubblico (che sembrava un sogno delle generazioni passate) si sono sciolti come neve al sole. Alla fine, continuano a prevalere i metodi per mettere insieme il pranzo con la cena, e possibilmente anche la prima colazione, magari al bar: cappuccino e brioche.
Ve n’eravate accorti? Alcuni tra i più efficaci slogan di Donald Trump non sono suoi. La parola d’ordine «Otterremo la pace attraverso la forza», e la domanda (retorica) posta agli elettori «State meglio oggi, o quattro anni fa?», impiegate nella campagna trumpiana 2024 per scavare un fossato contro il presidente uscente, Joe Biden, non sono affatto nuove. Risalgono per l’esattezza al 1980, quando - ripetute per mesi - misero le ali a un altro grande candidato repubblicano alla Casa Bianca: Ronald Reagan, che fu poi presidente dal 1981 al 1989. Anche il fortunatissimo slogan «Make America Great Again», che con l’acronimo «MAGA» ha riempito milioni di berretti e t-shirt, e che oggi è il simbolo del 47° presidente degli Stati Uniti, non ha nulla d’inedito: fu Reagan, chiudendo la convention repubblicana che 45 anni fa lo aveva appena scelto come candidato, a usare la frase «Let’s make America great again». Trump ha solo cancellato le due parolette all’inizio.
Questi curiosi paralleli tra Ronald & Donald sono passati abbastanza inosservati. Forse perché i due presidenti, a prima vista, hanno personalità diverse. Tanto l’immagine pubblica di Trump è aggressiva e ruvida, quanto quella di Reagan era affabile e cordiale, quasi «berlusconiana» (online sopravvivono i video di alcune tra le mille barzellette che era solito raccontare dal palco). Donald è un protezionista, mentre Ronald era un fautore del libero scambio. Trump non ha quel che si dice una visione espansiva dei diritti civili, ed è ostile all’immigrazione illegale, mentre Reagan in questi campi era molto più laico e liberale, anche se va ricordato che era un anti-abortista, e ai suoi tempi non esistevano né gli eccessi della «cancel culture» né le follie dell’ideologia «gender» o di quella Woke, e le spinte migratorie non avevano la minacciosa carica di oggi. Eppure le similitudini tra Reagan e Trump sono intense. Non solo perché entrambi, prima di entrare in politica per la destra repubblicana, erano stati elettori democratici. E Ronald fu detestato dalla sinistra, in patria e in Europa: fin dall’inizio della sua presidenza venne ridicolizzato e maltrattato dai media progressisti, per essere poi descritto come un pericoloso reazionario. Proprio come da un decennio accade a Donald.
Entrambi i presidenti, inoltre, sono sfuggiti a un agguato mortale. Il 30 marzo 1981 Reagan fu colpito per strada a Washington da uno dei sette colpi di pistola esplosi da John Hinckley: il proiettile gli trapassò il polmone e si fermò a 25 millimetri dal cuore. E Trump il 13 luglio 2024 è sopravvissuto al colpo di fucile sparato a 150 metri di distanza da Thomas Matthew Crook nel comizio di Butler, in Pennsylvania: il colpo l’ha ferito a un orecchio, sfiorandogli il cranio per soli 15 millimetri. Usciti dall’ospedale, sebbene nessuno dei due avesse mai mostrato grande devozione, sia Reagan sia Trump hanno detto di essere stati «salvati dalla mano di Dio». Le storie dei due presidenti si sovrappongono anche in campo economico e fiscale. La «Reaganomics» degli anni Ottanta e il «Tax cuts and jobs act» del 2017 si sono posti lo stesso obiettivo: stimolare la crescita riducendo la pressione tributaria. Reagan tagliò le aliquote, riducendo la massima dal 70 al 28 per cento. Nel primo mandato, Trump ha ridotto l’aliquota per le imprese dal 35 al 21. Risultati? Il Pil americano accelerò a una media del 3,6 per cento per tutti e otto gli anni di Reagan, e al 2,6 per cento nei primi tre anni di Trump, dal 2016 al 2019 (nel 2020 scoppiò il Covid, e a quel punto il mondo si fermò); l’occupazione alla fine del mandato di Reagan era aumentata del 3,5 per cento, e del 4,7 alla fine del triennio trumpiano.
È in campo internazionale, però, che i collegamenti tra Ronald e Donald sono più evidenti. Reagan prese in mano gli Stati Uniti dopo i disastri causati da Jimmy Carter, il presidente democratico che nel 1979 aveva permesso l’invasione sovietica dell’Afghanistan e non aveva per nulla colto i rischi della rivoluzione degli Ayatollah in Iran, antefatto e prologo di decenni di terrorismo islamico. Nel 2016 Trump è arrivato alla Casa Bianca anche grazie agli imperdonabili errori compiuti sullo scacchiere internazionale da Barack Obama, che dopo aver annunciato nel 2009 il «disimpegno americano a livello mondiale» aveva ritirato gli Stati Uniti dall’Iraq e dal Medio Oriente, lasciando campo libero alla Russia, all’Iran e soprattutto alla Jihad, tanto da permettere la nascita dello Stato islamico in Iraq e Siria, e l’esplosione globale del terrorismo. Trump oggi è tornato al potere anche grazie al disastro lasciato da Joe Biden, che dopo aver devastato l’immagine degli Stati Uniti con l’ingloriosa ritirata dall’Afghanistan, nell’agosto 2021, ha rinunciato alla deterrenza militare: così ha permesso l’invasione russa dell’Ucraina e l’espansione delle ambizioni strategiche della Cina.
L’inconsistenza di Biden, poi, ha permesso ciò che settant’anni di politica estera americana avevano sempre scongiurato: l’alleanza anti-Occidente tra Mosca e Pechino. Reagan non fu compreso in tutta la sua grandezza se non quando, dopo otto anni di contrapposizione diretta all’Unione Sovietica e dopo aver aumentato la spesa militare del 54 per cento tra il 1981 e il 1985, fu lui a vincere la Guerra Fredda e a far cadere «l’Impero del Male». Trump ha usato i suoi primi quattro anni giocando un’immensa partita economica e militare contro la Cina, il grande avversario strategico dell’Occidente.Oggi deve fare fronte contro il nuovo «asse del Male» tra Vladimir Putin e Xi Jinping, allargato all’Iran. Una partita quasi più difficile di quella del vecchio Ronald.
No, l’armocromista sarebbe stata assoldata soltanto dieci anni più tardi, con incerti risultati peraltro. In quel giugno 2013, invece, Elly Schlein è ancora una giovane antagonista: giacca grigia, maglia arancione, grandi speranze. E quando la candidatura al Quirinale di Romano Prodi viene fiocinata da 101 parlamentari Dem, la futura segretaria si scapicolla sotto casa del Professore, traboccante di stima e deferenza. Gli consegna una maglietta, con le firme dei ben più eroici 101 militanti di Occupy Pd, per risarcire «la ferita enorme che ci hanno aperto». Prodi, ricevuto il dono simbolico, bofonchia: «La politica è fatta così. Ed è già la terza volta. C’ho fatto l’abitudine...». Al culmine dell’insincerità, aggiunge: «Anche i colonnelli vanno in pensione». La prostrata Elly dissente: «Sarebbe meglio però che andassero in pensione altri», piuttosto che «un simbolo come lei». Implorazione finale: «Ci dia ancora una speranza in questo partito. Alcuni di noi, io per prima, si devono tesserare. Vorremmo tornare a farlo insieme».
In ossequio alla migliore tradizione della commedia politica all’italiana, adesso le parti si sono rovesciate. La generalessa Elly resta asserragliata nella trincea del Nazareno. E il tanto ammirato Romano cerca di stanarla. A ottantacinque anni continua a cecchinare: critiche, ingerenze, grandi manovre. È il comandante emerito dei dissidenti cattolici, contrari alla deriva movimentista. Si sono pure riuniti a Milano, per un convegno organizzato dall’ex ministro Graziano Delrio. Prodi, in videoconferenza, ha scomunicato la segretaria mangiapreti e benedetto i nuovi apostoli: «Se si vogliono vincere le elezioni c’è bisogno della sinistra e di una parte che vada più verso il centro». Certo, la conseguente ideona non è proprio originalissima: far rifiorire l’appassita Margherita. Ma è il sulfureo sottotesto, condiviso da mezzo Pd, quel che conta davvero: con Elly non vinceremo mai. Il fondatore dell’Ulivo s’è pure adoperato per cercare una valida alternativa. Alla fine, l’epigono prescelto sarebbe Ernesto Maria Ruffini: già direttore dell’Agenzia delle Entrate, figliolo di un ex ministro diccì e nipote di un compianto cardinale. Al momento, certo, sembra avere il carisma di uno scaldabagno. Difficile, poi, che il capo degli esattori possa incantare un popolo vessato dal fisco. Il correntone riformista, invece, predilige il regolamento di conti interno. Ovverosia: abbandonare il radicalismo di Elly, che continua a dare il meglio in contesti settantottini e gay pride, per tornare al più rassicurante passato. E tra le vecchie ed evocate glorie, nessuno scalda i cuori come «Er Moviola»: Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo, che ha pure partecipato alla riunione di«Libertàeguale» a Orvieto.
Agatha Christie avverte: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Dopo i due convegni, è intervenuto persino il mentore di Elly, quel volpone di Dario Franceschini. Il campo largo è un fallimento, spiega a Repubblica: «I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo». Occorre marciare divisi alle elezioni, per poi colpire uniti tentando improbabili alleanze. La strategia maoista sconfessa però i disperati tentativi della segretaria dem, già definitasi «testardamente unitaria».
Ecco l’ennesimo indizio, appunto: il tradimento di «Giuda» Franceschini, che già pugnalò Enrico Letta nel 2014. E dunque, la decisiva prova: vogliono sbarazzarsi di Elly. Il prima possibile, pure. Del resto, ad aprile 2025 diventerebbe la terza segretaria più longeva della storia del Pd, dopo Renzi e Pier Luigi Bersani. Due anni filati. Per i dem, un’eternità. E poi, c’è l’incrollabile e fondatissima certezza: contro Giorgia, alle prossime politiche, rimedierebbe un’epocale figuraccia. Non ne sono convinti solo i machiavellici colleghi, tra l’altro. Nutrono considerevoli riserve anche celebri simpatizzanti. La cantante Elodie, regina del pop italiano, ora informa: «Sono di sinistra ma non voto Schlein, non ha carisma». Il giornalista Corrado Augias, venerato maestro d’area, su Elly sorvola: «Passerei alla prossima domanda», dice intervistato dal Corriere della Sera. Non a caso in via della Scrofa, quartiere generale di Fratelli d’Italia, della possibile antagonista si parla sempre con entusiasmo: «Che Dio ce la conservi».
Allarme rosso, dunque. Serve Romano: il padre nobile, il creatore dell’Ulivo, l’unico a vincere un’elezione nell’ultimo trentennio. Il «simbolo» che faceva palpitare la giovane Elly. Nel lontano 2013, appunto, lo segue allora tra i vicoli bolognesi, per consegnargli quel simbolico attestato di imperitura stima. La sgualcita maglietta, colma di firme scarabocchiate dai speranzosi militanti: «Sono indelebili, eh». Come lui, d’altronde. È scatenatissimo, Prodi. Non solo contro il governo. Felpato e perfido, se la prende pure con la vecchia estimatrice. Gliel’ha giurata da quando ha osato non ascoltarlo, prima delle ultime europee. Lei, per non venire annichilita da Meloni, capolista civetta. Lui, ex presidente della Commissione, in plateale disaccordo: «La sua candidatura è una ferita alla democrazia». Lei abbozza: «Io Prodi lo ascolto sempre, per me è un punto di riferimento». Lui se la lega al dito: con lo spago bello spesso.
Elly, intanto, candida tutti i «cacicchi» acchiappavoti: Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Dario Nardella, Matteo Ricci. Loro in esilio a Bruxelles. Lei spadroneggia a Roma, cinta da improbabili e ignoti fedelissimi. Anche alle successive amministrative si limita a mettere il cappello arcobaleno sui prescelti: dalla sindaca di Firenze, Sara Funaro, alla governatrice umbra, Stefania Proietti. Per il resto, fa quel che può. Emula il massimalismo della Cgil di Maurizio Landini. Continua a vagheggiare un’alleanza con i Cinque stelle di Giuseppe Conte, più esitante che mai. Si fa corteggiare da Renzi, colui che aveva guidato la rivolta per allontanare Prodi dal Quirinale. Il male assoluto, insomma. Tanto che lei, nel 2015, lascia i democratici per le presunte pulsioni berlusconiane dell’allora premier e segretario. Lo riaccusa di tradimento a ottobre 2022, il giorno dell’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato: «Vergognoso! Hanno aiutato la destra, come i 101 che tradirono Prodi». Sempre lì, appunto, si torna. Eppure, con questa malassortita campagnia, vagheggia la riscossa alle prossime politiche. La loro debolezza, immagina, sarà la sua forza. Momento propizio. Elly contro Giorgia.
Gli altri eccepiscono, ovvio. Ma non basta. Sa essere spietata, la segretaria. E il partito non pullula certo di valorosi. Serve il ritorno dell’indimenticabile fondatore, che nulla ha da perdere. Prodi inforca ancora la bici. Ha fiato e gambe. «Schlein ha recuperato una valanga di consensi, ma non potrà mai vincere da sola» annuncia. «Bisogna creare la coalizione» insiste. «Un mono partito capace di esprimere una maggioranza in grado di governare è un pio desiderio» suggella. La generalessa dem è senza esercito, ma coltiva smodate ambizioni. Mentre aspetta e spera di sfidare Meloni, si prepara alle prossime regionali. Muove pedine, redige patti, elabora strategie. Solito problema, però: tra i più devoti, nessun nome è spendibile. Le tocca chiamare da Bruxelles i riservisti. In Puglia punta su Decaro, ex sindaco di Bari. Nelle Marche ipotizza Ricci, già alla guida di Pesaro. In Toscana avanza l’uscente, Eugenio Giani, ma scalpita pure il nostalgico Nardella.
Insomma, l’ex leader di Occupy Pd è riuscita nel dichiarato intento giovanile: invadere il Nazareno, per far fuori i soliti noti. Ma dopo la fallita rivoluzione arriva sempre la restaurazione. I destini tornano nelle mani di stagionati potentoni. L’infaticabile Prodi è pronto a scollinare. «Consegna effettuata!» esulta Elly su Facebook, nel lontano 2013. «C’è ancora un motivo di credere nel Pd, e sta nell’entusiasmo e la passione di chi lo cambierà». Adesso, invece, l’idolatrato Professore boccia la supponente allieva. Si sa: non far del bene, quando non sei pronto all’ingratitudine. Ma poi: non le aveva annunciato la pensione? E comunque: chissà dov’è finita quella dannata maglietta…
Non so quanti sappiano che cosa vuol dire l’acronimo «Acab», ma di certo molti avranno visto i manifesti affissi in alcune città, con cui Netflix, colosso americano di video on demand (cioè a pagamento), reclamizza la serie tv dedicata alla polizia italiana. Per chi non lo sapesse, e non avesse avuto modo di vedere le puntate dedicate al reparto mobile della Questura di Roma, Acab sta per All Cops Are Bastards, ovvero tutti i poliziotti sono bastardi, un motto che ha le sue radici in Inghilterra, rispolverato dagli skinheads negli anni Settanta per gli scontri allo stadio e diventato nel tempo, come spiegano le recensioni della serie tv, «un richiamo universale alla guerriglia nelle città, nelle strade, negli stadi». Ovviamente contro la polizia.
Negli ultimi anni dello slogan si è appropriato il movimento Black Lives Matter (che si traduce con «Le vite dei neri contano»), nato in seguito alla morte di George Floyd, un americano di colore deceduto per soffocamento durante l’arresto da parte della polizia. Derek Chauvin, l’agente che immobilizzò Floyd premendogli per otto minuti il ginocchio sul collo, è stato condannato a 22 anni di carcere, ma questo non ha impedito che in tutti gli Stati Uniti si scatenassero manifestazioni e violenze contro le forze dell’ordine, accusate di brutalità ed etichettate con l’acronimo Acab: tutti i poliziotti sono bastardi.
La lunga premessa, sulle origini di uno slogan, era necessaria per inquadrare la serie tv. Preceduta da un film di qualche anno fa, tratto da un libro scritto dal vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e dedicato agli scontri del 2001 a Genova, Acab racconta la vita del terzo dipartimento della squadra antisommossa della Polizia di Roma: sei episodi per descrivere un branco in divisa disposto a tutto pur di fronteggiare (e malmenare) figli di papà votati alla rivoluzione, ambientalisti che vogliono salvare il mondo, immigrati vittime del razzismo occidentale, tifosi invasati dalla passione per la loro squadra e No Tav dediti alla rivolta permanente.
La serie è arrivata in tv con grande tempismo, dopo le accuse a polizia e carabinieri di fare un uso violento della forza. Prima l’indagine contro gli agenti che a Pisa hanno respinto una manifestazione studentesca che cercava di rompere il blocco disposto da chi doveva garantire l’ordine pubblico. Poi il caso Ramy Elgaml, trasformato da inchiesta contro chi si è sottratto al controllo delle forze dell’ordine, provocando una vittima, a processo contro gli inseguitori, colpevoli prima ancora di essere giudicati di aver fatto il loro mestiere, ovvero di aver cercato di fermare chi fuggiva. Maurizio Caverzan, collaboratore di Panorama e grande esperto di tv, scrivendo delle manifestazioni scatenatesi a Milano e in tutta Italia per protestare contro la morte del giovane egiziano, deceduto durante l’inseguimento, ha parlato del tentativo di trasformare Ramy nel George Floyd italiano e i cortei contro le forze dell’ordine, in cui sono rimasti feriti diversi agenti, delle prove generali per dare vita a un Black Lives Matter in salsa nazionale, magari con un migrante al posto di un «black».
«Se mancava un manifesto creativo della rivolta contro gli agenti assassini, da cui i leader della sinistra non hanno preso le distanze, c’è da temere che (con Acab, ndr) sia stato trovato», ha scritto proprio Caverzan. Ecco le rappresaglie del reparto mobile in val di Susa contro i militanti dei centri sociali dopo che il capo della squadra mobile rimane a terra colpito da una bomba carta, il manifestante ridotto in fin di vita, le prove nascoste, la solitudine di agenti che sono descritti come frustrati, razzisti, machisti, ovvero un branco di lupi in divisa, composto da uomini borderline, che fanno della forza il loro credo e la loro sola ragione di esistere e di avere un posto nel mondo. «Sono diventato come voi», dice il nuovo capo del reparto al suo predecessore, dopo aver quasi ucciso un uomo.
È la divisa che trasforma anche un funzionario democratico in un poliziotto violento. «Alla fine, l’unica cosa che conta è la legge del clan. Un clan che somiglia sempre di più a quello di Gomorra», scrive ancora Caverzan. In effetti è così. Camorra e forze dell’ordine nella serie in cui tutti i poliziotti sono bastardi appaiono speculari, accomunati dalla stessa logica di potere e violenza. Del resto, il produttore della serie è l’ex regista della traduzione video del film di Roberto Saviano e la casa di produzione è la medesima. Dunque, la polizia somiglia molto a un’associazione a delinquere. Dove vigono alcune regole che si chiamano sopraffazione, paura e omertà. Il manifesto per i prossimi cortei contro gli agenti è servito.