Panorama
Difesa e Aerospazio
10 November
Mar Rosso, nuovi attacchi Usa agli Houthi ed esercitazioni congiunte con l'Egitto
Nella serata di ieri, sabato 9 novembre, gli Stati Uniti sono tornati a condurre una serie di attacchicontro tra depositi di armi dei ribelli Houthi. Secondo l'intelligence statunitense tali struttureospitavano ordigni destinati a essere utilizzati per colpire le navi nel Mar Rosso e nel Golfo diAden, con componenti provenienti dall'Iran, da sempre regime sostenitore dei ribelli yemeniti edelle azioni di risposta alla guerra di Israele a Gaza contro Hamas ed Hezbollah. A metà ottobre,dopo più di un anno di attacchi degli Houthi contro navi commerciali e militari, il Segretario allaDifesa Lloyd Austin aveva annunciato che gli Stati Uniti avevano colpito il gruppo militante usandoper la prima volta bombardieri stealth (a bassa visibilità radar) di tipo B-2, affermando di averautorizzato gli attacchi su ordine del presidente Joe Biden per “degradare ulteriormente” le capacitàdegli Houthi. Quello dei grandi bombardieri, come i B-52 appena trasferiti in Medio Oriente,ovvero aeroplani che possono trasportare un carico bellico molto più grande dei jet dacombattimento, avrebbe dovuto essere un chiaro messaggio all'Iran, con Austin che in più occasioniaveva spiegato che gli Stati Uniti possono colpire obiettivi “che i nostri avversari cercano di tenerefuori dalla portata, non importa quanto siano profondamente sepolti, rinforzati o fortificati”. Disseanche: “Continueremo a chiarire agli Houthi che ci saranno conseguenze per i loro attacchi illegali esconsiderati”. Appare quindi chiaro che da circa un anno, ovvero dall'inizio della guerra tra Israele eHamas, Washington abbia progressivamente autorizzato un rafforzamento della posizione militareUsa nella regione e che ora il coinvolgimento aumenti ancora con l'estensione del conflittoisraeliano contro Hezbollah in Libano.Al momento le forze statunitensi in questa zona di operazioni sono formate da un gruppo d'attaccocomposto da portaerei, cacciatorpediniere lanciamissili, da un gruppo anfibio con capacità di sbarcoe un'ampia gamma di velivoli multiruolo, anche se tra quelli leggeri e imbarcati la parte del leone lafanno i Boeing EA-18G Growler che operano dalla portaerei Uss Theodore Roosevelt.Intanto, nella settimana che si è appena conclusa, il cacciatorpediniere lanciamissili Uss Stockdale(in sigla Ddg 106), nave della classe Arleigh Burke e la corvetta Ens Abu Qir (F 941) di classe El-Suez della Marina militare egiziana hanno condotto un'esercitazione congiunta nel Mar Rosso cheera cominciata il 19 ottobre. Lo scopo era rendere gli egiziani in grado di operare nelle modalitàdelle forze occidentali, infatti, precedentemente all'esercitazione, durante la visita della naveStockdale al porto di Safaga, in Egitto, il comandante Lauren Johnson e il commodoro della Marinaegiziana Ramy Ahmed Ismael Mohamed, comandante della base navale del Mar Rosso, si eranoscambiati il comando delle operazioni per rafforzare l'interoperabilità tra la Marina degli Stati Unitie quella egiziana. Il comandante Johnson ha recentemente affermato: “Vedere la Stockdale e la AbuQir navigare insieme dimostra la partnership e l'impegno di Stati Uniti ed Egitto nel mantenere lalibertà di navigazione e la sicurezza dei mari. Questa esercitazione è stata una degna conclusionedel periodo trascorso in Egitto. Non vediamo l'ora di sostenere la continua relazione tra le nostrenazioni”. In mare le due unità hanno effettuato manovre ravvicinate e comunicazioni tattiche utili afar mantenere all'Egitto il ruolo di primo piano nella stabilità e nella sicurezza nella regione senzadover rallentare le operazioni della Quinta Flotta degli Stati Uniti che attualmente deve pattugliarecirca 5 milioni di km quadrati di acque tra il Golfo Persico, il Golfo dell'Oman, il Mar Rosso, partidell'Oceano Indiano e i tre punti critici della regione, ovvero lo Stretto di Hormuz, il Canale di Sueze lo Stretto di Bab al-Mandeb. La presenza militare egiziana, che nel Mar Rosso è di casa, èfondamentale per il mantenimento di un equilibrio militare nella zona, nonché per dimostrarel'atteggiamento moderato del governo del Cairo nei confronti delle nazioni vicine.
È dedicato a Hitler e Mussolini l’ultimo libro di Bruno Vespa. Ma dall’inchiesta sul passato il giornalista allarga poi l’approfondimento al presente, esplorando coppie politiche come Meloni-Schlein e Renzi-Conte. E al lettore offre alcuni retroscena inediti.
Mussolini-Hitler ma anche Meloni-Schlein, Conte-Renzi, Salvini-Vannacci. Vite parallele. Con la grande Storia che nella seconda parte lascia il posto all’attualità cucinata con originali approfondimenti e intriganti retroscena. È la formula classica di Bruno Vespa al suo 35º libro, edito da Mondadori e Rai Libri, titolo Hitler e Mussolini, sottotitolo illuminante «L’idillio fatale che sconvolse il mondo (e il ruolo centrale dell’Italia nella nuova Europa)». Ieri e oggi, tutto si tiene. Un menù collaudato, un classico sugli scaffali alle prime brume. Perché nel Paese del premierato e del campo largo, senza il saggio del patriarca degli anchormen televisivi non c’è risposta definitiva ai questiti della politica. E laggiù in fondo non c’è neppure Natale. Bruno Vespa, fondere storia e attualità è una formula vincente. Come nasce l’idea?Gli italiani sono appassionati di storia più di quanto non s’immagini. E poi di attualità, con approfondimenti e retroscena che non mancano mai. Ho aggiornato il libro con tutte le novità fino all’ultimo minuto; ho il vizio del cronista, amo raccontare la storia in presa diretta come se fosse cronaca e l’attualità come se fosse già storia. La formula è nata 20 anni fa con Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. Ha funzionato e ho continuato. Molti suoi libri hanno Mussolini nel titolo, un nome che funziona sempre.È un passato che non passa, ancora troppo recente per essere sepolto, tra l’altro rinverdito da polemiche e motivazioni indebite. Mussolini è sempre attuale. Grazie a un eroe nazionale come Charles De Gaulle, i francesi hanno dimenticato più in fretta la Repubblica di Vichy di quanto non abbiamo fatto noi con la Repubblica di Salò. E dire che era molto più estesa quella francese, con annessi e connessi.È vero che gli italiani non erano fascisti ma mussoliniani con il culto della personalità?Fino al 1937 compreso, lui aveva un consenso enorme, diventato ancora più grande dopo la campagna d’Etiopia, al termine della quale applaudirono anche gli antifascisti come Carlo Rosselli. Nel 1935, alla consegna dell’oro alla patria, perfino l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster donò l’anello pastorale. Poi, nel 1938, il duce si infilò nella follia delle leggi razziali e iniziò il disastro. Ma questo lo racconto nel prossimo libro. Comunque Mussolini ha avuto una storia diversa rispetto a Hitler.In che senso?Ha asservito il partito allo Stato mentre Hitler ha asservito lo Stato al partito. Nel libro c’è la storia parallela dei due dalla nascita al 1937, anno della visita a Berlino del duce. All’inizio Mussolini detestava il führer, lo considerava un isterico. Vengono affrontate anche le avventure galanti dei due signori e la parte romantico-sessuale è estesa.La sinistra teme il ritorno del fascismo. Può accadere?Nessuna possibilità, è impensabile. Ma nemmeno una nostalgia accentuata sarebbe credibile. Consideri che neanche un terzo dell’elettorato di Giorgia Meloni è missino; sono quasi tutti liberali, cattolici, conservatori. Lo dice anche l’europarlamentare Nicola Procaccini, ripreso nel filmato di Fanpage sui giovani di destra: «Io e Giorgia non siamo mai stati fascisti neppure da bambini». Non esiste proprio. Dopo due anni di governo, Meloni cresce nei sondaggi. Invece dell’uomo forte piace la donna forte.
È un dato di fatto, è il segno trasversale del successo della donna italiana. Lo dimostra anche la leadership di Elly Schlein. Una svolta pure questa perché la sinistra è sempre stata fortemente maschilista. In generale è un interessante cambio di paradigma. In più Meloni ha una popolarità e una legittimazione internazionale che un primo ministro italiano non aveva da tempo. Dieci giorni fa Le Monde, bandiera della sinistra intellettuale francese, è arrivato a scrivere: «Divenuta maestra del gioco politico, Meloni in due anni ha saputo imporsi a Roma come a Bruxelles».
Un miracolo dovuto solo al carisma?
No, anche alla congiuntura internazionale favorevole. Macron sta messo male, Scholz è un morto che cammina, Sánchez è in una situazione paradossale, l’economia va bene ma basta uno starnuto dei catalani per farlo cadere. Londra ha il mal di testa, l’America non ne parliamo. Meloni al G7 era l’unico leader solido di un Paese forte, e la cosa è molto piaciuta ai mercati.
Ma i mercati non danno la felicità.
Però creano fiducia e le previsioni positive delle agenzie di rating. Lo spread è diminuito di 100 punti, questo conta. Non dimentichiamoci che dopo i 500 punti che fecero cadere Berlusconi, anche Monti se li ritrovò tali e quali sul cammino. Meloni piace perché non dice bugie, ma ciò che pensa. Ora mi auguro la stabilità, ma me la augurerei per il Paese anche con un governo diverso.
La luna di miele è destinata a durare?
Ipotizzare il futuro è azzardato anche perché gli italiani sono imprevedibili. Sono impazziti per Grillo, poi per Renzi, Salvini, oggi Meloni. E domani? Fare previsioni è un’operazione spericolata. Un dato però è certificato: in questo periodo non è cresciuta solo lei, ma tutti i partiti che compongono la coalizione. Non accadeva da anni.
Con due donne a presidiare destra e sinistra collassa il centro. Com’è possibile?
Fallito il terzo polo, Renzi vuole entrare nel campo largo e Calenda no. Ma attenzione, entrambi partono da sinistra. Chi aspira in modo più credibile a coprire il centro è Tajani. Forza Italia è oltre le previsioni, e dopo la morte di Berlusconi nessuno avrebbe potuto immaginarlo.
La Lega è alle prese con il «papa straniero» Vannacci. Fenomeno passeggero o strutturale?
Vannacci è già stato decisivo nel contribuire al risultato della Lega alle europee. Il governatore del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, mi ha detto che metà dei 540 mila voti li ha presi il generale, l’altra metà li ha presi la Lega. Mi sembra ragionevole immaginarlo. Vannacci è un valore aggiunto, non credo che farà la stupidaggine di fondare un suo partito.
Nel frattempo il Medio Oriente è tornato a bruciare. Come 20, 30, 40 anni fa.
Questa volta la prospettiva è diversa. Nei decenni passati la crisi coinvolgeva anche altri Paesi mentre oggi a fronteggiare Israele c’è il vero nemico storico: l’Iran è uscito allo scoperto ma dopo le ultime batoste se ne starà buono. Israele è la potenza cibernetica e di intelligence più raffinata al mondo; tirare la corda non conviene a nessuno. Insomma, mi pare una crisi gestibile.
Il 2025 sarà l’anno della pace in Ucraina?
Dipende tutto da Vladimir Putin, se accetta di sedersi al tavolo oppure no e a quali condizioni. Ho parlato con Volodymyr Zelensky a Roma; mi pare molto difficile che gli ucraini si arrendano.
Quando questo articolo uscirà, negli Stati Uniti si sarà votato: qual è il miglior esito delle urne per l’Italia?
Vedo Meloni in una botte di ferro in ogni caso. Con Trump vincitore può far valere il sodalizio con Elon Musk, grande elettore conservatore. Se ha avuto la meglio Kamala Harris, contano i solidi rapporti che la premier italiana ha avuto con Joe Biden.
Torniamo nel cortile di casa: in Rai esiste TeleMeloni?
(Sonora risata). Si metta comodo. Sono entrato in Rai nel 1962, a 18 anni, fin qui ho avuto 25 amministratori delegati. Da sempre il governo (fino al 1976) e il maggior partito di governo (dopo il 1976) hanno nominato i vertici dell’azienda. Nell’ultimo ventennio Pd, Forza Italia, Renzi (quindi ancora Pd), Movimento Cinque stelle, Draghi, Meloni. Nessuna novità. Detto questo, il corpaccione della Rai anche per ragioni culturali è sempre stato di sinistra.
Perché si grida all’allarme democratico?
Per sport. Giorgia Meloni ha soltanto attenuato un controllo della sinistra che era pressoché totale. E lo era a maggior ragione perché la rappresentanza dei dipendenti nel cda è sempre di sinistra.
Montanelli diceva: «Uscirò da una redazione solo con i piedi in avanti». Bruno Vespa, lei ha compiuto 80 anni. Mai pensato alla pensione?
Le persone che smettono di lavorare si deprimono, dunque la penso proprio come Indro. L’unico che può farmi andare in pensione è il Padreterno. Ma fino a quando non mi darà un colpetto sulla spalla, qui si lavora.
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Nell’autobiografia in uscita, l’ex cancelliera fa i conti con la propria storia e quella della Germania. Ora, oltre ai successi, dovrà spiegare le aperture a Mosca e le strategie tedesche nella Ue.
In Germania manca poco all’uscita della corposa autobiografia di Angela Merkel, intitolata Freiheit, libertà, e, fin dalle prime anticipazioni, è un tentativo in piena regola di fare i conti con la storia - la sua, di Merkel, ma non solo. Non vi è dubbio che con la cancelliera - che ha lasciato il posto a Olaf Scholz nel 2021, dopo 16 anni - il pendolo abbia oscillato tra il servo encomio e il codardo oltraggio. Merkel, cioè, è stata prima applaudita come leader indispensabile dell’Occidente, e poi criticata come la figura che ha posto le premesse per l’attuale dolorosissima crisi tedesca. L’abbraccio con la Russia, l’illusione dell’Eldorado cinese, la scommessa green e la fuga repentina dal nucleare, l’ingovernabilità dei flussi migratori, Volkswagen e altri colossi industriali tedeschi che annunciano chiusure delle loro fabbriche tedesche: tutto ciò e molto altro è messo in conto all’esponente oggi più famosa dei cristiano-democratici.
Merkel però non ci sta a questo gioco al massacro, e lascia agli atti del processo che sta subendo una sorta di memoriale difensivo. Freiheit copre ben 70 anni di vita e di storia, di cui una metà esatta trascorsi al di là del Muro di Berlino, e l’altra metà con l’unità tedesca. Ci sarà tempo e modo di apprezzare fino in fondo le oltre 700 pagine di questo libro, soppesando quello che dice, e come lo dice, e quello che invece non vi ha trovato spazio. Particolarmente interessante sarà il modo in cui la cancelliera presenterà il rapporto con la Russia di Putin. Era davvero convinta di poter addolcire Mosca ed europeizzare la Russia, forte della complementarietà tra tecnologia tedesca e risorse russe? E, se così era, come ha potuto non rendersi conto che l’equazione stava impazzendo e che il contesto geopolitico su cui si basava Merkel era divenuto obsoleto?
Prima di arrivare a queste cruciali domande, sul taccuino dell’analista si fissano alcune impressioni. La prima: Merkel è stata una politica di non comune preparazione, che compulsava in ogni dettaglio i dossier che le preparavano i suoi collaboratori. La seconda: per anni la cancelliera ha rappresentato la risposta alla sarcastica battuta di Henry Kissinger «L’Europa? Qual è il suo numero di telefono?». Merkel ha cioè dato corpo a una figura di leader politico non solo tedesco, ma anche europeo, dedicando grande attenzione alla pratica del potere. L’esempio più noto è quello del tedesco Martin Selmayr, a lungo deus ex machina degli ingranaggi bruxellesi e oggi ambasciatore dell’Unione europea presso il Vaticano.
Questo esempio non è certo il solo: Berlino dispone oggi di un’infrastruttura di potere formidabile a Bruxelles, e lo deve in buona parte proprio a Merkel. È in questo contesto che va collocato il «parricidio» di Merkel nei confronti di Helmut Kohl, che aprì il lunghissimo ciclo politico di Merkel. Della quale è ben nota la spietatezza con cui rimuoveva avversari, specie all’interno del suo stesso partito (citofonare Friedrich Merz per referenze). Ma il caso di Kohl, che di Merkel fu padrino putativo e mentore politico, fa storia a sé rispetto al «killer instinct» di Merkel. Di Kohl, Merkel non rimosse infatti solo la presenza politica, cosa di cui Kohl non si diede pace fino alla fine. Ne seppellì anche gli ardori patriottici. Kohl, protagonista della riunificazione delle due Germanie, era convinto che i lunghi decenni di separazione non potessero che trovare un premio nella ritrovata unità e nell’identità nazionale tedesca. Merkel la pensava diversamente. Con ogni probabilità, l’idea di fare i conti con l’identità nazionale tedesca le metteva i brividi.
Fin dall’inizio per Merkel il sovra-Stato europeo rappresentava una nuova architettura che imbrigliava la Germania riunificata pur amplificandone il potere. Anche il modello centrista perseguito tenacemente da Merkel muoveva da premesse simili. La Cdu, partito conservatore-centrista, sotto la guida di Merkel è si spostata sempre più verso il centro. L’accentramento si è tradotto a loro volta nell’impossibilità di imbastire coalizioni di centrodestra e nella necessità di fare a lungo coppia con i socialdemocratici tedeschi. Ma nelle praterie che si sono così aperte sulle «ali» oggi scorrazzano, con grande gioia di Mosca, i massimalisti di Sahra Wagenknecht (BSW) e l’estrema destra di Alternative für Deutschland.
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Ai tre fratelli Elkann, e in particolare a John, il denaro pare non bastare mai. Al punto che negli ultimi 20 anni, dopo la morte di Gianni Agnelli, avrebbe fatto di tutto per mettere le mani sul patrimonio nascosto dell’Avvocato. E poi su quello di nonna Marella Caracciolo, arrivando a convincerla ad aggirare il Patto successorio stipulato con la figlia Margherita. Ecco le carte che dimostrano la spartizione di quadri e gioielli.
Di più, ancora di più, sempre di più. Denaro, naturalmente. Tanto denaro che però sembra non bastargli mai. La storia degli ultimi vent’anni dei tre fratelli Elkann, e in particolare di John - così come l’hanno ricostruita i Pm di Torino - appare diretta a un obiettivo: mettere le mani sul tesoro nascosto di Gianni Agnelli di cui, alla sua morte, la nonna Marella ha assunto il controllo tagliando fuori la figlia Margherita e nascondendole la parte più grande del «bottino». Tolta di scena la propria madre grazie all’accordo-trappola di Ginevra e al Patto successorio, per John è facile convincere la nonna a girare i propri beni a lui, Lapo e Ginevra. Usa parole molto convincenti: «Nonna, c’è il rischio che lei metta le mani sui beni del nonno Giovanni. Devi impedirlo». Colpisce il gran numero di comunicazioni, specie e-mail, che ha tenuto impegnato John ogni giorno per molti anni come se la sua attività principale fosse solo quella di entrare in possesso, a poco a poco, delle gigantesche proprietà della nonna senza aspettarne la morte; di «costruire» e retrodatare un mare di «donazioni» non spontanee per evitare le tasse; di «blindare» e tenere al sicuro la finta residenza svizzera di Marella per evitare che la sua successione venisse regolata dalle leggi italiane. L’operazione Dicembre. L’«operazione» comincia appena un mese dopo la morte dell’Avvocato, all’apertura del testamento dei beni in Italia e alla contestuale riunione della Dicembre, il bene più prezioso, la cassaforte di famiglia che contiene la maggioranza della multinazionale Exor e dell’ex Accomandita Giovanni Agnelli. Quel giorno Marella comincia una lunga serie di «donazioni»: cede parte delle sue quote della Dicembre a John e gli consegna la maggioranza assoluta, rendendo inutile il pacchetto di Margherita. Poco dopo l’accordo con la figlia, il 19 aprile 2004, la nonna completa l’opera: dà a John il 60 per cento e il 20 per cento ciascuno a Lapo e Ginevra. I tre lo renderanno noto solo 17 anni dopo (30 giugno 2021) - con una scrittura privata non autenticata - e dopo che l’Agenzia delle Entrate aveva scoperto che era Marella ad avere la nuda proprietà e non i nipoti. La nonna, rappresentata dal manager di fiducia Gianluca Ferrero, non era in grado di chiarire il titolo giuridico delle sue quote della Dicembre poiché l’emersione di questa vicenda avrebbe comportato conseguenze rilevanti implicando un ruolo attivo di Marella nella gestione di beni «italiani» e compromettendo di sostenere la sua residenza svizzera. Non solo: quella cessione ai fratelli Elkann presenta gravi anomalie poiché mancano riscontri certi sull’effettivo trasferimento dei fondi e il pagamento alla nonna del corrispettivo. Dalla vicenda, di cui John ha occultato le carte dal 2004 al 2021, emerge, oltre al coinvolgimento di Ferrero, come sottolinea il Pm, la conferma di una strutturata strategia fraudolenta nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Ma è solo l’inizio.718 milioni di euro. Dopo essersi presi la «cassaforte», i tre fratelli si concentrano sui 718 milioni di euro (oltre 239 milioni ciascuno) che la nonna possiede in due «trust», fondi fiduciari alle Bahamas aperti nel luglio 2004, poco dopo l’accordo-trappola con la figlia. I documenti sono stati trovati nello Studio Ferrero. Intanto, i tre fratelli possono già disporre, con la nonna in vita, di Chesa Alkyone a St. Moritz, assegnata a John (valore 42,5 milioni) più opere d’arte, arredi e pertinenze (valore 34,6 milioni); la più piccola Chesa Mezdi a Lapo (18,2 milioni più 100 mila), Launen e il riad Marrakech a Ginevra (11 milioni più 7,7). Leggendo gli atti emerge che ai fratelli tutto ciò non basta e prendono anche di arredi e opere d’arte nelle tre residenze italiane di cui Marella aveva l’usufrutto (Villa Frescot, Villar Perosa, Roma): valore 16,6 milioni di euro, esclusi 39 preziosi dipinti (tra cui Goya, Modigliani, due Picasso, De Chirico, Paul Klee, due Balthus, Delacroix, Bossoli, Balla). Per la loro «sparizione» Margherita ha denunciato i tre figli.Difficile divisione. L’inchiesta propone anche scene da film. Si immagini un grande tavolo con i fratelli riuniti per la spartizione di un’altra fetta del tesoro della nonna, con Marella ancora viva. Sul tavolo ci sono foto e stime di Sotheby’s e di Gurr Johns, l’organizzazione che si occupa del mercato dell’arte dal 1914. Sul «piatto» ci sono beni per 170 milioni di euro, tra cui dieci quadri (64 milioni di stima), alcuni gioielli (95 milioni) e altri oggetti minori. A John tocca un controvalore di 29,729 milioni, a Lapo di 28,491 milioni, Ginevra sceglie beni per 111,794 milioni. Vuole e ottiene gli orecchini in diamanti blu della nonna, 78 milioni, firmati Harry Winston. I fratelli non obiettano ma dovranno poi vedersela con le loro mogli. Anche se Lavinia forse aveva già ricevuto da Marella, tra il 2010 e il 2014, un anello di diamanti (2,6 milioni) e due spille con zaffiro, smeraldi e diamanti (1,4 milioni).Andy Warhol. Per i quadri non ci sono discussioni. Fra le tre opere di Andy Warhol, John sceglie la più preziosa (Batman, 10 milioni), a Ginevra va un Ritratto di Marilyn Monroe (3,5 milioni), a Lapo tocca Baskia, co-produzione Warhol-Basquiat da 2,5 milioni. John prende anche la Tour Eiffel Rouge di Robert Delaunay e Cardinal Numbers di Robert Indiana (5,5 milioni ciascuno). Per Lapo c’è pure una tela di Claude Monet (Glaçons, effet blanc, 17,5 milioni), mentre a Ginevra vanno Francis Bacon (Three Studies for Portrait of Gianni Agnelli, 12 milioni), Balthus (Nudo di profilo, 4,5 milioni), Kees Van Dongen (La Marquise Casati, 2,5 milioni), Jean Dubuffet (Lieu rouge a l’auto, 500 mila). Praticamente una galleria.Gli altri gioielli. Ma c’è altra «roba» da spartire. Ginevra sceglie un ciondolo con diamanti di Jacques Timey per Harry Winston (cinque milioni di euro), un anello con rubini, diamanti e diamanti blu firmato Verdura (1,3 milioni), un anello di Bulgari con zaffiri e diamanti (900 mila), una collana di diamanti del 1890 con orecchino terminale (750 mila). John preferisce quattro tabacchiere: una in oro multicolore con gioielli, realizzata nel 1765 per il Re di Prussia (tre milioni); una in oro, pietra dura, madreperla burgau, avorio e smalto, creata da Johann Christian Neuber a Dresda, nel 1770 (850 mila); una ingioiellata in oro a quattro colori di Daniel Baudesson (Berlino, 1755-60); una del 1773 in oro e pietra dura di Christian Gottlieb Stiehl (500 mila euro ciascuna). Lapo sceglie per Joana un anello di diamanti di Bulgari (2,6 milioni) e una spilla firmata Verdura con smeraldi, zaffiri a forma di cuscino e diamanti (un milione). E infine vuole 25 piatti di porcellana dipinta della collezione dell’ultimo zar (500 mila euro). I pm osservano che i beni inventariati quali «regali» siano stati, attraverso artifici e raggiri, sottratti alla massa ereditaria, poiché non erano mai stati formalmente e realmente donati, erano sempre rimasti nella disponibilità di Marella fino alla morte, e solo successivamente, erano stati fatti oggetto di spartizione dai fratelli Elkann. Emerge che erano stati perfino aperti due depositi in cui accatastare altri oggetti da far scomparire. Non si conosce il destino di preziosi frammenti di mosaici romani, né se siano vere alcune donazioni al Circolo del Whist di Torino, né se l’ex marito di Ginevra, il principe Giovanni Gaetani dell’Aquila d’Aragona, abbia mai ricevuto un orologio da taschino e un dollaro d’oro come dicono gli elenchi. Ma, tutte queste forse sono solo inezie, poiché c’è un giallo da chiarire. Qualche mese dopo la morte della nonna avviene l’ennesimo scambio di email tra l’assistente della defunta, Paola Montaldo, e John cui lei si rivolge con un «Caro Ingegnere». Dopo aver predisposto gli elenchi dei finti «regali», delle date di attribuzione, degli inventari, la segretaria - fatta assumere dallo Studio Ferrero ma al servizio di John e anche da lui retribuita con un fuori-busta di appena mille euro al mese -, gli chiede ermeticamente nel file «Notapering.doc»: «I lingotti sono da tenere?». Sono forse quelli della nonna depositati nel Free-port di Ginevra?
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Tempo fa mi capitò di leggere su la Repubblica la storia di una pensionata al minimo. Era una donna vicina agli ottant’anni, che non riusciva ad arrivare a fine mese. Il racconto si snodava tra bollette non pagate e una spesa alimentare a livello di sussistenza, integrata spesso facendo la fila alla mensa dei poveri. Com’è possibile che una donna anziana, che dichiarava di aver lavorato tutta la vita, fosse costretta a fare i salti mortali per campare?
Me lo sono chiesto una volta arrivato in fondo all’articolo. La risposta stava in un paio di righe, buttate lì, nella ricostruzione delle fatiche quotidiane. Il marito prima di morire aveva un’officina meccanica, «e sa», spiegava la signora «a quei tempi si pagavano contributi limitati, dunque la pensione di reversibilità è poca cosa». Lei invece aveva fatto la colf, «e sa», confidava alla cronista del quotidiano romano, «allora non si pagavano i contributi». In pratica, i coniugi avevano lavorato per anni evadendo fisco e contributi e oggi la signora, giunta alla soglia degli ottant’anni, era una pensionata al minimo, che non riusciva a saldare il canone d’affitto e doveva decidere se pagare la bolletta o il supermercato, perché entrambe le cose con l’assegno che le versava l’Inps non riusciva a farle. Un assegno, come si usa dire, a carico della fiscalità generale, ossia sostenuto dai contribuenti che le tasse e i contributi li versano.
La storia della pensionata scovata da la Repubblica per attaccare il governo che affama i pensionati mi è tornata in mente l’altra sera, quando nella trasmissione di Bianca Berlinguer ho visto raccontata una storia analoga. Una signora avanti con gli anni che dopo una vita passata a cucire tappezzeria per poltrone e divani si ritrova con un assegno al minimo, di appena 600 euro. «Sapete» ha raccontato davanti alle telecamere «a quei tempi si pagavano pochi contributi». Ecco, la storia di persone fragili e in difficoltà colpisce. E umanamente non si può che solidarizzare con loro: vederli in fila fuori dalla sede di «Pane quotidiano», una delle associazioni che a Milano distribuisce pasti e generi alimentari a chi non ce la fa, stringe il cuore. Tuttavia, non si può nemmeno ignorare che se la pensione percepita è al minimo è perché non si sono versati i contributi e dunque nemmeno le tasse. È facile lamentarsi con la grande evasione, che ricade sui contribuenti onesti, i quali sono chiamati a pagare di più a causa di chi non ha pagato niente. Però in Italia, i 4,5 milioni di pensionati al minimo, dunque a carico della fiscalità generale, ci costringono a guardare in faccia una realtà che riguarda anche la piccola evasione.
Quasi un quarto degli assegni pagati dall’Inps in teoria non sono dovuti, perché non sono ottenuti dopo aver maturato un numero sufficiente di versamenti previdenziali. Lo Stato se ne fa carico, ma in quanto è chiamato ad aiutare le persone in difficoltà. Infatti quelle sono pensioni sociali, riconosciute a titolo assistenziale. Per chi le riceve, che si chiamino in un modo o in un altro cambia poco, perché i soldi sono sempre scarsi. Ma per il bilancio pubblico cambia molto, in quanto se tutti versassero i contributi, l’Inps non rischierebbe la bancarotta e i contribuenti che le tasse le pagano non sarebbero chiamati a pagarne sempre di più.
Ho letto di recente che 300 mila persone, con la loro pensione da cinquemila euro lordi (all’incirca tremila netti), costano all’ente previdenziale come 4,8 milioni di pensionati al minimo. Però il Corriere della Sera, che ha pubblicato la notizia, si è ben guardato dallo scrivere che i primi la pensione l’hanno pagata e i secondi no. Giorni dopo però, il quotidiano di via Solferino ha pubblicato un articolo per spiegare che chi guadagna dai 55 mila euro lordi l’anno, all’incirca tremila euro netti al mese, paga per tutti, perché questi contribuenti si fanno carico del 42 per cento del gettito Irpef e in cambio non ricevono quasi nulla. In pratica, c’è un 15 per cento di italiani che sostiene il welfare, mentre il resto vive a sbafo. A sinistra sostengono che per rimettere in ordine le cose sarebbe sufficiente tassare di più i ricconi, ma la patrimoniale o anche un prelievo sui redditi più alti, finirebbe sempre in tasca a quel ceto medio che oggi sorregge l’assistenza per tutti e, pur senza ricevere indietro quasi niente, consente che ogni cittadino possa beneficiare di sanità, istruzione e sicurezza.
So che tutto ciò può urtare la sensibilità di alcuni, perché le immagini di una donna che a ottant’anni non può fare la spesa al supermercato sono dolorose e imbarazzano chi sta comodo nel proprio salotto di casa. Ma se non invertiamo la tendenza, ovvero se non prosciughiamo la «grande piccola» evasione fiscale, continuando a lamentarci per le pensioni basse non ne usciremo.
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Il primo ministro inglese, ricordato per la lotta contro la follia nazifascista durante la Seconda guerra mondiale, in realtà era stato tutt’altro che ostile ai regimi italiano e tedesco. Per Hitler e Mussolini esprimeva parole di ammirazione, poi in fretta cancellate.
Ce lo aveva annunciato del resto lui stesso: «La storia sarà gentile con me: poiché intendo scriverla io». E in effetti bisogna riconoscere che Winston Churchill ha compiuto il suo più grande capolavoro nell’alterare la realtà dei fatti, divenendo egli stesso fonte ingannevole di una narrazione avvelenata, con la sua monumentale storia della Seconda guerra mondiale che gli valse il Nobel per la letteratura. La versione dei fatti scritta dai vincitori ci ha tramandato una certa immagine dello statista britannico. L’uomo che promette alla sua nazione sudore, lacrime e sangue per fermare Hitler e che pronuncia, nel 1940, parole rimaste scolpite nella memoria collettiva: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo sui campi e sulle strade, combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai».
Però esiste anche un secondo Churchill. Quello che, negli anni precedenti, non nascondeva la sua ammirazione per Benito Mussolini, sviolinava Adolf Hitler e, nella guerra civile spagnola, benché formalmente neutrale, simpatizzava in realtà per i falangisti di Francisco Franco. È severamente vietato guardare dentro questa storia, nessuno la ricorda né se ne parla. Eppure non è meno vera delle parole sulla resistenza a oltranza contro il «mostro» nazista e fascista. Alcune delle più sconcertanti dichiarazioni di Churchill risalgono al 17 febbraio 1933, quando tenne un discorso sul «pericolo rosso», a Londra, alla Queen’s Hall, in occasione delle pompose celebrazioni del venticinquennale dell’Unione anticomunista e antisocialista. L’uomo col sigaro definì Mussolini come «il più grande legislatore vivente», aggiungendo che egli aveva «stabilito un centro di riferimento nel mondo, nella storia del mondo, attraverso cui le comunità disperate alle prese con il bolscevismo non esiteranno a lasciarsi guidare». Poi partì con una filippica contro i debosciati rampolli delle élite britanniche, gli universitari di Oxford, i quali avevano da pochi giorni pronunciato un solenne giuramento che suonava come una vera e propria forma disonorevole di diserzione preventiva di fronte al dovere di combattere in armi per la difesa della Patria aggredita. L’Unione di Oxford, il consesso dove si svolgevano i celebri duelli oratori tra gli studenti, aveva approvato, con 275 voti contro 153, una mozione che affermava: «Questa istituzione rifiuta in qualunque circostanza di combattere per il re e per la nazione». Churchill definì «abietto» tale giuramento, aggiungendo: «Ci è stato detto di non prendere molto sul serio questo fatto. Il quotidiano The Times ha scritto un articolo, L’ora dei bambini, ma io disapprovo, e penso che noi dovremmo prendere la cosa molto sul serio. Io credo che sia il sintomo di qualcosa di inquietante e insieme di disgustoso».
Si lanciò quindi in un’apologia dello spirito regnante in Germania, dove Hitler era da poco asceso al potere, e in Italia, governata dal «genio romano» del suo novello Cesare. «La mia mente si rivolge alle ristrette acque del Canale e del Mare del Nord, dove grandi nazioni sono fermamente determinate a difendere i loro interessi, la loro gloria nazionale e la loro esistenza, insieme con le loro stesse vite». Ecco le parole incredibili e sconvolgenti che uscirono dalla sua bocca: «Penso alla Germania, con i suoi splendidi giovani, dagli occhi azzurri, che marciano uniti per tutte le strade del Reich, cantando i loro antichi inni, domandando di essere arruolati in un esercito, cercando con impazienza le armi della guerra e bruciando dal desiderio di patire e di morire per la loro Patria». L’ardore della gioventù hitleriana, purtroppo, non era degno di essere additato per esempio, in quanto, nel volgere di pochissimi anni, la storia si sarebbe incaricata di dimostrare che molti di quei «guerrieri ariani» sarebbero stati autori di una delle più abominevoli combinazioni di crudeltà personale e di efferatezza ideologica che la storia abbia registrato, sotto il folle disegno della supremazia razziale.
Poi aggiunse: «Penso all’Italia con i suoi ardenti fascisti, schierati con il loro grande Capo, e colmi di senso della fierezza patriottica e del senso del dovere nazionale». Sono molti, e mai, o quasi mai, ricordati, i discorsi e le prese di posizione in cui Churchill tessé le lodi dei due alleati di Berlino e Roma, Hitler e Mussolini, almeno fino al 1938-39. Il 17 settembre 1937, riprendendo un sentire comune tra la popolazione britannica, che corrispondeva anche ai suoi convincimenti, definì la Germania una grande nazione «legata a noi da tanti vincoli di storia e di razza». Poi, negando di essere «ostile al governo tedesco», vaticinò, appellandosi al Führer come allo statista «della pace»: «Quando un uomo è impegnato in una lotta disperata, è costretto talvolta a digrignare i denti mentre i suoi occhi lampeggiano d’ira. Ira e odio rendono ancora più efficaci le armi per la lotta. Ma il successo dovrebbe invece rendere lieto e sereno lo spirito per custodire e consolidare, con uno stato d’animo adatto alle nuove circostanze, con tolleranza e comprensione tutto ciò che nella lotta si è riusciti a ottenere». Parole gettate nel vuoto, che però avevano il potere di influenzare l’opinione pubblica, per la statura della personalità che tali espressioni pronunciava, rafforzando quel clima di appeasement, cioè di pacificazione con i dittatori, che era in pieno svolgimento nella Gran Bretagna d’allora.
Un plateale e colossale endorsement filofascista fu quello messo a segno da Churchill, dieci anni prima, davanti alla stampa italiana, al termine dei suoi colloqui romani con il Duce: era il gennaio del 1927. Al tempo, l’uomo politico d’Oltremanica era cancelliere dello Scacchiere. «Non ho potuto non rimanere affascinato» esordì «come tante altre persone, dal cortese e semplice portamento dell’onorevole Mussolini e dal suo contegno calmo e sereno, malgrado tanti pesi e tanti pericoli. Secondariamente, è stato facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano, così come egli lo intuisce, e che qualunque altro interesse di minor portata non ha per lui la minima importanza». Così proseguì, negli incensamenti: «Sul piano della vostra politica interna, ho sentito molte cose intorno alla vostra legge sulle corporazioni, che, mi si dice, associa direttamente venti milioni di operosi cittadini allo Stato, e obbliga lo Stato ad assumere a loro riguardo e verso i loro dipendenti delle responsabilità molto dirette. Questo movimento è del massimo interesse e il risultato di esso sarà attentamente seguito in ogni Paese». Ancora: «Certamente, esso richiede la maggior buona volontà e cooperazione da parte di tutto il popolo; come anche una guida chiara e sapiente da parte dello Stato. Ma, ad ogni modo, di fronte a un tale sistema accettato con ardore, è perfettamente assurdo dichiarare che il governo italiano non poggi su una base popolare, e che non sia sorretto dal consenso attivo e pratico delle grandi masse». E concluse: «Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti e le passioni del leninismo».
Anche come editore di giornale, Mussolini aveva più di una ragione di ricevere questo panegirico dall’ospite straniero. Churchill era stato gratificato da una collaborazione d’oro con Il Popolo d’Italia, il quotidiano fascista, che pubblicò, in numerosi articoli, usciti con grande evidenza in prima pagina, le sue memorie sulla Prima guerra mondiale.
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Nel 2023 LA spesa militare globale ha toccato i 2.443 miliardi di dollari. E Ad armarsi non sono solo le superpotenze: tutti i paesi investono enormi risorse per forniture belliche sempre più sofisticate richieste dall’attuale «ordine mondiale». dove, dopo ucraina e medio oriente, i conflitti sono diventati un’opzione politica.
Il video delle forze aeree israeliane, pubblicato su X, riprende i cacciabombardieri che il 27 settembre hanno sepolto per sempre il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel quartier generale a Beirut. Otto F-15, che sono decollati con almeno 16 bombe da mille chili. Sotto la pancia del velivolo si notano anche le Blu-109 americane, ordigno teleguidato anti bunker che penetra nei rifugi in cemento armato prima di esplodere con tremende conseguenze. In maggio la Casa Bianca ne aveva bloccato l’invio a Israele, ma evidentemente restava ancora qualcosa negli arsenali delle precedenti forniture Usa. Solo un tassello del mosaico, che dimostra il vorticoso giro di armi per la guerra in Medio Oriente. La corsa agli armamenti provocata dai conflitti che ci circondano, da Israele all’Ucraina e quello che potrebbe scoppiare in Estremo Oriente, ha subito un’accelerazione senza precedenti. Nel 2023 la spesa militare globale ha raggiunto la vetta di 2.433 miliardi di dollari, secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri). Il più forte aumento negli ultimi 14 anni, che per la prima volta dal 2009, registra un’impennata in tutte e cinque la macro-regioni del globo dall’Africa all’Asia. Un «si armi chi può» mondiale radiografato da Panorama. «Tutti si armano non per fare, ma evitare la Terza guerra mondiale» osserva Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa. «Il problema è che l’aumento della produzione bellica richiede investimenti elevati e personale specializzato. E c’è bisogno di una pianificazione pluriennale. Siamo certi che si potranno trovare le risorse?».
La parte del leone spetta sempre agli Stati Uniti, con una spesa di 916 miliardi di dollari seguiti da Cina e Russia. L’Europa, allarmata dal conflitto ucraino, ha registrato un’impennata del 16 per cento e anche l’Italia, dopo anni di stretta, aumenta gli investimenti militari. «Numeri importanti, per un totale di 9,3 miliardi di euro» afferma Giovanni Martinelli, che ogni anno passa ai raggi X il bilancio della Difesa. «La tendenza è rafforzare l’esercito che ha subito tagli negli ultimi anni e stanno partendo programmi innovativi su droni e munizioni circuitanti» ovvero velivoli kamikaze senza pilota. Il nostro Paese si doterà di 132 carri armati sviluppando il Panther assieme alla tedesca Rheinmetall. Per la fanteria la Difesa vuole acquistare 570 nuovi mezzi di combattimento. Nel complesso i due programmi hanno un valore, spalmato negli anni, di 23 miliardi di euro. Acquisteremo anche 21 Himars, i missili a lungo raggio americani diventati famosi in Ucraina, per 960 milioni. «La questione più spinosa riguarda i tempi» osserva ancora Gaiani. «Se oggi si ordinano carri armati si avranno fra dieci anni. Ci sarà ancora l’esigenza di combattere i russi?». Il muro del Donbass rischia di essere più alto di quello di Berlino, ma un altro fattore è la «fretta da riarmo». «Va a vantaggio dell’industria americana, che ha la capacità di produrre qualsiasi cosa e velocemente per poi vendere la armi all’Europa. Se il Vecchio continente fa incetta di F-35 ed F-16, caccia a stelle e strisce, dov’è la difesa Ue?».
Il «Documento programmatico pluriennale 2024-2026» prevede cinque F-35 per la Marina militare, che si aggiungono ai 19 già in acquisizione. All’Aeronautica arriveranno 24 velivoli da combattimento Eurofighter Typhoon (7,4 miliardi di euro) a partire da quest’anno. La scommessa da vincere, però, è il programma per il caccia di sesta generazione (Global Combat Air Programme), già Tempest. Per la ricerca e sviluppo saranno spesi 7,7 miliardi. Alla Marina arriveranno le due Fremm Evo, unità da guerra avveniristiche (1,5 miliardi) e nave Olterra per operazioni subacquee speciali. Nonostante gli sforzi, siamo ancora indietro rispetto all’obiettivo del 2 per cento del Prodotto interno lordo per la Difesa, strappato nel 2014 dagli americani, a differenza dei 23 Paesi alleati che quest’anno dovrebbero rispettare l’impegno. «Se in ambito Nato devi raggiungere il 2 per cento del Pil e per l’Unione europea non puoi superare un deficit del 3 per cento è ovvio che i due criteri contrastano» osserva Stefano Pontecorvo, presidente di Leonardo. «Parte della soluzione è defalcare le spese della Difesa dalla soglia Ue. E finanziare almeno gli investimenti per la ricerca in questo campo con gli Eurobond». La Polonia, che nel 2025 spenderà per la Difesa 43 miliardi di euro arrivando al 4,7 per cento del Pil, sta diventando la Prussia d’Europa. Non solo: il presidente, Andrzej Duda, ha rivelato che sono in corso trattative con Washington per installare armi nucleari americane in territorio polacco. Il 12 agosto scorso è stato firmato il contratto per produrre nello stabilimento Stalowa Wola 48 batterie per i missili Patriot. Non è un caso che l’ambasciatore Usa a Varsavia sia Mark Brzezinski, figlio di Zbignew, consigliere per la sicurezza nazionale di origini polacche, con il presidente Jimmy Carter, fu uno degli artefici del collasso dell’Urss. «Fatevi un giro per la Polonia. Si sentono già in prima linea contro i russi» spiega chi è coinvolto nel riarmo in Italia. Il 13 agosto è stato annunciato l’acquisto di 96 elicotteri d’attacco Apache per 10 miliardi di dollari. La Polonia ha ordinato dalla Corea del Sud 48 caccia leggeri, 280 lanciarazzi campali K239 Chunmoo, 600 obici semoventi da 155 mm K9 Thunder e mille carri armati K2.
In Germania è aspro il dibattito sul dispiegamento dal 2026 di nuovi missili americani Tomahawk. Il cancellerie tedesco, Olaf Scholz, lo aveva discretamente concordato con il presidente Joe Biden in luglio, ma l’opposizione di estrema destra (AfD) e sinistra (Bsw), che sta crescendo, è fortemente contraria. Tim Thies dell’Istituto per la ricerca sulla pace e la politica di sicurezza di Amburgo non ha dubbi: «Stiamo andando verso una nuova e pesante corsa agli armamenti». La Germania è già fra i primi cinque esportatori al mondo nel campo della Difesa dietro a Stati Uniti, Francia, Russia e Cina. La guerra in Europa ha inevitabilmente alimentato il riarmo: la spesa militare nel 2023 è aumentata in 39 dei 43 Stati del continente. Il picco è stato raggiunto dall’Ucraina, in gran parte con soldi occidentali (+51 per cento) e dalla Russia (+24). Il 27 settembre scorso il governo di Kiev ha presentato un disegno di legge per destinare il 60 per cento del bilancio 2025 ai settori difesa e sicurezza (48,3 miliardi di euro, ma saranno 12 al netto degli aiuti alleati). La Russia vuole investire il 30 per cento in più nella Difesa (130 miliardi di euro) e ha appena richiamato alla leva autunnale 133 mila uomini. Vladimir Putin ha annunciato il 27 settembre la nuova dottrina nucleare: «L’aggressione contro la Russia da parte di qualsiasi Stato non nucleare, ma con partecipazione o sostegno di uno Stato nucleare, si considererà un attacco congiunto (…), che stabilirebbe chiaramente le condizioni affinché la Russia possa passare all’uso delle armi nucleari». Il riferimento è alle pressanti richieste ucraine di utilizzare i missili occidentali per colpire in profondità il territorio nemico. Nonostante le sanzioni la Russia è favorita rispetto all’Europa nei costi dello sforzo bellico. «Per produrre armi e munizioni c’è bisogno di materie prime, che non abbiamo e costano sempre di più» spiega Gianandrea Gaiani. «Serve pure l’energia, che in Ue ha i prezzi più alti al mondo. Il risultato è che un proiettile di artiglieria classico costa dai 500 ai mille euro in Russia e a noi dai quattromila agli ottomila».
Un anno dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele si sta svenando nel conflitto che si è allargato a livello regionale con Hezbollah in Libano e l’Iran. Il governo di Benjamin Netanyahu ha in programma di aumentare il debito di 60 miliardi di dollari. Solo il costo della guerra a Gaza è stimato tra i 67 e i 120 miliardi di dollari. Stati Uniti e Germania sono i principali fornitori di armamenti a Israele. In agosto il Dipartimento di Stato Usa ha approvato la vendita per oltre 20 miliardi di dollari di forniture belliche compresi 50 aerei da combattimento F-15. L’Iran, che il primo ottobre ha lanciato 181 missili balistici contro Israele, è il quarto Paese del Medio Oriente per spesa in armamenti (10,3 miliardi di dollari nel 2023). Dal 2019 il budget per i Guardiani della rivoluzione, l’ossatura militare del regime, è aumentato dal 27 al 37 per cento. Tutte le nazioni mediorientali si sono riarmate arrivando a un totale di 200 miliardi di dollari, il picco più alto nell’ultimo decennio. L’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, ha dichiarato a Fox news che se gli iraniani faranno la bomba nucleare «anche noi dobbiamo averne una». Le trattative riservate con gli americani per un programma atomico sono in corso, ma «consentire all’Arabia Saudita di acquisire tali capacità potrebbe incoraggiare altri Stati dell’area, come Egitto o Turchia, a perseguire simili capacità nucleari, portando alla proliferazione in un Medio Oriente già volatile» ha scritto Manuel Herrera, ricercatore dell’Istituto affari internazionali.
In Asia il gigante indiano è al quarto posto della spesa militare globale con 83,6 miliardi di dollari, ma la preparazione alla guerra galoppa in Estremo Oriente con l’aumento della tensione fra Cina e Taiwan. Pechino è dietro agli Usa con 296 miliardi, ma in alcuni settori, come l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per scopi bellici, rischia di sorpassare gli americani. «La Cina sta indirizzando gran parte del suo crescente budget militare per aumentare la capacità di reazione dell’Esercito popolare» afferma Xiao Liang, ricercatore del Sipri. «Ciò ha spinto Giappone, Taiwan e altri a rafforzare significativamente le loro capacità militari. Ed è una tendenza che accelererà nei prossimi anni». Il Giappone, preoccupato dell’avvicinamento fra Pechino e Mosca, nel 2023 ha stanziato 50,2 miliardi di dollari per la Difesa e Taiwan l’11 per cento in più rispetto al 2022. Tokyo ha rafforzato la cooperazione militare con l’Italia a partire dal caccia del futuro. Il primo ministro, Fumio Kishida, discute con gli Stati Uniti di rompere il tabù sulle armi nucleari. Il timore riguarda la corsa della Cina, voluta da Xi Jinping, che nel 2035 avrà lo stesso numero di testate atomiche degli Usa. Delle 12.121 armi nucleari stimate a gennaio 2024, il 90 per cento è in mani russe o americane e 2.100 sono pronte al lancio. Ancora il Sipri, ha rivelato che «per la prima volta la Cina ha alcune testate nucleare in allerta operativa massima». La fonte di Panorama in prima linea nel riarmo tuttavia è moderatamente ottimista: «Gli iraniani, nonostante i lanci di missili su Israele, sono “sdentati” dal punto di vista militare. Né vedo Putin che sgancia una bomba atomica e non credo in un conflitto di tipo classico in Estremo Oriente per Taiwan. All’orizzonte non ci dovrebbe essere la Terza guerra mondiale». Almeno per ora.
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La Corte dei conti europea ammonisce gli alti organi comunitari sulla realizzazione del piano Next Gen Eu: se ci sono ritardi è colpa di una cattiva gestione centrale.
C’è un fondo di verità quando si afferma che i fondi europei post-Covid non vengano utilizzati a dovere. Il punto, però, è che la responsabilità non appartiene tanto ai singoli Paesi, quanto all’Europa stessa. A dirlo, in maniera piuttosto nitida, non è nessun cosiddetto «anti-europeista» che potrebbe essere tacciato di complottismo, bensì - udite udite - la Ue. In altre parole, è Bruxelles che si auto-accusa, riconoscendo come più di qualcosa nella gestione dei finanziamenti non funziona a dovere. Leggere per credere: «Nei primi tre anni del dispositivo per la ripresa e la resilienza (Pnrr), istituito dall’Ue con una dotazione di 724 miliardi di euro, si sono osservati ritardi nell’erogazione dei fondi e nell’attuazione dei progetti». Parola della Corte dei conti europea che in una dettagliata relazione sottolinea quali siano i problemi riscontrati nella gestione dei fondi, dato che sono stati trasferiti «solo 213 miliardi di euro dalla Commissione alle casseforti nazionali». Non solo. «Non è detto poi che questi soldi siano arrivati ai destinatari finali, fra cui imprese private, società pubbliche di servizi energetici e scuole. Di fatto, quasi la metà dei fondi erogati [...] non aveva ancora raggiunto i destinatari finali». Ed ecco allora la domanda delle domande: la colpa è davvero dei singoli Stati? Davvero, per quanto riguarda l’Italia, si può dire che tutto il peso della gestione dei fondi sia responsabilità del ministro Raffaele Fitto, peraltro da poco nominato membro della Commissione Ue? Secondo gli euro-magistrati contabili, la risposta è no. La relazione, infatti, si concentra sulla «frequenza dei motivi alla base dei ritardi nel conseguimento dei traguardi e degli obiettivi». Tanto la «complessità delle procedure nazionali» quanto la «capacità amministrativa» occupano l’ultimo posto di questa «classifica» dato che tali due motivi ricorrono «soltanto» nel 23 per cento dei casi.
Quali sono allora le principali motivazioni alla base dei ritardi? Nell’81 per cento dei casi la responsabilità è legata al «mutare delle circostanze esterne». Un esempio su tutti? Semplice. La guerra in Ucraina in corso dal febbraio 2022, che ha causato in Europa un’impennata dell’inflazione e prezzi record dell’energia. Questo ha fatto sì che alcuni progetti abbiano via via perso di interesse. E Bruxelles fa un esempio che riguarda proprio il nostro Paese: è stato rinviato l’appalto per la costruzione di 2.500 stazioni di ricarica rapida per veicoli elettrici, proprio perché nessun soggetto ha presentato domanda per una parte della misura. La ragione? Carenza di materie prime. Torniamo, però, alle ragioni che determinano ritardi nella gestione e assegnazione dei finanziamenti europei. Nel 77 per cento dei casi si riscontra una «sottovalutazione del tempo necessario per attuare le riforme». Cosa vuol dire questo? Che da una parte Bruxelles ha chiesto progetti innovativi per accedere ai fondi, e dall’altra non ha concesso poi i margini temporali per attuare quei progetti stessi. Sembra assurdo, ma è tutto vero. E c’è anche dell’altro.
«Le autorità nazionali - scrivono ancora i magistrati - hanno dichiarato che le informazioni o il livello di dettaglio da includere nei rispettivi Pnrr sulla maturità dei progetti nella riserva non erano chiari, in quanto non erano specificati negli orientamenti della Commissione». Insomma, tempi sottostimati e indicazioni piuttosto generiche. Finita qui? Certo che no. Perché, secondo la Corte, i ritardi dipendono da altri due fattori piuttosto curiosi: nel 54 per cento dei casi si riscontrano «problematiche inerenti gli appalti pubblici» e 4,2 volte su dieci tutto dipende dalla «applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato». In altre parole, sono le stesse normative europee che stanno determinando i grossi problemi del Pnrr. Parola ai magistrati contabili: nel regolamento per l’accesso ai fondi Ue, «si ricorda che sono applicate le norme generali a tale riguardo e che gli Stati membri devono far sì che tutte le riforme e gli investimenti inclusi nei Pnrr siano conformi alle norme dell’Europa in materia di aiuti di Stato e seguano tutte le procedure in proposito». Peccato che «la definizione e l’ottenimento dell’approvazione dei regimi di aiuti di Stato hanno richiesto molto tempo». Tra gli esempi più eclatanti di cui si fa cenno nella relazione, riguarda la Romania, dove si prevedeva un investimento per la creazione di impianti per la produzione, l’assemblaggio e il riciclaggio di batterie nonché di celle e pannelli fotovoltaici. Ebbene, «il primo traguardo, di cui il piano prevedeva il conseguimento nel terzo trimestre del 2022, era la firma dei relativi contratti d’appalto. Tuttavia, è stato raggiunto solo con un ritardo di oltre otto mesi». Otto mesi per una firma.
Non solo. Le autorità rumene sono andate avanti, avviando la procedura di notifica preventiva nel maggio 2022 per il regime di aiuti di Stato (prassi usuale in questi casi). Tale processo di mera notifica, però, è durato sette mesi. Pertanto, nel gennaio 2023, in Romania è stato comunque pubblicato l’invito a presentare proposte per l’investimento, che comprendeva una clausola sospensiva dal momento che il regime di aiuti di Stato non era ancora in vigore e dato che Bruxelles ancora non dava il suo via libera. Tale regime, infatti, è stato approvato solo nel febbraio 2023. Tempi biblici, dunque, per obbedire alle regole Ue. E i risultati dopo tutta questa attesa? Modestissimi. «Dai colloqui intrattenuti con le autorità rumene è emerso che l’incertezza circa la validità del regime di aiuti di Stato aveva comportato un modesto tasso di risposta». Ed ecco il cortocircuito: da una parte l’Europa chiede tempi celeri sottovalutando quanto invece occorrerebbe per dare concretezza a progetti innovativi, dall’altra le regole stesse a cui bisogna sottostare sono arzigogolate e macchinose. E il risultato è che se ci si muove velocemente derogando e rinviando eventuali via libera della Commissione (ad esempio sugli aiuti di Stato) nessuno - o quasi - risponde agli appalti dato che, in ultima istanza, non ci si fida poi tanto dell’Europa.
Ma siccome al peggio non c’è fine, a riprova di quanto la gestione dei fondi Ue da parte della presidente Ursula von der Leyen, sia piuttosto ballerina, ecco il capitolo specifico per la transizione ecologica. Secondo le conclusioni di una nuova relazione della Corte dei conti europea, il contributo del dispositivo per la ripresa e la resilienza all’azione per il clima e alla transizione verde, «non è chiaro». E per quale ragione, visto che ben il 37 per cento dei fondi europei è stato riservato all’azione per il clima? A oggi, infatti, neanche la metà di questo pacchetto è stato speso (siamo intorno al 42 per cento), circa 275 miliardi. Secondo la Corte, poi, questi contributi potrebbero essere sovrastimati di almeno 34,5 miliardi di euro. In altre parole, sono stati dati soldi per progetti «green» senza che questi stessi progetti siano effettivamente «verdi». Qualche esempio? In Grecia si vuole costruire una nuova centrale idroelettrica ad accumulazione con pompaggio, per godere di un’energia a più alta gamma di potenza e di una maggiore durata di vita rispetto alle batterie e ai sistemi di stoccaggio dell’idrogeno. Peccato però che il progetto sia come minimo poco sostenibile dal punto di vista ambientale, dato che contribuisce alla perdita di biodiversità nella vita acquatica. A Bruxelles nessuno ci aveva pensato.
Esattamente come accaduto in Portogallo, dove è stato assegnato un coefficiente del 100 per cento - il massimo punteggio per accedere ai fondi «green» - per un progetto forestale di adattamento ai cambiamenti climatici. Ma che cosa prevede in soldoni? Lavori architettonici e di ristrutturazione per centri di protezione civile in zone rurali, per i quali risulta ingiustificabile il coefficiente massimo. In Croazia, ancora, punteggio del 100 per cento a una misura contrassegnata come «trasporto urbano pulito». Peccato preveda semplicemente una digitalizzazione del sistema. Insomma, quel che sembra è che tutto sia stato strutturato con superficialità. Qualcuno da quelle parti direbbe «all’italiana». Ma stavolta è lì che bisogna bussare, a Bruxelles, per chiedere spiegazioni. Magari proprio alla porta della presidente della Commissione.
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Il successore di Stalin, rimasto al vertice dell’Unione Sovietica dal 1953 al 1964, segnò alcuni dei momenti più importanti della Guerra fredda. Che però gli costò il posto. Un ritratto di Kruscev a sessant’anni dalle sue dimissioni.
Rientrando dal mar Nero, dopo qualche giorno di vacanza (15 ottobre 1964) Nikita Kruscev, plenipotenziario (fino a quel momento) del Partito comunista sovietico, seppe di aver dato le dimissioni per «motivi di salute» dei quali non era a conoscenza. E gli andò anche bene. In Russia, informazioni del genere venivano tipicamente comunicate quando l’interessato si trovava già sul treno, diretto in qualche gulag della Siberia o - in casi non isolati - direttamente di fronte al plotone d’esecuzione. Ma, certo, con il numero uno della nomenclatura, sembrava appropriato ricorrere a una procedura più morbida. La congiura degli apparatcik comunisti - avviata fra perplessità ed esitazioni - prese consistenza quando la primavera aveva già iniziato a farsi sentire.
In prima battuta, a tirare le fila per «silurare» Kruscev fu Michail Andreevic Suslov che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, si era trovato a muoversi sulle montagne russe. Premiato e poi punito da Stalin, recuperato e poi deposto da Kruscev che gli tolse anche la presidenza della commissione sull’ortodossia ideologica. Dunque, la sua opposizione alla leadership del partito non si spiega con ragioni esclusivamente politiche. La sua fu, piuttosto, una rivalsa nel tentativo di riprendersi un ruolo nella gerarchia di partito. Del resto, anche chi - strada facendo - lo assecondò, ai motivi di malcontento per l’azione di governo, sovrappose rivendicazioni del tutto personali.
L’establishment sovietico aveva mantenuto un’impronta conservatrice e quelle pur timide spinte di vago sapore progressista avevano messo di cattivo umore i vertici delle forze armate e quelle dei servizi segreti del Kgb. Beninteso: si trattò di aperture liberali più propagandate che concrete. Il discorso (1956) al plenum comunista per denunciare gli eccessi della politica delle «grandi purghe» di Stalin, i colloqui «distesi» con l’allora vicepresidente statunitense Richard Nixon (1959) arrivato a Mosca per inaugurare l’Esposizione americana, o la scarpa brandita nel corso dell’assemblea dell’Onu (1960) per contestare chi lo accusava d’imperialismo, abbagliarono l’opinione pubblica che ne rimase persino affascinata e che non si accorse di quanto il sistema repressivo sovietico non fosse affatto cambiato. Nello stesso 1956 della «destalinizzazione», assecondò l’invasione dell’Ungheria che non rinnegava il comunismo ma riteneva di declinarlo «a misura d’uomo». Nel 1961 lasciò mano libera a Walter Ulbricht per la costruzione del muro di Berlino per separare i quartieri capitalisti da quelli sovietici.
Insomma: contraddizioni e incertezze imbastite con timidi passi in avanti e fulminei ritorni al passato. I falchi del regime accettarono le sue iniziative ma senza condividerle del tutto. E lui, Kruscev, con finta indulgenza sopportò la fronda interna, senza sforzarsi di mediare con gli oppositori alla ricerca di un’azione politica condivisa. Tuttavia, non solo di questioni di politica si trattò. Fra le decisioni da collocare fra le impopolari, figurò quella di annullare le «buste» che, oltre allo stipendio e fuori dal conteggio delle tasse, venivano assicurate ai vertici del partito e ai comandanti militari. Un premio non di poco conto perché arrivava a raddoppiare (quasi) il salario ufficiale. Poi Kruscev propose di eliminare le «cellule di partito» dalle direzioni agricole mettendo in allarme la burocrazia del Pcus che in questa riforma vedeva una perdita di potere e di autorità. Infine, i «vecchi» si sentirono minacciati dal progetto di allargare il «Presidium» per consentire l’ingresso ai giovani, destinati a diventare potenziali avversari nella scalata sociale. Ovvio che non si poteva imbastire un’opposizione sulla preoccupazione di essere scavalcati dalle generazioni a venire, ma la conclusione della crisi dei missili a Cuba - quella sì - poteva diventare una questione spendibile per un regolamento di conti interno.
La vicenda si era trascinata per mesi dal maggio 1962, quando i sovietici immaginarono di attrezzare una base missilistica alla periferia sud-ovest di L’Avana. Il progetto rimase avvolto in una nube di segretezza fino agli inizi di ottobre, quando gli americani, dal monitoraggio di aerei-spia, scoprirono i piani di Mosca. La reazione fu perentoria. Il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, dichiarò che non avrebbe consentito l’attivazione di un arsenale a poche miglia dalla costa della Florida. Praticamente nel cortile di casa. Per qualche momento il mondo rischiò la Terza guerra mondiale. Alla fine, Kruscev rinunciò al braccio di ferro e ordinò alle navi che trasportavano le testate missilistiche di invertire la rotta e tornare indietro. Il mondo elogiò la sua ragionevolezza ma non a Mosca, dove montò il disappunto per una decisione che andava intesa come una sconfitta. L’immagine di potenza dell’Unione Sovietica sarebbe stata offuscata. L’esercito si sentì umiliato da chi - evidentemente spaventato - aveva mollato la presa.
Con queste motivazioni, Suslov - nella congiura contro Kruscev - riuscì a ottenere l’adesione di Aleksandr Shelepin, che fino a pochi mesi prima era stato il direttore dei servizi segreti del Kgb, e di Vladimir Semichastnyj, che gli era subentrato. Il generale Rodion Malinovskij, eroe della Seconda guerra mondiale, comandante in capo delle forze terrestri e ministro della difesa, assicurò il consenso dei vertici militari. L’ultimo della partita fu Leonid Breznev: acquisito con la promessa di subentrare come successore alla carica di segretario del Pcus. La discussione sullo stato di salute di Kruscev, e quindi delle sue dimissioni, avvenne nella sede del Presidium che, oltre ai membri effettivi, fu «rafforzato» dalla presenza dei ministri del governo e di alcuni segretari regionali del partito. La discussione - riferirono - fu accesa ma senza accenti esageratamente tempestosi. Suslov parlò per primo con un intervento che ebbe la struttura di una requisitoria d’accusa. Gli altri si aggiunsero: chi precisando, chi fornendo ulteriori dettagli e chi potenziando gli argomenti d’imputazione. L’unico accenno di difesa venne da Anastas Mikojan, un armeno che dal Caucaso aveva iniziato la sua scalata ai vertici comunisti. Secondo lui, chiedere le dimissioni di Kruscev poteva anche essere accettabile. Ogni periodo - compreso quello delle cariche pubbliche - conosce una fine. Ma perché congedare un «compagno» coprendolo di gratuite villanie?
Kruscev, per temperamento, non era un uomo che rinunciava alla lotta e reagì alle accuse proponendo le sue tesi ed evidenziando che, con il suo governo, l’Unione Sovietica - altro che potenza rinunciataria - era più forte e rispettata. Quella che i suoi detrattori definivano «la brutta figura dei missili a Cuba» andava registrata fra i successi perché la Russia aveva aumentato la sua credibilità. I numeri, tuttavia, non gli lasciavano scampo. Aveva da scegliere se andarsene volontariamente accettando di percorrere la strada delle dimissioni (come suggerito dai congiurati) o affrontare l’umiliazione della destituzione violenta. Si prese una notte per decidere.
Le indiscrezioni «del poi» riferirono che non riuscì a dormire nemmeno un momento, ma che cenò con discreto appetito e a chi stava accanto non parve turbato più del dovuto. Conosceva le regole del gioco sovietico al quale aveva partecipato da protagonista. Lui stesso - installatore di tubi, figlio di contadini - riuscì ad affrancarsi da una condizione di sudditanza, sgomitando al momento opportuno con le persone che, in quel momento, potevano essergli utili. Prima segretario a Kiev, poi nel Politburo e nel Presidium fino a raggiungere il Soviet. Alla morte di Stalin (5 marzo 1953) diventò segretario del Pcus perché la cordata della quale faceva parte, manovrando dietro le quinte, ebbe la meglio sugli avversari. Il favorito alla successione era Lavrentij Berija, che occupava gli incarichi di ministro degli interni e di capo della polizia segreta. Ma Kruscev, accordandosi con gli altri della vecchia guardia - Georgij Malenkov, Lazar Kaganovic, Vjacelav Molotov e Nikolai Bulgarin - lavorò per ribaltare i pronostici. E per non correre il rischio di trovarsi con un oppositore dichiarato nell’ufficio centrale, come primo atto lo fece destituire e imprigionare con l’accusa di essere al soldo di potenze straniere. Il braccio destro di Stalin trovò così il plotone d’esecuzione. Kruscev dunque era stato questo, e nell’ottobre 1964 accettò di andare in pensione. «Sono vecchio e stanco» dichiarò a chi gli chiedeva ragione della sua arrendevolezza «e qualche risultato l’ho ottenuto. Chi avrebbe potuto dire a Stalin che doveva farsi da parte perché non andava più bene? Adesso, per merito mio, è possibile».
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