Panorama
«Apprendista al Bagno Malusi di Milano Marittima». Come dettaglia il curriculum istituzionale, Michele De Pascale è stato in gioventù un aitante e valoroso bagnino. Vent’anni dopo, il sindaco di Ravenna è l’aspirante governatore del Pd, nella sempre rossa e perennemente allagata Emilia-Romagna. Una certa dimestichezza con l’acqua non l’ha però convinto a trasformare l’atavica emergenza idrogeologica nel dirimente tema della campagna elettorale. Eppure, da maggio 2023 allo scorso ottobre, la regione è stata travolta dal fango quattro volte. La conta è angosciante: 18 morti, oltre dieci miliardi di danni e almeno centomila sfollati. Agli sventurati adesso non rimane che scrutare con angoscia il cielo e pregare l’Altissimo, sperando nella clemenza del meteo. Intanto si vota tra il 17 e il 18 novembre, assieme all’Umbria, per scegliere il successore di Stefano Bonaccini, che è rimasto in carica otto anni e ora siede all’europarlamento. Contro De Pascale, il centrodestra candida Elena Ugolini: direttrice delle scuole Malpighi di Bologna ed ex sottosegretaria all’Istruzione.
Prima comunisti, poi diesse, infine piddini. In Emilia-Romagna c’è sempre stata la sinistra al potere, con un vecchio presidente e un’ex vice governatrice diventati persino segretari del Nazareno: Pierluigi Bersani ed Elly Schlein, insomma. L’attuale leader, a ulteriore riprova della fucina di talenti, s’era pure sfidata alle primarie con Bonaccini, allora suo superiore. Così, dopo quattro alluvioni in 16 mesi, alla vigilia dell’ennesima tornata, tocca chiedersi: è stato soltanto l’inesorabile destino climatico o ci sono anche responsabilità politiche? Carte alla mano, la domanda sembra perfino pleonastica. E non sono gli avversari a dirlo, ma decine di documenti. L’ultima a bacchettare è la Corte dei conti dell’Emilia-Romagna. Un mese fa ha presentato il rendiconto del bilancio regionale. Tra le spese monitorate, ci sono pure «i necessari interventi sui bacini fluviali». Perché il punto, soprattutto, resta quello: argini deboli, fiumi che esondano, alvei strapieni di sporcizia. E a tracimare sono sempre gli stessi torrenti.
La magistratura contabile eccepisce sull’«accumularsi di residui attivi, sintomo di cattiva capacità di spesa». Ma anche «sul rischio di perdita di risorse economiche comunitarie e sull’efficacia degli uffici tecnici regionali». Si riferisce ai 47 milioni di donazioni private e ai 48,2 milioni di fondi arrivati dal ministero dell’Agricoltura. In totale, oltre 95 solo nel 2023. Però Marcovalerio Pozzato, presidente della sezione di controllo della Corte dei conti, anticipa pure le previsioni del prossimo bilancio: «Mi dispiace dire che è stato impegnato molto, molto poco, sotto il 10 per cento delle somme a disposizione. Ho pensato che ai cittadini interessasse saperlo, specie in questo periodo».
Non ai suscettibili governanti, però. Ogni argomentazione viene smentita con sdegno e genericità dalla «presidente facente funzione» Irene Priolo, che vanta la battagliera delega alla Transizione ecologica, già di Schlein. Quella misera percentuale «non è vera», assicura Priolo. Seguono ulteriori dettagli? Macché. Piuttosto, «è bizzarro che si sia fatto riferimento a un bilancio che non è ancora stato preso in esame». La bizzarria più sfrenata, invece, è un’altra. Pure questa, inequivocabilmente documentata. Stavolta, nel «Piano stralcio per l’assetto idrogeologico» dell’Autorità di bacino del Reno, approvato dalla Regione il lontanissimo 7 aprile 2003, quando in Viale Aldo Moro regnava incontrastato Vasco Errani, impenitente bersaniano. Ventuno anni fa, dunque. Il documento prevedeva un minuzioso programma per «progettare e realizzare opere necessarie alla messa in sicurezza dell’area». Ovverosia, scongiurare le disastrose esondazioni in cinque fiumi: Idice, Savena, Zena, Quaderna, Ravone. I soliti noti, appunto. Gli stessi che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno invaso case e città.
Eppure, già nel lontano 2003, la Regione aveva approvato quel piano di interventi da 11,7 milioni di euro. Poi sepolto dall’ecologismo radicale, tendenza schleineiana. A Budrio, così, sono alla quarta evacuazione in pochi anni. Niente di nuovo, anche in questo caso. Il piano del 2003 metteva la città del bolognese in cima alla lista, zeppa di «priorità uno», le cose più urgenti da fare. A partire dal «rialzo arginale» dell’Idice. Eppure, lo scorso 20 ottobre, le strade di Budrio si sono trasformate ancora in calli veneziane. Anche Vigorso è finita sott’acqua: nella frazione, spiegava quella relazione, i «fianchi arginali nulli o limitati» comportano «un grado di rischio elevato per i territori limitrofi». E anche nella zona di Rastignano, dove il Savena è esondato lo scorso ottobre per un muro mai ricostruito, era «opportuno intervenire al fine di ridurre il rischio idraulico». Oltre a Budrio, il comune più citato nell’ormai giurassico documento, è Pianoro, dove «i numerosi attraversamenti possono provocare fenomeni di rigurgito molto consistenti». In particolare, spiegava il piano del 2003, «sono state individuate due situazioni di elevata criticità che richiedono quanto prima la predisposizione di misure per la riduzione del rischio».
Vent’anni più tardi, la Val di Zena viene nuovamente invasa dall’acqua. L’omonimo torrente, lungo 40 chilometri, travolge tutto. Un metro e mezzo di melma in casa e l’usuale sordità istituzionale. Cittadini e comitati, dopo le esondazioni del maggio 2023, implorano la messa in sicurezza. Luca D’Oristano, consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Pianoro, scrive una caterva di pec e mail, indirizzate anche a Bonaccini e Priolo. Ricorda che, già a ottobre 2021, il Consorzio di bonifica renana aveva confermato la grave incuria, inviando una relazione all’Agenzia regionale per la Sicurezza del territorio, che ha «la competenza di tali acque pubbliche». Il consorzio, quindi, avvertiva: «Si rileva una folta vegetazione che è cresciuta durante i mesi siccitosi». Venivano spiegate pure le «possibili conseguenze», che poi si verificheranno puntualmente nel 2023 e nel 2024: «Nel caso di piogge ed eventi di piena, potrebbe causare ostacolo al deflusso delle acque». Bisognerebbe sfalciare al più presto quella vegetazione selvaggia, segnala Bonifica renana.
Le mail inviate dal consigliere comunale, corredate da foto che testimoniano la noncuranza, vengono però ignorate. In Viale Aldo Moro sono oberati. Saranno sfuggite? Tutt’altro. In consiglio regionale anche Marta Evangelisti, presidente del gruppo di Fratelli d’Italia, subissa il governatore di interrogazioni sullo Zena. La prima è del 20 maggio 2023, dopo la devastante alluvione che uccide diciassette persone. Poi un’altra, il 13 giugno. E altre tre ancora: il 3, il 23 e il 23 agosto. Solo allora, interpellata sulla «pulizia dell’alveo dello Zena», Priolo risponde. La premessa sembra da azzeccagarbugli: il torrente «non è dotato di strutture o argini classificati, per cui vengono meno gli oneri previsti dal regio decreto 523 del 1904». Insomma, è un fiume semiclandestino, sembra la scusante. Segue un vago elenco di manutenzioni. «Non è stato fatto nulla di significativo, fatta eccezione per qualche sporadico intervento» attacca intanto il Comitato Val di Zena. «Considerato il profondo e grave dissesto, diffidiamo gli enti preposti a eseguire i lavori necessari per la messa in sicurezza del torrente». Due mesi dopo, a novembre del 2023, arriva per un sopralluogo anche Francesco Paolo Figliuolo, commissario per l’emergenza idrogeologica in Emilia-Romagna. Il generale conferma le doglianze dei cittadini: alvei e sponde non sono stati puliti, le istituzioni devono darsi da fare celermente.
La consigliera meloniana, dunque, insiste. Presenta, nei mesi successivi, altre due interrogazioni. Otto gennaio 2024: «Il fiume presenterebbe alberi nell’alveo e argini disastrati». Ventisei febbraio 2024: «Nonostante le promesse ricevute dalla cittadinanza, permarrebbero la situazione di incuria e mancata pulizia del torrente». Otto mesi dopo: anche lo Zena, traboccante di tronchi e detriti, esonda. Più devastante che mai. Simone, vent’anni, viene travolto dalla piena mentre è in macchina a Botteghino di Zocca, una frazione di Pianoro. «Quasi tutta l’area su cui sorge è allagabile per effetto della piena bisecolare» denunciava 21 anni fa l’autorità di bacino, che chiedeva alla regione di intervenire. Correva l’anno 2005. Tanto per capirsi: De Pascale, oggi aspirante governatore, era ancora un impavido bagnino.
Sono allo studio manovre per «cinturare» la Cina nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, e presidiare una vasta area di enorme rilevanza economica, dove l'Imec (India-Middle East-Europe Economic Corridor) svolgerà un ruolo da protagonista.
A convincere Donald Trump della necessità di mettere in campo un contenimento della Cina fu il compianto premier nipponico, Shinzo Abe. Col senno di poi, quest’ultimo ci vide lungo e riuscì a convincere un ostinato bilateralista come Trump della necessità di creare un club di democrazie per «cinturare» la Cina nel Pacifico e nell’Oceano Indiano, e presidiare una vasta area di enorme rilevanza economica.
L’Indo-Pacifico ospita infatti alcune tra le economie maggiori e in più rapida crescita del mondo. Secondo le stime più recenti (2023), l’Indo-Pacifico contribuisce circa dal 40 al 45 per cento del Pil globale. È inoltre un’area-chiave per il commercio globale: passa di qui circa il 35 al 40 per cento di beni e servizi. Oggi Abe non c’è più, ma la sua eredità rimane salda, e nel governo giapponese non manca chi con il neopresidente Usa ha già avuto a che fare e ci ha mantenuto cordiali rapporti. È il caso di Taro Aso, attuale ministro delle Finanze che fu il principale negoziatore tra Stati Uniti e Giappone negli accordi commerciali tra i due Paesi del 2019.
Spostandosi dall’Oceano Indiano al Golfo e al Mediterraneo, Trump punta a valorizzare l’Accordo di Abramo, che venne concluso durante il suo mandato alla Casa Bianca e sancì una normalizzazione nei rapporti tra sauditi e israeliani in chiave anti-Iran. La storica intesa, inoltre, funge da base per recenti ambiziose alleanze, come la piattaforma Imec per la realizzazione di un corridoio logistico-commerciale indo-arabo-europeo che salda Pacifico, Oceano Indiano e Mediterraneo. India, Medio Oriente ed Europa insieme rappresentano una parte significativa del Pil globale – tra il 30 e il 40 per cento - con l’India che contribuisce circa al 4 per cento, il Medio Oriente al 2-3 per cento, e l’Europa circa al 20 per cento. L’attività economica derivante dall’Imec - alimentata da migliori rotte commerciali, investimenti in infrastrutture e una maggiore cooperazione regionale - incrementerà il Pil combinato di queste regioni di alcuni punti percentuali. Con tali premesse, il quadro iniziale della nuova presidenza Trump si direbbe l’opposto di uno schema divide et impera, in cui le aree strategiche sono rigidamente compartimentate anziché fondersi.
Continua a leggereRiduci
La lettura dei giornali è sempre utile, soprattutto di quelli degli anni passati. Infatti, a sfogliare le pagine dei quotidiani vi si trovano chicche insperate, in grado di sorprendere anche chi, come me, ha una buona me-moria. La scoperta in questo caso riguarda il mutato atteggiamento nei confronti della magistratura da parte della stampa progressista.
Da quando è scoppiato il caso del trasferimento dei migranti, la sinistra a testate unificate sostiene che i giudici non possono fare altro che applicare la sentenza della Corte di giustizia europea, disapplicando la legge italiana. lo pensavo che i tribunali in realtà dovessero soltanto attenersi alle norme votate dal Parlamento, perché nella logica della separazione dei poteri tocca alle Camere legiferare, non certo alle toghe attraverso le sentenze. Ma per opinionisti e post comunisti (a volta sono la stessa cosa), i giudici possono sottrarsi all'obbligo di applicare la legge in forza di dispositivi superiori, vale a dire che possono scegliersi le norme che più si confanno al loro orientamento e in questo caso torna comodo la sentenza della Corte di giustizia europea. Ma a questo proposito conviene rileggersi un editoriale pubblicato da Repubblica e firmato dall'uomo che per mezzo secolo o forse più è stato il maitre a penser della sinistra: Eugenio Scalfari. Già il titolo dice tutto: «Sopra i giudici vince la legge». L'opinione prende spunto da una vicenda di cronaca: l'arresto del direttore generale di Banca d'Italia, Mario Sarcinelli, e l'avviso digaranzia al governatore dell'istituto centrale, Paolo Baffi. Sul finire degli anni Settanta, due magistrati in forza presso il tribunale di Roma, Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi, aprirono un'inchiesta che coinvolse l'istituzione bancaria nazionale. Scalfari nel suo articolo spiegò che la «confusa e oscura vicenda» avrebbe provocato un inevita-bile conflitto costituzionale tra poteri dello Stato. E auspicò che la questione fosse portata davanti alla Corte costituzionale «affinché giudichi sulle autonome prerogative giudiziarie che la legge bancaria attribuisce all'ispettorato della Banca d'Italia e al governatore che ne è a capo, stabilisca se i mandati di cattura e di comparizione emessi dal giudice istruttore del tribunale di Roma non abbiano violato il principio della divisione dei poteri, che sta alla base del nostro ordinamento costituzionale». Avete capito il Vate della sinistra? Secondo lui, Banca d'Italia era un'istituzione inviolabile, protetta da una sorta di insindacabilità. Anzi, dotata di immunità. «li giudice non può trattare alla stregua di un reato il rispetto del segreto d'ufficio che il governatore e i suoi funzionari hanno osservato anche nei suoi confronti» scrisse il padre della Repubblica. Il quale, rifacendosi a una frase che sarebbe stata pronunciata dagli stessi magistrati («Qui non esistono intoccabili»), commentava: «È vero, lì (in tribunale, ndr) non esistono e non debbono esistere intoccabili. Neppure i giudici dovrebbero esserlo e invece lo sono, poiché nessuno li chiamerà a rispondere dei loro errori». Di più, dopo aver accusato Infelisi e Alibrandi di non conoscere la legge, Scalfari concludeva dicendo che la «tristissima vicenda», oltre ad aver arrecato gravi danni alle istituzioni (bancarie, ovviamente), regalandoci un clamoroso conflitto costituzionale, dimostrava che la procura di Roma e l'ufficio istruzione del tribunale non possedevano la «professionalità indispensabile per esercitare le loro delicatissime funzioni». Perché mi colpisce rileggere a quasi mezzosecolo di di
Continua a leggereRiduci
Un’italiana era felice in Canada. Ma, alla maniera del pesce che risale le correnti, è voluta tornare. Per provare a cambiare il suo Paese.
Ogni tanto viene voglia di arrendersi. Ogni tanto viene voglia di girare la testa dall’altra parte. Perché continuare a denunciare, a lottare, a farsi venire il mal di fegato? Ogni tanto, ammettetelo, anche voi pensate che non ci sia speranza. Che siamo condannati all’eterno ripetersi degli stessi guai, incastrati negli stessi problemi, destinati ad arrotarci all’infinito dentro disastri che nessuno fa niente per evitare, anche quando sarebbe possibile. Ogni tanto viene voglia di fuggire lontano. Di sparire. Di evaporare. Ed è allora, in quel preciso momento, allo zenit della rassegnazione, al culmine dello scoramento, che bisogna prendere in mano la lettera di Chiara. Leggerla e rileggerla. Forse non riuscirà a cambiare questo Paese. Ma sono sicuro che riuscirà a cambiare il vostro umore.
La lettera di Chiara l’ha scovata, in un angolo di Repubblica, il nume tutelare del Grillo, al secolo Mauro Querci, che fra i suoi pregi ha quello di scandagliare con caparbietà da palombaro i fondali delle rubriche dei lettori di tutti i giornali. Quasi sempre riesce a scovarci delle perle preziose, che altrimenti sfuggirebbero ai più. Com’è successo in questo caso. La dottoressa Chiara Tabet, «un’italiana rimpatriata», scrive una lettera breve ed efficace, che vi riporto.
«Perché sono tornata. Mi chiedono, alla posta, perché sono tornata. Me lo chiedono al supermercato, al bar, nei rifugi di montagna. Me lo chiedono, anche a scuola, dove lavoro. Un insegnante mi dice che è stato un errore, che il Canada è un Paese bellissimo e che l’Italia, invece, è condannata a morire di una morte lenta e triste. Perché sono tornata? Sono cittadina canadese e italiana. Ho conosciuto Paesi caldi e freddi, ho camminato accanto ai laghi della Norvegia, mi sono sdraiata sulle dune bollenti di Abu Dhabi, conosciuto fino in fondo la scortesia dei parigini, bevuto come una scozzese. Ho sposato un canadese, sciato sulle montagne della British Columbia. Ho lasciato un lavoro meraviglioso, ben pagato, e un appartamento dal quale si vedeva il mare di Vancouver. Perché sono tornata? Perché questo è anche il mio Paese, e perché contro la rassegnazione bisogna lottare».
Confesso che la lettera è così bella e perfetta che lì per lì ho pensato a un falso costruito in redazione. Così, sempre con l’aiuto del nume tutelare, sono andato a verificare. E ho scoperto che invece la dottoressa Chiara Tabet esiste davvero. Nata nel 1978, sposata con un canadese (Darren), proprietaria di un gatto (Gatto), che definisce «il più bello del mondo», si è laureata a Roma, dottorato a Pisa, poi è andata a lavorare all’estero. Da ultimo dirigeva un liceo internazionale a Vancouver. Ha vissuto in Canada, Norvegia, Francia, Inghilterra e Scozia. E ora è tornata a Roma. «Perché questo è anche il mio Paese e perché contro la rassegnazione bisogna lottare», come scrive lei. E meglio non poteva dire.
Ora non so se a Chiara piace la parola «patria», magari no, e magari le dà anche fastidio essere accostata a essa. Ma io in mezzo a tanti che si proclamano a vanvera patrioti non ho visto, ultimamente, un patriota come lei. E in mezzo a tanti sedicenti sovranisti non ha mai visto una sovranista come lei. È cittadina del mondo, ama Oslo e la lingua norvegese, il Canada e la birra scozzese, le dune bollenti di Abu Dhabi e le montagne della British Columbia, ama viaggiare e vivere in tutto il pianeta, e per di più scrive a Repubblica, redazione che fa la macumba ogni volta che sente parlare di «patrioti» e «sovranisti». Però è la più patriota e sovranista di tutti. Nel senso migliore del termine. Anche se forse sentirselo dire le dispiacerà.
Non importa, io voglio farle sapere che l’ammiro. E che vorrei fare leggere la sua lettera nelle scuole. Perché ci vuole un bel coraggio, mentre schiere di ragazzi se ne vanno legittimamente all’estero a cercare salari che non siano da fame, mentre i migliori giovani emigrano perché qui non è possibile far ricerca, mentre medici e infermieri scappano dal nostro Paese e dalla sua Sanità a pezzi, ci vuole un bel coraggio a percorrere la corrente al contrario, come un salmone tinto di tricolore. E ci vuole un bel coraggio, in mezzo ai cori di mugugni, in mezzo alle lamentele perenni, alle autocommiserazioni e ai tafazzismi, in mezzo a tanti egoismi e individualismi, in mezzo a eserciti di italiani che non perdono occasione per vituperare l’Italia, ci vuole un bel coraggio a dire: «Questo è il mio Paese». E io non so se leggere questa lettera ha fatto cambiare l’umore anche a voi, come è successo a me, non so se dopo averla letta avete ritrovato un po’ dell’energia che pensavate perduta per sempre, ma io sentivo di dovervela consegnare. Perché non c’è niente di più importante che lottare contro il grande male che rischia di annichilirci: la rassegnazione. E Chiara ci aiuta in questa lotta. Ci aiuta davvero. A patto che fra due mesi non ci scriva un’altra lettera, magari dall’Australia.
La lettera di Chiara l’ha scovata, in un angolo di Repubblica, il nume tutelare del Grillo, al secolo Mauro Querci, che fra i suoi pregi ha quello di scandagliare con caparbietà da palombaro i fondali delle rubriche dei lettori di tutti i giornali. Quasi sempre riesce a scovarci delle perle preziose, che altrimenti sfuggirebbero ai più. Com’è successo in questo caso. La dottoressa Chiara Tabet, «un’italiana rimpatriata», scrive una lettera breve ed efficace, che vi riporto.
«Perché sono tornata. Mi chiedono, alla posta, perché sono tornata. Me lo chiedono al supermercato, al bar, nei rifugi di montagna. Me lo chiedono, anche a scuola, dove lavoro. Un insegnante mi dice che è stato un errore, che il Canada è un Paese bellissimo e che l’Italia, invece, è condannata a morire di una morte lenta e triste. Perché sono tornata? Sono cittadina canadese e italiana. Ho conosciuto Paesi caldi e freddi, ho camminato accanto ai laghi della Norvegia, mi sono sdraiata sulle dune bollenti di Abu Dhabi, conosciuto fino in fondo la scortesia dei parigini, bevuto come una scozzese. Ho sposato un canadese, sciato sulle montagne della British Columbia. Ho lasciato un lavoro meraviglioso, ben pagato, e un appartamento dal quale si vedeva il mare di Vancouver. Perché sono tornata? Perché questo è anche il mio Paese, e perché contro la rassegnazione bisogna lottare».
Confesso che la lettera è così bella e perfetta che lì per lì ho pensato a un falso costruito in redazione. Così, sempre con l’aiuto del nume tutelare, sono andato a verificare. E ho scoperto che invece la dottoressa Chiara Tabet esiste davvero. Nata nel 1978, sposata con un canadese (Darren), proprietaria di un gatto (Gatto), che definisce «il più bello del mondo», si è laureata a Roma, dottorato a Pisa, poi è andata a lavorare all’estero. Da ultimo dirigeva un liceo internazionale a Vancouver. Ha vissuto in Canada, Norvegia, Francia, Inghilterra e Scozia. E ora è tornata a Roma. «Perché questo è anche il mio Paese e perché contro la rassegnazione bisogna lottare», come scrive lei. E meglio non poteva dire.
Ora non so se a Chiara piace la parola «patria», magari no, e magari le dà anche fastidio essere accostata a essa. Ma io in mezzo a tanti che si proclamano a vanvera patrioti non ho visto, ultimamente, un patriota come lei. E in mezzo a tanti sedicenti sovranisti non ha mai visto una sovranista come lei. È cittadina del mondo, ama Oslo e la lingua norvegese, il Canada e la birra scozzese, le dune bollenti di Abu Dhabi e le montagne della British Columbia, ama viaggiare e vivere in tutto il pianeta, e per di più scrive a Repubblica, redazione che fa la macumba ogni volta che sente parlare di «patrioti» e «sovranisti». Però è la più patriota e sovranista di tutti. Nel senso migliore del termine. Anche se forse sentirselo dire le dispiacerà.
Non importa, io voglio farle sapere che l’ammiro. E che vorrei fare leggere la sua lettera nelle scuole. Perché ci vuole un bel coraggio, mentre schiere di ragazzi se ne vanno legittimamente all’estero a cercare salari che non siano da fame, mentre i migliori giovani emigrano perché qui non è possibile far ricerca, mentre medici e infermieri scappano dal nostro Paese e dalla sua Sanità a pezzi, ci vuole un bel coraggio a percorrere la corrente al contrario, come un salmone tinto di tricolore. E ci vuole un bel coraggio, in mezzo ai cori di mugugni, in mezzo alle lamentele perenni, alle autocommiserazioni e ai tafazzismi, in mezzo a tanti egoismi e individualismi, in mezzo a eserciti di italiani che non perdono occasione per vituperare l’Italia, ci vuole un bel coraggio a dire: «Questo è il mio Paese». E io non so se leggere questa lettera ha fatto cambiare l’umore anche a voi, come è successo a me, non so se dopo averla letta avete ritrovato un po’ dell’energia che pensavate perduta per sempre, ma io sentivo di dovervela consegnare. Perché non c’è niente di più importante che lottare contro il grande male che rischia di annichilirci: la rassegnazione. E Chiara ci aiuta in questa lotta. Ci aiuta davvero. A patto che fra due mesi non ci scriva un’altra lettera, magari dall’Australia.
Continua a leggereRiduci
È dedicato a Hitler e Mussolini l’ultimo libro di Bruno Vespa. Ma dall’inchiesta sul passato il giornalista allarga poi l’approfondimento al presente, esplorando coppie politiche come Meloni-Schlein e Renzi-Conte. E al lettore offre alcuni retroscena inediti.
Mussolini-Hitler ma anche Meloni-Schlein, Conte-Renzi, Salvini-Vannacci. Vite parallele. Con la grande Storia che nella seconda parte lascia il posto all’attualità cucinata con originali approfondimenti e intriganti retroscena. È la formula classica di Bruno Vespa al suo 35º libro, edito da Mondadori e Rai Libri, titolo Hitler e Mussolini, sottotitolo illuminante «L’idillio fatale che sconvolse il mondo (e il ruolo centrale dell’Italia nella nuova Europa)». Ieri e oggi, tutto si tiene. Un menù collaudato, un classico sugli scaffali alle prime brume. Perché nel Paese del premierato e del campo largo, senza il saggio del patriarca degli anchormen televisivi non c’è risposta definitiva ai questiti della politica. E laggiù in fondo non c’è neppure Natale. Bruno Vespa, fondere storia e attualità è una formula vincente. Come nasce l’idea?Gli italiani sono appassionati di storia più di quanto non s’immagini. E poi di attualità, con approfondimenti e retroscena che non mancano mai. Ho aggiornato il libro con tutte le novità fino all’ultimo minuto; ho il vizio del cronista, amo raccontare la storia in presa diretta come se fosse cronaca e l’attualità come se fosse già storia. La formula è nata 20 anni fa con Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. Ha funzionato e ho continuato. Molti suoi libri hanno Mussolini nel titolo, un nome che funziona sempre.È un passato che non passa, ancora troppo recente per essere sepolto, tra l’altro rinverdito da polemiche e motivazioni indebite. Mussolini è sempre attuale. Grazie a un eroe nazionale come Charles De Gaulle, i francesi hanno dimenticato più in fretta la Repubblica di Vichy di quanto non abbiamo fatto noi con la Repubblica di Salò. E dire che era molto più estesa quella francese, con annessi e connessi.È vero che gli italiani non erano fascisti ma mussoliniani con il culto della personalità?Fino al 1937 compreso, lui aveva un consenso enorme, diventato ancora più grande dopo la campagna d’Etiopia, al termine della quale applaudirono anche gli antifascisti come Carlo Rosselli. Nel 1935, alla consegna dell’oro alla patria, perfino l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster donò l’anello pastorale. Poi, nel 1938, il duce si infilò nella follia delle leggi razziali e iniziò il disastro. Ma questo lo racconto nel prossimo libro. Comunque Mussolini ha avuto una storia diversa rispetto a Hitler.In che senso?Ha asservito il partito allo Stato mentre Hitler ha asservito lo Stato al partito. Nel libro c’è la storia parallela dei due dalla nascita al 1937, anno della visita a Berlino del duce. All’inizio Mussolini detestava il führer, lo considerava un isterico. Vengono affrontate anche le avventure galanti dei due signori e la parte romantico-sessuale è estesa.La sinistra teme il ritorno del fascismo. Può accadere?Nessuna possibilità, è impensabile. Ma nemmeno una nostalgia accentuata sarebbe credibile. Consideri che neanche un terzo dell’elettorato di Giorgia Meloni è missino; sono quasi tutti liberali, cattolici, conservatori. Lo dice anche l’europarlamentare Nicola Procaccini, ripreso nel filmato di Fanpage sui giovani di destra: «Io e Giorgia non siamo mai stati fascisti neppure da bambini». Non esiste proprio. Dopo due anni di governo, Meloni cresce nei sondaggi. Invece dell’uomo forte piace la donna forte.
È un dato di fatto, è il segno trasversale del successo della donna italiana. Lo dimostra anche la leadership di Elly Schlein. Una svolta pure questa perché la sinistra è sempre stata fortemente maschilista. In generale è un interessante cambio di paradigma. In più Meloni ha una popolarità e una legittimazione internazionale che un primo ministro italiano non aveva da tempo. Dieci giorni fa Le Monde, bandiera della sinistra intellettuale francese, è arrivato a scrivere: «Divenuta maestra del gioco politico, Meloni in due anni ha saputo imporsi a Roma come a Bruxelles».
Un miracolo dovuto solo al carisma?
No, anche alla congiuntura internazionale favorevole. Macron sta messo male, Scholz è un morto che cammina, Sánchez è in una situazione paradossale, l’economia va bene ma basta uno starnuto dei catalani per farlo cadere. Londra ha il mal di testa, l’America non ne parliamo. Meloni al G7 era l’unico leader solido di un Paese forte, e la cosa è molto piaciuta ai mercati.
Ma i mercati non danno la felicità.
Però creano fiducia e le previsioni positive delle agenzie di rating. Lo spread è diminuito di 100 punti, questo conta. Non dimentichiamoci che dopo i 500 punti che fecero cadere Berlusconi, anche Monti se li ritrovò tali e quali sul cammino. Meloni piace perché non dice bugie, ma ciò che pensa. Ora mi auguro la stabilità, ma me la augurerei per il Paese anche con un governo diverso.
La luna di miele è destinata a durare?
Ipotizzare il futuro è azzardato anche perché gli italiani sono imprevedibili. Sono impazziti per Grillo, poi per Renzi, Salvini, oggi Meloni. E domani? Fare previsioni è un’operazione spericolata. Un dato però è certificato: in questo periodo non è cresciuta solo lei, ma tutti i partiti che compongono la coalizione. Non accadeva da anni.
Con due donne a presidiare destra e sinistra collassa il centro. Com’è possibile?
Fallito il terzo polo, Renzi vuole entrare nel campo largo e Calenda no. Ma attenzione, entrambi partono da sinistra. Chi aspira in modo più credibile a coprire il centro è Tajani. Forza Italia è oltre le previsioni, e dopo la morte di Berlusconi nessuno avrebbe potuto immaginarlo.
La Lega è alle prese con il «papa straniero» Vannacci. Fenomeno passeggero o strutturale?
Vannacci è già stato decisivo nel contribuire al risultato della Lega alle europee. Il governatore del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, mi ha detto che metà dei 540 mila voti li ha presi il generale, l’altra metà li ha presi la Lega. Mi sembra ragionevole immaginarlo. Vannacci è un valore aggiunto, non credo che farà la stupidaggine di fondare un suo partito.
Nel frattempo il Medio Oriente è tornato a bruciare. Come 20, 30, 40 anni fa.
Questa volta la prospettiva è diversa. Nei decenni passati la crisi coinvolgeva anche altri Paesi mentre oggi a fronteggiare Israele c’è il vero nemico storico: l’Iran è uscito allo scoperto ma dopo le ultime batoste se ne starà buono. Israele è la potenza cibernetica e di intelligence più raffinata al mondo; tirare la corda non conviene a nessuno. Insomma, mi pare una crisi gestibile.
Il 2025 sarà l’anno della pace in Ucraina?
Dipende tutto da Vladimir Putin, se accetta di sedersi al tavolo oppure no e a quali condizioni. Ho parlato con Volodymyr Zelensky a Roma; mi pare molto difficile che gli ucraini si arrendano.
Quando questo articolo uscirà, negli Stati Uniti si sarà votato: qual è il miglior esito delle urne per l’Italia?
Vedo Meloni in una botte di ferro in ogni caso. Con Trump vincitore può far valere il sodalizio con Elon Musk, grande elettore conservatore. Se ha avuto la meglio Kamala Harris, contano i solidi rapporti che la premier italiana ha avuto con Joe Biden.
Torniamo nel cortile di casa: in Rai esiste TeleMeloni?
(Sonora risata). Si metta comodo. Sono entrato in Rai nel 1962, a 18 anni, fin qui ho avuto 25 amministratori delegati. Da sempre il governo (fino al 1976) e il maggior partito di governo (dopo il 1976) hanno nominato i vertici dell’azienda. Nell’ultimo ventennio Pd, Forza Italia, Renzi (quindi ancora Pd), Movimento Cinque stelle, Draghi, Meloni. Nessuna novità. Detto questo, il corpaccione della Rai anche per ragioni culturali è sempre stato di sinistra.
Perché si grida all’allarme democratico?
Per sport. Giorgia Meloni ha soltanto attenuato un controllo della sinistra che era pressoché totale. E lo era a maggior ragione perché la rappresentanza dei dipendenti nel cda è sempre di sinistra.
Montanelli diceva: «Uscirò da una redazione solo con i piedi in avanti». Bruno Vespa, lei ha compiuto 80 anni. Mai pensato alla pensione?
Le persone che smettono di lavorare si deprimono, dunque la penso proprio come Indro. L’unico che può farmi andare in pensione è il Padreterno. Ma fino a quando non mi darà un colpetto sulla spalla, qui si lavora.
Continua a leggereRiduci
Nell’autobiografia in uscita, l’ex cancelliera fa i conti con la propria storia e quella della Germania. Ora, oltre ai successi, dovrà spiegare le aperture a Mosca e le strategie tedesche nella Ue.
In Germania manca poco all’uscita della corposa autobiografia di Angela Merkel, intitolata Freiheit, libertà, e, fin dalle prime anticipazioni, è un tentativo in piena regola di fare i conti con la storia - la sua, di Merkel, ma non solo. Non vi è dubbio che con la cancelliera - che ha lasciato il posto a Olaf Scholz nel 2021, dopo 16 anni - il pendolo abbia oscillato tra il servo encomio e il codardo oltraggio. Merkel, cioè, è stata prima applaudita come leader indispensabile dell’Occidente, e poi criticata come la figura che ha posto le premesse per l’attuale dolorosissima crisi tedesca. L’abbraccio con la Russia, l’illusione dell’Eldorado cinese, la scommessa green e la fuga repentina dal nucleare, l’ingovernabilità dei flussi migratori, Volkswagen e altri colossi industriali tedeschi che annunciano chiusure delle loro fabbriche tedesche: tutto ciò e molto altro è messo in conto all’esponente oggi più famosa dei cristiano-democratici.
Merkel però non ci sta a questo gioco al massacro, e lascia agli atti del processo che sta subendo una sorta di memoriale difensivo. Freiheit copre ben 70 anni di vita e di storia, di cui una metà esatta trascorsi al di là del Muro di Berlino, e l’altra metà con l’unità tedesca. Ci sarà tempo e modo di apprezzare fino in fondo le oltre 700 pagine di questo libro, soppesando quello che dice, e come lo dice, e quello che invece non vi ha trovato spazio. Particolarmente interessante sarà il modo in cui la cancelliera presenterà il rapporto con la Russia di Putin. Era davvero convinta di poter addolcire Mosca ed europeizzare la Russia, forte della complementarietà tra tecnologia tedesca e risorse russe? E, se così era, come ha potuto non rendersi conto che l’equazione stava impazzendo e che il contesto geopolitico su cui si basava Merkel era divenuto obsoleto?
Prima di arrivare a queste cruciali domande, sul taccuino dell’analista si fissano alcune impressioni. La prima: Merkel è stata una politica di non comune preparazione, che compulsava in ogni dettaglio i dossier che le preparavano i suoi collaboratori. La seconda: per anni la cancelliera ha rappresentato la risposta alla sarcastica battuta di Henry Kissinger «L’Europa? Qual è il suo numero di telefono?». Merkel ha cioè dato corpo a una figura di leader politico non solo tedesco, ma anche europeo, dedicando grande attenzione alla pratica del potere. L’esempio più noto è quello del tedesco Martin Selmayr, a lungo deus ex machina degli ingranaggi bruxellesi e oggi ambasciatore dell’Unione europea presso il Vaticano.
Questo esempio non è certo il solo: Berlino dispone oggi di un’infrastruttura di potere formidabile a Bruxelles, e lo deve in buona parte proprio a Merkel. È in questo contesto che va collocato il «parricidio» di Merkel nei confronti di Helmut Kohl, che aprì il lunghissimo ciclo politico di Merkel. Della quale è ben nota la spietatezza con cui rimuoveva avversari, specie all’interno del suo stesso partito (citofonare Friedrich Merz per referenze). Ma il caso di Kohl, che di Merkel fu padrino putativo e mentore politico, fa storia a sé rispetto al «killer instinct» di Merkel. Di Kohl, Merkel non rimosse infatti solo la presenza politica, cosa di cui Kohl non si diede pace fino alla fine. Ne seppellì anche gli ardori patriottici. Kohl, protagonista della riunificazione delle due Germanie, era convinto che i lunghi decenni di separazione non potessero che trovare un premio nella ritrovata unità e nell’identità nazionale tedesca. Merkel la pensava diversamente. Con ogni probabilità, l’idea di fare i conti con l’identità nazionale tedesca le metteva i brividi.
Fin dall’inizio per Merkel il sovra-Stato europeo rappresentava una nuova architettura che imbrigliava la Germania riunificata pur amplificandone il potere. Anche il modello centrista perseguito tenacemente da Merkel muoveva da premesse simili. La Cdu, partito conservatore-centrista, sotto la guida di Merkel è si spostata sempre più verso il centro. L’accentramento si è tradotto a loro volta nell’impossibilità di imbastire coalizioni di centrodestra e nella necessità di fare a lungo coppia con i socialdemocratici tedeschi. Ma nelle praterie che si sono così aperte sulle «ali» oggi scorrazzano, con grande gioia di Mosca, i massimalisti di Sahra Wagenknecht (BSW) e l’estrema destra di Alternative für Deutschland.
TUTTE LE NEWS
Continua a leggereRiduci
Ai tre fratelli Elkann, e in particolare a John, il denaro pare non bastare mai. Al punto che negli ultimi 20 anni, dopo la morte di Gianni Agnelli, avrebbe fatto di tutto per mettere le mani sul patrimonio nascosto dell’Avvocato. E poi su quello di nonna Marella Caracciolo, arrivando a convincerla ad aggirare il Patto successorio stipulato con la figlia Margherita. Ecco le carte che dimostrano la spartizione di quadri e gioielli.
Di più, ancora di più, sempre di più. Denaro, naturalmente. Tanto denaro che però sembra non bastargli mai. La storia degli ultimi vent’anni dei tre fratelli Elkann, e in particolare di John - così come l’hanno ricostruita i Pm di Torino - appare diretta a un obiettivo: mettere le mani sul tesoro nascosto di Gianni Agnelli di cui, alla sua morte, la nonna Marella ha assunto il controllo tagliando fuori la figlia Margherita e nascondendole la parte più grande del «bottino». Tolta di scena la propria madre grazie all’accordo-trappola di Ginevra e al Patto successorio, per John è facile convincere la nonna a girare i propri beni a lui, Lapo e Ginevra. Usa parole molto convincenti: «Nonna, c’è il rischio che lei metta le mani sui beni del nonno Giovanni. Devi impedirlo». Colpisce il gran numero di comunicazioni, specie e-mail, che ha tenuto impegnato John ogni giorno per molti anni come se la sua attività principale fosse solo quella di entrare in possesso, a poco a poco, delle gigantesche proprietà della nonna senza aspettarne la morte; di «costruire» e retrodatare un mare di «donazioni» non spontanee per evitare le tasse; di «blindare» e tenere al sicuro la finta residenza svizzera di Marella per evitare che la sua successione venisse regolata dalle leggi italiane. L’operazione Dicembre. L’«operazione» comincia appena un mese dopo la morte dell’Avvocato, all’apertura del testamento dei beni in Italia e alla contestuale riunione della Dicembre, il bene più prezioso, la cassaforte di famiglia che contiene la maggioranza della multinazionale Exor e dell’ex Accomandita Giovanni Agnelli. Quel giorno Marella comincia una lunga serie di «donazioni»: cede parte delle sue quote della Dicembre a John e gli consegna la maggioranza assoluta, rendendo inutile il pacchetto di Margherita. Poco dopo l’accordo con la figlia, il 19 aprile 2004, la nonna completa l’opera: dà a John il 60 per cento e il 20 per cento ciascuno a Lapo e Ginevra. I tre lo renderanno noto solo 17 anni dopo (30 giugno 2021) - con una scrittura privata non autenticata - e dopo che l’Agenzia delle Entrate aveva scoperto che era Marella ad avere la nuda proprietà e non i nipoti. La nonna, rappresentata dal manager di fiducia Gianluca Ferrero, non era in grado di chiarire il titolo giuridico delle sue quote della Dicembre poiché l’emersione di questa vicenda avrebbe comportato conseguenze rilevanti implicando un ruolo attivo di Marella nella gestione di beni «italiani» e compromettendo di sostenere la sua residenza svizzera. Non solo: quella cessione ai fratelli Elkann presenta gravi anomalie poiché mancano riscontri certi sull’effettivo trasferimento dei fondi e il pagamento alla nonna del corrispettivo. Dalla vicenda, di cui John ha occultato le carte dal 2004 al 2021, emerge, oltre al coinvolgimento di Ferrero, come sottolinea il Pm, la conferma di una strutturata strategia fraudolenta nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Ma è solo l’inizio.718 milioni di euro. Dopo essersi presi la «cassaforte», i tre fratelli si concentrano sui 718 milioni di euro (oltre 239 milioni ciascuno) che la nonna possiede in due «trust», fondi fiduciari alle Bahamas aperti nel luglio 2004, poco dopo l’accordo-trappola con la figlia. I documenti sono stati trovati nello Studio Ferrero. Intanto, i tre fratelli possono già disporre, con la nonna in vita, di Chesa Alkyone a St. Moritz, assegnata a John (valore 42,5 milioni) più opere d’arte, arredi e pertinenze (valore 34,6 milioni); la più piccola Chesa Mezdi a Lapo (18,2 milioni più 100 mila), Launen e il riad Marrakech a Ginevra (11 milioni più 7,7). Leggendo gli atti emerge che ai fratelli tutto ciò non basta e prendono anche di arredi e opere d’arte nelle tre residenze italiane di cui Marella aveva l’usufrutto (Villa Frescot, Villar Perosa, Roma): valore 16,6 milioni di euro, esclusi 39 preziosi dipinti (tra cui Goya, Modigliani, due Picasso, De Chirico, Paul Klee, due Balthus, Delacroix, Bossoli, Balla). Per la loro «sparizione» Margherita ha denunciato i tre figli.Difficile divisione. L’inchiesta propone anche scene da film. Si immagini un grande tavolo con i fratelli riuniti per la spartizione di un’altra fetta del tesoro della nonna, con Marella ancora viva. Sul tavolo ci sono foto e stime di Sotheby’s e di Gurr Johns, l’organizzazione che si occupa del mercato dell’arte dal 1914. Sul «piatto» ci sono beni per 170 milioni di euro, tra cui dieci quadri (64 milioni di stima), alcuni gioielli (95 milioni) e altri oggetti minori. A John tocca un controvalore di 29,729 milioni, a Lapo di 28,491 milioni, Ginevra sceglie beni per 111,794 milioni. Vuole e ottiene gli orecchini in diamanti blu della nonna, 78 milioni, firmati Harry Winston. I fratelli non obiettano ma dovranno poi vedersela con le loro mogli. Anche se Lavinia forse aveva già ricevuto da Marella, tra il 2010 e il 2014, un anello di diamanti (2,6 milioni) e due spille con zaffiro, smeraldi e diamanti (1,4 milioni).Andy Warhol. Per i quadri non ci sono discussioni. Fra le tre opere di Andy Warhol, John sceglie la più preziosa (Batman, 10 milioni), a Ginevra va un Ritratto di Marilyn Monroe (3,5 milioni), a Lapo tocca Baskia, co-produzione Warhol-Basquiat da 2,5 milioni. John prende anche la Tour Eiffel Rouge di Robert Delaunay e Cardinal Numbers di Robert Indiana (5,5 milioni ciascuno). Per Lapo c’è pure una tela di Claude Monet (Glaçons, effet blanc, 17,5 milioni), mentre a Ginevra vanno Francis Bacon (Three Studies for Portrait of Gianni Agnelli, 12 milioni), Balthus (Nudo di profilo, 4,5 milioni), Kees Van Dongen (La Marquise Casati, 2,5 milioni), Jean Dubuffet (Lieu rouge a l’auto, 500 mila). Praticamente una galleria.Gli altri gioielli. Ma c’è altra «roba» da spartire. Ginevra sceglie un ciondolo con diamanti di Jacques Timey per Harry Winston (cinque milioni di euro), un anello con rubini, diamanti e diamanti blu firmato Verdura (1,3 milioni), un anello di Bulgari con zaffiri e diamanti (900 mila), una collana di diamanti del 1890 con orecchino terminale (750 mila). John preferisce quattro tabacchiere: una in oro multicolore con gioielli, realizzata nel 1765 per il Re di Prussia (tre milioni); una in oro, pietra dura, madreperla burgau, avorio e smalto, creata da Johann Christian Neuber a Dresda, nel 1770 (850 mila); una ingioiellata in oro a quattro colori di Daniel Baudesson (Berlino, 1755-60); una del 1773 in oro e pietra dura di Christian Gottlieb Stiehl (500 mila euro ciascuna). Lapo sceglie per Joana un anello di diamanti di Bulgari (2,6 milioni) e una spilla firmata Verdura con smeraldi, zaffiri a forma di cuscino e diamanti (un milione). E infine vuole 25 piatti di porcellana dipinta della collezione dell’ultimo zar (500 mila euro). I pm osservano che i beni inventariati quali «regali» siano stati, attraverso artifici e raggiri, sottratti alla massa ereditaria, poiché non erano mai stati formalmente e realmente donati, erano sempre rimasti nella disponibilità di Marella fino alla morte, e solo successivamente, erano stati fatti oggetto di spartizione dai fratelli Elkann. Emerge che erano stati perfino aperti due depositi in cui accatastare altri oggetti da far scomparire. Non si conosce il destino di preziosi frammenti di mosaici romani, né se siano vere alcune donazioni al Circolo del Whist di Torino, né se l’ex marito di Ginevra, il principe Giovanni Gaetani dell’Aquila d’Aragona, abbia mai ricevuto un orologio da taschino e un dollaro d’oro come dicono gli elenchi. Ma, tutte queste forse sono solo inezie, poiché c’è un giallo da chiarire. Qualche mese dopo la morte della nonna avviene l’ennesimo scambio di email tra l’assistente della defunta, Paola Montaldo, e John cui lei si rivolge con un «Caro Ingegnere». Dopo aver predisposto gli elenchi dei finti «regali», delle date di attribuzione, degli inventari, la segretaria - fatta assumere dallo Studio Ferrero ma al servizio di John e anche da lui retribuita con un fuori-busta di appena mille euro al mese -, gli chiede ermeticamente nel file «Notapering.doc»: «I lingotti sono da tenere?». Sono forse quelli della nonna depositati nel Free-port di Ginevra?
Continua a leggereRiduci
Tempo fa mi capitò di leggere su la Repubblica la storia di una pensionata al minimo. Era una donna vicina agli ottant’anni, che non riusciva ad arrivare a fine mese. Il racconto si snodava tra bollette non pagate e una spesa alimentare a livello di sussistenza, integrata spesso facendo la fila alla mensa dei poveri. Com’è possibile che una donna anziana, che dichiarava di aver lavorato tutta la vita, fosse costretta a fare i salti mortali per campare?
Me lo sono chiesto una volta arrivato in fondo all’articolo. La risposta stava in un paio di righe, buttate lì, nella ricostruzione delle fatiche quotidiane. Il marito prima di morire aveva un’officina meccanica, «e sa», spiegava la signora «a quei tempi si pagavano contributi limitati, dunque la pensione di reversibilità è poca cosa». Lei invece aveva fatto la colf, «e sa», confidava alla cronista del quotidiano romano, «allora non si pagavano i contributi». In pratica, i coniugi avevano lavorato per anni evadendo fisco e contributi e oggi la signora, giunta alla soglia degli ottant’anni, era una pensionata al minimo, che non riusciva a saldare il canone d’affitto e doveva decidere se pagare la bolletta o il supermercato, perché entrambe le cose con l’assegno che le versava l’Inps non riusciva a farle. Un assegno, come si usa dire, a carico della fiscalità generale, ossia sostenuto dai contribuenti che le tasse e i contributi li versano.
La storia della pensionata scovata da la Repubblica per attaccare il governo che affama i pensionati mi è tornata in mente l’altra sera, quando nella trasmissione di Bianca Berlinguer ho visto raccontata una storia analoga. Una signora avanti con gli anni che dopo una vita passata a cucire tappezzeria per poltrone e divani si ritrova con un assegno al minimo, di appena 600 euro. «Sapete» ha raccontato davanti alle telecamere «a quei tempi si pagavano pochi contributi». Ecco, la storia di persone fragili e in difficoltà colpisce. E umanamente non si può che solidarizzare con loro: vederli in fila fuori dalla sede di «Pane quotidiano», una delle associazioni che a Milano distribuisce pasti e generi alimentari a chi non ce la fa, stringe il cuore. Tuttavia, non si può nemmeno ignorare che se la pensione percepita è al minimo è perché non si sono versati i contributi e dunque nemmeno le tasse. È facile lamentarsi con la grande evasione, che ricade sui contribuenti onesti, i quali sono chiamati a pagare di più a causa di chi non ha pagato niente. Però in Italia, i 4,5 milioni di pensionati al minimo, dunque a carico della fiscalità generale, ci costringono a guardare in faccia una realtà che riguarda anche la piccola evasione.
Quasi un quarto degli assegni pagati dall’Inps in teoria non sono dovuti, perché non sono ottenuti dopo aver maturato un numero sufficiente di versamenti previdenziali. Lo Stato se ne fa carico, ma in quanto è chiamato ad aiutare le persone in difficoltà. Infatti quelle sono pensioni sociali, riconosciute a titolo assistenziale. Per chi le riceve, che si chiamino in un modo o in un altro cambia poco, perché i soldi sono sempre scarsi. Ma per il bilancio pubblico cambia molto, in quanto se tutti versassero i contributi, l’Inps non rischierebbe la bancarotta e i contribuenti che le tasse le pagano non sarebbero chiamati a pagarne sempre di più.
Ho letto di recente che 300 mila persone, con la loro pensione da cinquemila euro lordi (all’incirca tremila netti), costano all’ente previdenziale come 4,8 milioni di pensionati al minimo. Però il Corriere della Sera, che ha pubblicato la notizia, si è ben guardato dallo scrivere che i primi la pensione l’hanno pagata e i secondi no. Giorni dopo però, il quotidiano di via Solferino ha pubblicato un articolo per spiegare che chi guadagna dai 55 mila euro lordi l’anno, all’incirca tremila euro netti al mese, paga per tutti, perché questi contribuenti si fanno carico del 42 per cento del gettito Irpef e in cambio non ricevono quasi nulla. In pratica, c’è un 15 per cento di italiani che sostiene il welfare, mentre il resto vive a sbafo. A sinistra sostengono che per rimettere in ordine le cose sarebbe sufficiente tassare di più i ricconi, ma la patrimoniale o anche un prelievo sui redditi più alti, finirebbe sempre in tasca a quel ceto medio che oggi sorregge l’assistenza per tutti e, pur senza ricevere indietro quasi niente, consente che ogni cittadino possa beneficiare di sanità, istruzione e sicurezza.
So che tutto ciò può urtare la sensibilità di alcuni, perché le immagini di una donna che a ottant’anni non può fare la spesa al supermercato sono dolorose e imbarazzano chi sta comodo nel proprio salotto di casa. Ma se non invertiamo la tendenza, ovvero se non prosciughiamo la «grande piccola» evasione fiscale, continuando a lamentarci per le pensioni basse non ne usciremo.
Continua a leggereRiduci
Il primo ministro inglese, ricordato per la lotta contro la follia nazifascista durante la Seconda guerra mondiale, in realtà era stato tutt’altro che ostile ai regimi italiano e tedesco. Per Hitler e Mussolini esprimeva parole di ammirazione, poi in fretta cancellate.
Ce lo aveva annunciato del resto lui stesso: «La storia sarà gentile con me: poiché intendo scriverla io». E in effetti bisogna riconoscere che Winston Churchill ha compiuto il suo più grande capolavoro nell’alterare la realtà dei fatti, divenendo egli stesso fonte ingannevole di una narrazione avvelenata, con la sua monumentale storia della Seconda guerra mondiale che gli valse il Nobel per la letteratura. La versione dei fatti scritta dai vincitori ci ha tramandato una certa immagine dello statista britannico. L’uomo che promette alla sua nazione sudore, lacrime e sangue per fermare Hitler e che pronuncia, nel 1940, parole rimaste scolpite nella memoria collettiva: «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo sui campi e sulle strade, combatteremo sulle colline; noi non ci arrenderemo mai».
Però esiste anche un secondo Churchill. Quello che, negli anni precedenti, non nascondeva la sua ammirazione per Benito Mussolini, sviolinava Adolf Hitler e, nella guerra civile spagnola, benché formalmente neutrale, simpatizzava in realtà per i falangisti di Francisco Franco. È severamente vietato guardare dentro questa storia, nessuno la ricorda né se ne parla. Eppure non è meno vera delle parole sulla resistenza a oltranza contro il «mostro» nazista e fascista. Alcune delle più sconcertanti dichiarazioni di Churchill risalgono al 17 febbraio 1933, quando tenne un discorso sul «pericolo rosso», a Londra, alla Queen’s Hall, in occasione delle pompose celebrazioni del venticinquennale dell’Unione anticomunista e antisocialista. L’uomo col sigaro definì Mussolini come «il più grande legislatore vivente», aggiungendo che egli aveva «stabilito un centro di riferimento nel mondo, nella storia del mondo, attraverso cui le comunità disperate alle prese con il bolscevismo non esiteranno a lasciarsi guidare». Poi partì con una filippica contro i debosciati rampolli delle élite britanniche, gli universitari di Oxford, i quali avevano da pochi giorni pronunciato un solenne giuramento che suonava come una vera e propria forma disonorevole di diserzione preventiva di fronte al dovere di combattere in armi per la difesa della Patria aggredita. L’Unione di Oxford, il consesso dove si svolgevano i celebri duelli oratori tra gli studenti, aveva approvato, con 275 voti contro 153, una mozione che affermava: «Questa istituzione rifiuta in qualunque circostanza di combattere per il re e per la nazione». Churchill definì «abietto» tale giuramento, aggiungendo: «Ci è stato detto di non prendere molto sul serio questo fatto. Il quotidiano The Times ha scritto un articolo, L’ora dei bambini, ma io disapprovo, e penso che noi dovremmo prendere la cosa molto sul serio. Io credo che sia il sintomo di qualcosa di inquietante e insieme di disgustoso».
Si lanciò quindi in un’apologia dello spirito regnante in Germania, dove Hitler era da poco asceso al potere, e in Italia, governata dal «genio romano» del suo novello Cesare. «La mia mente si rivolge alle ristrette acque del Canale e del Mare del Nord, dove grandi nazioni sono fermamente determinate a difendere i loro interessi, la loro gloria nazionale e la loro esistenza, insieme con le loro stesse vite». Ecco le parole incredibili e sconvolgenti che uscirono dalla sua bocca: «Penso alla Germania, con i suoi splendidi giovani, dagli occhi azzurri, che marciano uniti per tutte le strade del Reich, cantando i loro antichi inni, domandando di essere arruolati in un esercito, cercando con impazienza le armi della guerra e bruciando dal desiderio di patire e di morire per la loro Patria». L’ardore della gioventù hitleriana, purtroppo, non era degno di essere additato per esempio, in quanto, nel volgere di pochissimi anni, la storia si sarebbe incaricata di dimostrare che molti di quei «guerrieri ariani» sarebbero stati autori di una delle più abominevoli combinazioni di crudeltà personale e di efferatezza ideologica che la storia abbia registrato, sotto il folle disegno della supremazia razziale.
Poi aggiunse: «Penso all’Italia con i suoi ardenti fascisti, schierati con il loro grande Capo, e colmi di senso della fierezza patriottica e del senso del dovere nazionale». Sono molti, e mai, o quasi mai, ricordati, i discorsi e le prese di posizione in cui Churchill tessé le lodi dei due alleati di Berlino e Roma, Hitler e Mussolini, almeno fino al 1938-39. Il 17 settembre 1937, riprendendo un sentire comune tra la popolazione britannica, che corrispondeva anche ai suoi convincimenti, definì la Germania una grande nazione «legata a noi da tanti vincoli di storia e di razza». Poi, negando di essere «ostile al governo tedesco», vaticinò, appellandosi al Führer come allo statista «della pace»: «Quando un uomo è impegnato in una lotta disperata, è costretto talvolta a digrignare i denti mentre i suoi occhi lampeggiano d’ira. Ira e odio rendono ancora più efficaci le armi per la lotta. Ma il successo dovrebbe invece rendere lieto e sereno lo spirito per custodire e consolidare, con uno stato d’animo adatto alle nuove circostanze, con tolleranza e comprensione tutto ciò che nella lotta si è riusciti a ottenere». Parole gettate nel vuoto, che però avevano il potere di influenzare l’opinione pubblica, per la statura della personalità che tali espressioni pronunciava, rafforzando quel clima di appeasement, cioè di pacificazione con i dittatori, che era in pieno svolgimento nella Gran Bretagna d’allora.
Un plateale e colossale endorsement filofascista fu quello messo a segno da Churchill, dieci anni prima, davanti alla stampa italiana, al termine dei suoi colloqui romani con il Duce: era il gennaio del 1927. Al tempo, l’uomo politico d’Oltremanica era cancelliere dello Scacchiere. «Non ho potuto non rimanere affascinato» esordì «come tante altre persone, dal cortese e semplice portamento dell’onorevole Mussolini e dal suo contegno calmo e sereno, malgrado tanti pesi e tanti pericoli. Secondariamente, è stato facile accorgersi che l’unico suo pensiero è il benessere durevole del popolo italiano, così come egli lo intuisce, e che qualunque altro interesse di minor portata non ha per lui la minima importanza». Così proseguì, negli incensamenti: «Sul piano della vostra politica interna, ho sentito molte cose intorno alla vostra legge sulle corporazioni, che, mi si dice, associa direttamente venti milioni di operosi cittadini allo Stato, e obbliga lo Stato ad assumere a loro riguardo e verso i loro dipendenti delle responsabilità molto dirette. Questo movimento è del massimo interesse e il risultato di esso sarà attentamente seguito in ogni Paese». Ancora: «Certamente, esso richiede la maggior buona volontà e cooperazione da parte di tutto il popolo; come anche una guida chiara e sapiente da parte dello Stato. Ma, ad ogni modo, di fronte a un tale sistema accettato con ardore, è perfettamente assurdo dichiarare che il governo italiano non poggi su una base popolare, e che non sia sorretto dal consenso attivo e pratico delle grandi masse». E concluse: «Se fossi stato italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti e le passioni del leninismo».
Anche come editore di giornale, Mussolini aveva più di una ragione di ricevere questo panegirico dall’ospite straniero. Churchill era stato gratificato da una collaborazione d’oro con Il Popolo d’Italia, il quotidiano fascista, che pubblicò, in numerosi articoli, usciti con grande evidenza in prima pagina, le sue memorie sulla Prima guerra mondiale.
Continua a leggereRiduci