Panorama
Quello dei treni e dei mezzi pubblici, quello degli studenti, quello delle consorti di chi ha votato Trump, ma anche quello delle orecchiette... Ognuno fa la sua protesta su misura. E nulla cambia.
Oggi non scrivo. Oggi sono in sciopero. Caro nume tutelare, scusami, ma incrocio le braccia. Mi astengo dalla rubrica. Protesto per le dure condizioni di lavoro del Grillo. Ma soprattutto mi accodo al trend della scioperite crescente. Alla faccia di chi diceva che il sacro e antico strumento di lotta dei lavoratori sarebbe finito nel dimenticatoio. Macché: non c’è mai stato un periodo di scioperi così intensi. A partire dallo sciopero generale (29 novembre), poi lo sciopero dei mezzi pubblici (in pratica ogni venerdì), lo sciopero dei ferrovieri (idem), quello dei tranvieri (come sopra), lo sciopero degli studenti (un altro classico), lo sciopero dei benzinai, lo sciopero del Teatro La Fenice. E naturalmente lo sciopero degli elettori, quello che riesce meglio di tutti. Ogni volta che si vota ottiene più adesioni.
Diciamocelo: oggi scioperare è molto trendy. Si porta benissimo su tutto, come il blu. È per questo che ho deciso di scioperare. Mi dispiace caro nume tutelare: incrocio le braccia. Del resto se è scattato pure lo «sciopero delle orecchiette» non può forse esserci lo sciopero del Grillo? Giuro: lo sciopero delle orecchiette. L’hanno proclamato davvero. Le donne pugliesi che vendono il prodotto tipico nelle viuzze di Bari Vecchia, diventate ormai un’attrazione fissa per i turisti, hanno proclamato un’astensione del lavoro per protestare contro chi le accusa di non vendere prodotti artigianali ma industriali. C’è chi sospetta che, in realtà, la loro rivolta sia contro coloro che vogliono istituire qualche controllo sulla loro attività, ma tant’è: lo sciopero s’è fatto. Lotta dura, orecchiette senza paura. Avanti popolo alla riscossa, cime di rape e pasta rossa.
Qualcuno potrebbe pensare che questo proliferare di scioperi, come quello dell’orecchietta o quello del Grillo, abbiano come effetto finale quello di svilire il sacro strumento di lotta dei lavoratori. In effetti, il sospetto viene. Ma del resto quando Maurizio Landini usa lo sciopero generale come strumento per la sua carriera politica, anziché per difendere gli interessi dei lavoratori, non fa la stessa cosa? E quando i ferrotranvieri fermano treni o bus senza provocare alcun danno alle aziende, ma solo agli incolpevoli passeggeri, non fanno la stessa cosa? E quando gli studenti scendono in piazza soltanto per poter bigiare la scuola e far baldoria, senza rimetterci niente, ma anzi guadagnandosi qualche pomeriggio libero, non fanno la stessa cosa? Non mortificano cioè un istituto per cui tanti lavoratori hanno perso vita e salute? E allora se lo fanno loro, caro nume, lo posso fare anche io. Questa settimana, rassegnati: sciopero. Non lavoro. Mi astengo dalla penna.
Un po’ come le donne di sinistra che hanno deciso di astenersi dal sesso per punire i mariti che hanno votato Trump. Anche questo è uno sciopero che sta andando per la maggiore, soprattutto sui social. Niente Kamala, niente sesso. Più Trump, meno tromb. Anche questo sciopero a dire la verità potrebbe sembrare offensivo per la gloriosa epopea delle lotte operaie, ma esso ha un riferimento storico che lo nobilita: racconta infatti Aristofane in Lisistrata che durante la guerra del Peloponneso le donne greche proclamarono lo sciopero del sesso. Niente più rapporti fino a quando non avessero smesso di combattere. In quel caso, per altro, l’astensione del lavoro raggiunse lo scopo. E ho scritto «scopo» senza allusioni, sia chiaro, se no qui ricomincia lo sciopero delle femministe… Del resto di scioperi bizzarri è piena la storia. Da quello per la birra alla domenica (Chicago, 1855) a quello contro Igor Stravinsky (Parigi, 1913), dalla rivolta per le calze di nylon (Pittsburgh, 1945) a quella per i cappelli di paglia (New York, 1922). E non sempre i manifestanti rivendicano il salario.
Eppure il primo sciopero di cui si ha notizia si svolse proprio per la paga: XII secolo a.C., Egitto del faraone Ramses, gli operai impegnati nella costruzione delle tombe rivendicarono il diritto alla ricompensa, e cioè grano, pesci e legumi, oltre che i sistemi di sicurezza, cioè gli unguenti necessari a proteggersi dal sole. Il faraone acconsentì, come documentato nel Papiro dello sciopero conservato al Museo Egizio di Torino. Oggi, purtroppo, i tempi sono cambiati. Oggi non si sciopera più per aumentare gli stipendi, che non a caso continuano a diminuire. Oggi si sciopera per tutto e per niente: per la politica, soprattutto. Per fare un po’ di vacanza (gli studenti). Per il week end lungo. Per punire i mariti trumpiani. Per le orecchiette. Alla fine c’è una tale esagerazione di scioperi che verrebbe voglia di proclamare uno sciopero contro gli scioperi. Anzi, lo sai che ti dico, caro nume? Quasi quasi lo proclamo io: uno sciopero contro gli scioperi. Per questo, scioperando, ti mando regolarmente la rubrica.
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Un’epopea di tiri al volo, tuffi impossibili, stop da funamboli e dribbling, colpi di testa, cross... Gesti che sono diventati leggenda, come i campioni che, osando, li hanno compiuti. Un libro celebra l’aspetto del calcio che più somiglia alla vita
«Nulla è più paninaro di questo gesto calcistico», scriveva Giorgio Bocca negli anni delle bombe e dei bomber. Si riferiva al colpo di tacco, sempre smargiasso ma non sempre inutile, quella giocata che per H.G. Wells serviva «a nobilitare la parte meno nobile del piede». Un giorno chiesero al fuoriclasse Eric Cantona, marsigliese, rissaiolo e poi attore, intellettuale della rive gauche: qual è stato il tuo gol più bello? Lui rispose: «È stato un passaggio». Pensava alla genialità dell’assist, il tocco a sorpresa che manda in porta il compagno di turno. «Non aver paura della perfezione, non la raggiungerai mai», sosteneva Salvador Dalí, ma Gigi Riva non lo sapeva e quel giorno a Vicenza si esibì nella rovesciata perfetta.Il colpo di tacco, il passaggio, la rovesciata. E poi il dribbling, il tiro, il cross, il calcio di punizione, il colpo di testa, la parata, il contrasto con le tibie che scricchiolano. E via aggiungendo, mentre la partita prende forma fra tecnica, istinto, personalità. Sono i gesti immortali del calcio che debordano da un libro originale, Giocati da Dio (editore Hoepli) scritto da Roberto Beccantini, fuoriclasse del giornalismo sportivo, simbolo della Generazione Cinema, quella che riusciva a raccontare lo Sport per immagini prima della morte civile provocata dalle statistiche. Il calcio dei calciatori attraverso momenti simbolici della memoria collettiva: il tiro al volo di Francesco Totti e Marco Van Basten, il tuffo impossibile di Dino Zoff, il gol assurdo di Michel Platini (annullato), la rovesciata immortale di Youri Djorkaeff a San Siro, la sgrullata di cabeza di Aldo Serena nel derby. E pure il tacco di Allah (Rabah Madjer in una finale di Champions). Elementi di corto circuito. E poi la hit parade dei migliori dieci gesti per categoria. Il gioco e le giocate visti da una tribuna, da una curva, da un divano. «La magìa dell’attimo che può cambiarti l’umore».
Beccantini ha un vantaggio, di colpi magici negli ultimi 50 anni ne ha visti molti. E tutti li ha raccontati, andando a chiedere lumi a chi li ha compiuti. «Ho avuto la fortuna di attraversare due millenni, sono nato nella lira e nella carta per atterrare sull’euro e sul web, mentre la televisione provvedeva a travolgere e stravolgere la lingua di accompagnamento, con la voluttà di farsi sentire e non sempre di “far sentire”. Questo è il calcio dei calciatori e dei sognatori, che oggi fatichiamo a riconoscere, legato com’è alle catene del business. Questo è il luogo dei rombi di tuono e dei lampi accecanti. Di momenti che ci hanno colpito e che abbiamo ammirato. Non ho voluto stilare classifiche ma raccogliere episodi, storie nascoste dietro una rovesciata, un dribbling, uno stop. Dai tunnel di Omar Sivori alle diavolerie di Leo Messi. Lampi che hanno scortato e scandito il mestiere di giornalista».In principio fu l’arte del dribbling, l’essenza della polvere e dell’oratorio, il calcio come la sublimazione dell’uno contro tutti. E qui c’è poco da scherzare: Garrincha, Pelé, Ronaldo il fenomeno, Leo Messi. Ma su tutti, i colpi d’anca di George Best. Descritti così: «Il dribbling di Best è stato un manifesto del Sessantotto, da destra al centro e poi a sinistra, il campo come piazza, il taglio ondulato ma netto. Il quinto Beatle fece del Manchester United un brand, oltre che una band. Trasformò la fascia laterale da cella a lenzuolo per evaderne. E come cantavano sugli spalti di Old Trafford: «Pelé good, Maradona better, George best».Assimilabile all’arte minimalista è lo stop di Roberto Baggio. Anche se incatenare quel genio a uno stop - per dirla alla Beccantini che adora i funambolismi della lingua - «potrà sembrare apologia di beato». Tutti gli stop. Soprattutto uno, quello di Juventus-Brescia, con il Divin Codino al tramonto, icona nella città della Leonessa. «La palla spiove nel sole di un pomeriggio abbastanza ordinario. Van der Sar (portiere bianconero, ndr) esita: esco, non esco. Esce ma in maniera un po’ amletica. D’improvviso il problema di Baggio, domare la palla e portarsela avanti, diventa il problema dell’olandese. Perché Robi il suo l’ha risolto. Scucchiaia la palla con il piede destro e se la porta sulla sua sinistra. Così facendo sorpassa ed elude il portiere, che invano abbozza un tuffo, e sempre di sinistro fa gol».
Alla ricerca del gesto perduto l’autore diventa Indiana Jones e scopre miniere di aneddoti. Per esempio che l’assist più stitico della storia coincide con il gol da fermo più incredibile di Diego Maradona a Napoli. Novembre 1985, il pomeriggio buio e tempestoso sta rotolando verso uno 0-0 senza storia fra gli azzurri e la Juventus, quando l’arbitro fischia una punizione indiretta. Sulla palla si piazzano Eraldo Pecci e il Niño, la barriera juventina è una muraglia cinese. «Toccamela un po’ dietro», sussurra Maradona a Pecci. «Ma dài, di lì non passa». «Ti ho detto toccamela». «Vabbè il genio sei tu», si arrende Pecci. E con la suola fa ruotare la palla di 20 centimetri. Con un tocco di interno sinistro Diego trasforma la parabola in arcobaleno: tutti sorvolati e folgorati. Gol. Come direbbe Paolo Sorrentino, è stato il piede di Dio. Pecci esulta: «Diego, hai visto che assist ti ho fatto?». Il vaffa argentino è affettuoso.Un capitolo a parte merita l’arte del contrasto o tackle, l’anima rude degli sport di squadra. Calcio, rugby, hockey, football americano, qualche volta basket, pallanuoto (sott’acqua ci si picchia che è un piacere); atteggiamenti da Far West nel ricordo imperituro di una frase erroneamente attribuita a Nereo Rocco ai suoi giocatori: «Colpite tutto quello che si muove a pelo d’erba. Se è il pallone, è meglio».
È l’elogio del corpo a corpo, con eroi della lotta al Colosseo come Beppe Furino, Claudio Gentile, Gennaro Gattuso, Beppe Bergomi, Sergio Ramos. Gente che oggi sarebbe ammonita solo per essere scesa dal pullman. Sempre il pragmatico Rocco amava dire che la squadra perfetta doveva contemplare «un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un “mona” che segna e sette asini che corrono». Un assassino in difesa, perché lì dove si protegge il fortino, non tutti sono stati signori come Paolo Maldini o Gaetano Scirea.«Il libro non vuole essere un testo riservato esclusivamente ai migliori» spiega Beccantini. «Più terra terra, riassume e incarna l’intento di spalmare la gioia e lo stupore. La persona al centro del villaggio, non la tattica, non l’apparato. Maradona mica nacque tra la cipria e i broccati di Los Angeles. Anzi, nacque in una specie di mangiatoia alla periferia di Buenos Aires. Andy Brehme non era un fuoriclasse ma lo ha simulato, lasciando traccia di sé in un rigore che in una notte romana del 1990 si allungò ben oltre gli undici metri della cronaca. Ci sono incroci che il destino mescola all’improvviso: se sei pronto - e Andy lo fu - verrà la gloria e avrà i tuoi occhi, parafrasando Cesare Pavese». Giocati da Dio, titolo mutuato dalla frase preferita del calciofilo Carmelo Bene, rappresenta tutto ciò che è calcio oltre l’ordine costituito delle lavagne della tattica, oggi esasperante. È l’istinto, è il rischio, è il coraggio di andare oltre l’orizzonte. Con l’avvertenza che l’azzardo ottico non vale solo nello Sport ma anche e soprattutto nella vita. È quello che ti aspetti quando ti piazzi davanti al televisore con ansia fantozziana. Ed è ciò che fece dire a Vujadin Boskov: «Se uomo ama donna più di birra gelata davanti a Tv con finale di Champions, forse vero amore. Ma non vero uomo».
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Al cinema Anthony Hopkins è Sigmund Freud che si interroga sull'esistenza di Dio. Ecco altri film che trattano con gravità o leggerezza di psicologia e psicoanalisi
Da Hannibal Lecter a Sigmund Freud, Anthony Hopkins esplora le declinazioni più oscure o più brillanti della mente umana. A 86 anni, infaticabile, ecco il grande attore americano premio Oscar per Il silenzio degli innocenti e per The Father - Nulla è come sembra nei panni del padre della psicoanalisi nel film Freud - L'ultima analisi, dal 28 novembre al cinema distribuito da Adler Entertainment.
Al suo fianco c’è Matthew Goode, che interpreta il teologo di Oxford C.S. Lewis. Nel settembre 1939, quando l’Inghilterra ha dichiarato guerra alla Germania, le due figure si scontrano sulla più grande domanda di tutte: Dio esiste? Nel frattempo sua figlia Anna Freud (Liv Lisa Fries), anche lei psicoanalista, ha bisogno di un confronto con il padre, che a causa di un tumore alla mascella che lo tormenta medita il suicidio. Vuole dirgli del modo in cui il loro forte attaccamento l’ha influenzata e del suo rapporto con l’amante lesbica Dorothy Tiffany Burlingham, anche lei psicoanalista.
Il regista Matthew Brown ha scritto la sceneggiatura insieme al drammaturgo Mark St. Germain, che ha adattato la sua stessa pièce teatrale. L’incontro tra Freud e Lewis in verità è immaginario, sebbene lo psicoanalista austriaco abbia effettivamente incontrato uno studioso senza nome quel giorno del 1939, appena tre settimane prima di suicidarsi all’età di 83 anni.
Matthew Goode e Anthony Hopkins nel film "Freud - L'ultima analisi" (Credits: Adler Entertainment)
Per gli amanti degli intrighi della mente umana, della psicologia e della psicoanalisi, qui ripercorriamo altri film che hanno trattato con gravità o con leggerezza la tematica.
Prendimi l'anima (2002) di Roberto Faenza
Film italiano di cui non si parla abbastanza, caldo e intelligente, Prendimi l’anima racconta il rapporto terapeutico e amoroso tra Gustav Jung, uno dei principali intellettuali del pensiero psicologico e psicoanalitico, e Sabina Spielrein, giovane russa affetta da un’isteria psicotica, che sarebbe poi diventata una delle prime donne a esercitare la psicoanalisi, figura umana e professionale a lungo ignorata e sottovalutata.
Faenza narra una storia vera affidandosi a un cast internazionale: lo scozzese Iain Glen è Jung, la britannica Emilia Fox dà una forza penetrante e appassionata alla sua Sabina.
A dangerous method (2011) di David Cronenberg
Vedi sopra, ma con meno passione e più disarmonia. E mettendoci in mezzo anche Sigmund Freud e Otto Gross, oppositore storico delle sue tesi. Un cast internazionale di alto livello è alla regia del maestro canadese che ama esplorare la complessità dell’essere umano: Viggo Mortensen, Keira Knightley, Michael Fassbender, Vincent Cassel.
Come Prendimi l’anima, anche A dangerous method esamina il rapporto tra Gustav Jung (Fassbender) e Sabina Spielrein (Knightley), nella Zurigo del 1904. Ispirandosi al lavoro di Freud (Mortensen), Jung tenta sulla paziente il trattamento sperimentale noto come psicanalisi o «terapia delle parole». Prende in cura anche un collega psichiatra, Gross (Cassel), che influenzerà la sua condotta nei confronti della giovane russa e lo porterà a violare i confini del legame medico-paziente.
Tra Emilia Fox e Keira Knightley, che cade spesso in esasperazioni espressive, è la prima a regalarci una Sabina Spielrein da amare.
Lou von Salomé (2016) di Cordula Kablitz-Post
Nietzsche l’adorava, Rilke l’amava, Freud l’ammirava. Lou von Salomé è stata scrittrice, poetessa, intellettuale, psicologa, archetipo di militante femminista. Fu una delle prime a praticare la psicoanalisi.
La regista tedesca, nel suo film di debutto, ha voluto rendere omaggio a una donna straordinaria, una delle più colte e produttive della sua epoca, che con la sua personalità combattiva e all’avanguardia ha fatto innamorare di sé i più grandi pensatori di inizio Novecento. Vista suo malgrado come femme fatale, lottò duramente per la sua libertà e l’indipendenza in un periodo in cui il concubinato era ancora punito con il carcere.
A 72 anni, mentre il Reich prende potere in Germania, un’anziana Lou, costretta a nascondere la propria origine ebraica, racconta le sue memorie a un ammiratore. La interpretano, a varie età, Nicole Heesters, Katharina Lorenz, Liv Lisa Fries, Helena Pieske.
Immagine del film "Lou von Salomé" (Credits: Wanted)
Cattiva (1991) di Carlo Lizzani
La storia di dolore e rinascita di Sabina Spielrein aveva già affascinato un altro regista italiano, l’impegnato narratore del Novecento Carlo Lizzani.
Il personaggio a lei ispirato, la giovane di origine italiana residente in Svizzera Emilia Schmidt, a cui viene diagnosticata la schizofrenia, è interpretata da Giuliana De Sio. Il professor Gustav che la prende in cura, utilizzando i metodi freudiani, è incarnato da Julian Sands.
Per questa performance De Sio ricevette un David di Donatello come migliore attrice protagonista.
Freud - Passioni segrete (1962) di John Huston
Immaginate il bello e tormentato Montgomery Clift in baffi, barba e sigaro come Sigmund Freud trentenne. Alla regia quel John Huston che è stato uno dei più grandi maestri degli anni d’oro di Hollywood.
Film biografico, Freud - Passioni segrete (titolo originale Freud: The secret passion) segue i progressi del padre della psicoanalisi mentre sviluppa la nozione che la nevrosi derivi dalla repressione sessuale. Curando pazienti con vari problemi, tra cui una donna ossessionata da sogni ricorrenti (Susannah York) e un uomo con un complesso di Edipo (David McCallum), con la collaborazione del professor Joseph Breuer (Larry Parks), Freud arriva a considerazioni che portano alla nascita dell'analisi moderna.
Un divano a Tunisi (2019) di Manèle Labidi
Non solo storie vere. Un divano a Tunisi è l’opera prima della regista franco-tunisina Manèle Labidi con protagonista la bellissima attrice iraniana Golshifteh Farahani. In una commedia aggraziata che si lascia guardare amabilmente, interpreta una giovane psicanalista dal carattere forte e indipendente, cresciuta a Parigi, che decide di tornare nella sua città d’origine, Tunisi. In Tunisia c’è stata la Primavera araba, ma forse aprire uno studio da psicanalista per una donna è ancora troppo presto.
Ecco così che la ragazza si scontrerà con un ambiente non proprio favorevole, mentre i suoi parenti cercheranno di scoraggiarla. Le cose non andranno proprio come aveva previsto, mentre lo studio inizierà a popolarsi di pazienti alquanto eccentrici.
Golshifteh Farahani sul set del film "Un divano a Tunisi" (Credits: Carole Bethuel Light)
Doppio amore (2017) di François Ozon
Giochi di specchi, nevrosi, il lato oscuro delle personalità. Il regista francese si lascia ispirare liberamente dal testo Lives of the twins di Joyce Carol Oates per un thriller psicologico (titolo originale L'amant double) che gioca con il mondo immaginario dei suoi protagonisti.
Marine Vacth interpreta Chloé, giovane donna tanto bella quanto fragile che inizia un percorso di psicoanalisi. Finisce per innamorarsi del suo analista, Paul (Jérémie Renier), un uomo dolce e premuroso. Ma quando i due vanno a vivere assieme, Chloé scopre che Paul nasconde un segreto riguardo la sua identità. Un uomo fisicamente identico a lui, ma più rude e minaccioso, si aggira per la città…
Tutta colpa di Freud (2014) di Paolo Genovese
Simpatica commedia italiana, Tutta colpa di Freud si muove tra dinamiche famigliari autentiche e vivaci. Marco Giallini è un papà single cinquantenne e psicoanalista che ha che fare con problematiche di cuore delle tre figlie: la più piccola (Laura Adriani) è innamorata di un uomo più grande (Alessandro Gassmann) che ha l’età del padre; un’altra (Vittoria Puccini) è una sognatrice che sceglie sempre storie difficili se non impossibili; la terza (Anna Foglietta) è lesbica e sempre pronta a partire in quarta in amore ma, all’ennesima delusione, decide di diventare etero.
Psicologia e psicoanalisi sono spolverate qua e là appena, in maniera leggera ma gradevole, per un film divertente che lascia il sorriso in viso.
Un'altra donna (1988) di Woody Allen
Woody Allen e la psicoanalisi hanno un rapporto consolidato. Il regista americano usa i suoi film come una sorta di seduta psicanalitica, riempiendoli delle sue fobie e nevrosi. Le sue sceneggiature sono colme di riferimenti e battute su psicoterapia e dintorni.
In Un’altra donna (Another woman), in più, la psicoanalisi si fa vero e proprio motore narrativo. La protagonista scrittrice (Gena Rowlands), infatti, per cercare pace per scrivere indisturbata, affitta un appartamento. Accanto, però, c’è lo studio di uno psicanalista e lei si ritrova ad ascoltare, senza volerlo, le sedute dei pazienti. Sono soprattutto le parole di una donna (Mia Farrow) a colpirla e a farle iniziare a rivalutare la sua vita.
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Tra chi ha orientamenti conservatori o invece progressisti, dicono avanzate ricerche, ci sono differenze reali (e misurabili) a livello cerebrale. E il voto a destra o a sinistra sarebbe influenzato da un nucleo di materia grigia che presiede alle emozioni...
Quando nel 1789 i membri dell’Assemblea nazionale francese si riunirono per scrivere la nuova Costituzione, quelli che ritenevano che il re dovesse avere facoltà di veto sedettero alla destra del presidente e quelli che erano contrari presero posto a sinistra. Più che un disaccordo su una singola questione, a dividere gli schieramenti era un’attitudine nei confronti del cambiamento: a destra sedevano i deputati fedeli alla tradizione e all’Ancien Régime e a sinistra quelli che sostenevano il progresso e la rivoluzione. Gli storici della politica hanno sottolineato il fatto che questo evento segnò l’inizio dell’uso dei termini «destra» e «sinistra» nel dibattito politico. Ma hanno dato meno peso a un fatto apparentemente ovvio: il cervello di quei deputati aveva reagito diversamente di fronte a una scelta dalle enormi conseguenze future. Questo aspetto era piuttosto materia di psicologi e scienziati che oggi, con la cosiddetta «neuropolitica» basata sulle tecniche di neuroimaging per visualizzare il cervello durante le decisioni, sono giunti a conclusioni sorprendenti.
L’ultima in ordine di tempo si deve a tre psicologi dell’Università di Amsterdam e dell’American College of Greece i quali hanno analizzato le scansioni cerebrali di un campione di oltre 900 persone focalizzandosi su un’area chiamata amigdala. Questa è coinvolta, tra le altre cose, nella percezione del rischio: è una sorta di sistema di allarme che segnala circostanze pericolose richiamando la nostra attenzione. Nello studio, il gruppo era diviso in due categorie: «destra» (conservatori) e «sinistra» (progressisti), caratterizzate dai ricercatori nei modi seguenti. Quelli del primo gruppo preferivano preservare piuttosto che cambiare, volevano per lo Stato un ruolo minore nella vita delle persone, favorivano una forte difesa nazionale (militare) e chiedevano una riduzione delle tasse, anche se destinate all’istruzione e alle esigenze di base della popolazione; nella definizione degli scienziati, quelli di destra preferirebbero che le persone si assumessero la responsabilità primaria dei propri bisogni.
All’opposto, gli appartenenti all’altra categoria erano più aperti alle nuove idee, accettavano un’azione più invasiva dello Stato nella vita dei cittadini con interventi nell’educazione, nella sanità e nei bisogni primari in nome del raggiungimento di pari opportunità. Con queste premesse, le analisi dei ricercatori mostravano che l’amigdala delle persone a «destra» era più grande e sviluppata - con una maggiore attività - di coloro che si proclamavano progressisti. Per l’esattezza, un votante di sinistra avrebbe un’amigdala di circa 10 mm cubi più piccola di uno di destra, e ciò si traduce in migliaia di neuroni e milioni di sinapsi in meno in quell’area.
Un’altra zona cerebrale che nello studio presentava dimensioni maggiori nei conservatori era il «giro occipitotemporale». Questa regione svolge un ruolo nel riconoscimento dei visi e nella comprensione delle emozioni altrui attraverso la divisione delle persone in tipologie, quelle che ispirano fiducia o che, al contrario, non ne infondono.
Antonio Cerasa, direttore dell’Istituto di bio-immagini e dei sistemi biologici complessi (Ibsbc-Cnr) commenta: «Oggi la neuro-politica fornisce marcatori comportamentali validi da permettere ai politici di avere solide basi scientifiche su cui fondare la propria campagna. Una delle implicazioni più importanti di queste ricerche è che l’essere umano ha una naturale propensione verso politiche conservatrici oppure progressiste; e tale tendenza può essere facilmente indotta nella popolazione grazie a semplice propaganda politica in cui i candidati puntano a sottolineare la presenza di tangibili pericoli, come l’immigrazione o la perdita del lavoro a causa di altri. È una strategia che serve a convincere chi ha tendenze conservatrici a votare per partiti che proteggano il nucleo familiare o sociale dalle minacce esterne».
Un altro dato assai interessante sottolineato dalla neuropolitica è il legame tra la tendenza verso politiche di conservatorismo e l’eccessiva sensibilità agli odori. È stato dimostrato in uno studio sulla rivista Royal Society Open Science del 2018 che chi ha una maggior tendenza a provare repulsioni verso alcuni odori mostra più preferenze verso politiche «a forte autorità». E ciò ha un nesso profondo con il conservatorismo, come è emerso da un’analisi su Current Opinion in Behavioral Sciences. «Il tipo psico-sociale con attitudini conservatrici non solo ha un’amigdala più grande e reattiva ma ha anche una maggiore tendenza al disgusto per gli odori che spesso si estende al rifiuto per idee, persone, deviazioni sociali» aggiunge Cerasa. Non ci si meravigli che ci dividiamo nelle due categorie di conservatori (destra) e progressisti (sinistra).
La teoria dell’evoluzione suggerisce che la stessa sopravvivenza dell’umanità sia dipesa da questa separazione. Si immagini un gruppo di persone sempre più numerosa. Per i suoi membri cresce la difficoltà di sapere di chi fidarsi. Catalogare le persone può aiutare a capire su chi si può contare e su chi no. Non solo. L’emergere di due modi diversi di pensare, conservatore e progressista, reca con sé vantaggi. Se prevalessero i conservatori la comunità rischierebbe la stagnazione e l’esaurimento delle risorse in mancanza di nuove opportunità. Se s’imponesse, senza contraddittorio, il gruppo progressista si mescolerebbe indefinitamente con altri individui correndo il rischio di malattie o conflitti con l’esterno. Così, l’alternarsi al potere dell’una o dell’altra categoria favorisce la sopravvivenza dell’intero gruppo. In fin dei conti la neuro-politica non solo ci fa comprendere più a fondo l’essenza delle categorie di destra e sinistra ma anche quanto la loro coesistenza nella nostra società sia utile. Per quanto riguarda poi le necessità che «annacquano» le due posizioni in infiniti compromessi - magari avvicinandole spericolatamente - be’ lì la scienza lascia il campo all’arte del possibile...
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Era l’imperativo del Futurismo, il movimento più vitale del Novecento tra pittura, letteratura e teatro. Un «incendio creativo», appiccato da Marinetti, che troppo presto diventò cultura accademica e appoggio politico. Ma cosa è stato il Futurismo che mise a soqquadro il mondo?
Il prossimo 2 dicembre nell’ottantesimo anniversario della scomparsa del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, si aprirà alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma una grande mostra, con tanto di convegno e catalogo sul Futurismo. Proviamo a rimetterne insieme i cocci. Per cominciare, audacia è la parola d’ordine del Manifesto futurista. L’entusiasmo per l’infinito, l’ebbrezza delle velocità che corre verso la luce e l’assoluto. Anche i verbi nel Futurismo vanno all’infinito, mentre le parolibere nuotano nel cielo e la punteggiatura va a farsi benedire. È guerra alla forza di gravità. A capitanarli è il loro galvanizzatore, FTM, erotico, giocoso, bellicoso.
Curioso il Futurismo, è il primo movimento d’arte totale proteso nell’universo, senza confini, fenomeno globale dall’America alla Russia, ma al tempo stesso è legato all’amor patrio e alla nazione. La famiglia è vista dai futuristi come una prigione da scardinare nel nome della liberazione del sesso; Dio deve liberarsi delle chiese, mettersi al passo della velocità futurista e accettare che alla natura da lui creata si aggiunga la creazione della tecnica, opera del suo sostituto procreatore, l’uomo. Ma la patria, no, la patria non si tocca per i futuristi, è il perno del loro credo, nonostante la portata globale del movimento e degli ambiti che persegue.
Il Futurismo fiorisce tra Milano e Parigi, che lo amplifica a evento mondiale, con sosta artistico-letteraria a Firenze, ma poi dilaga a Mosca e New York: è il primo movimento davvero globale. Il futurismo non si limita all’arte, si dilata all’architettura, alla letteratura, alla cucina, al costume, al teatro, al cinema, alla radio, alla musica, alla tecnologia, alla guerra, alla politica, insomma alla vita e alla morte. Uno «stil novo» tecnologico fondato sul mito della macchina, delle officine e della velocità.
Una forma di delirio dionisiaco, non più indotto dal vino e da eros ma dall’ebbrezza della velocità, congiunta al mito della macchina che mette le ali alla condizione umana. Il Futurismo diventa il canto della società industriale, l’arte applicata all’epoca del capitalismo. La velocità per Marinetti è la nuova religione della modernità. La macchina unita alla velocità delinea anche una nuova grafica e una nuova estetica, nuovi costumi e più slanciati design; anche i corpi tendono quasi a fendere l’aria, a farsi aerodinamici, appuntiti.
La magrezza diventa sinonimo di bellezza, la grassezza evoca la lentezza, la viltà borghese, il panciafichismo goffo. La velocità delle macchine, a cominciare dalle automobili, è segno di esuberanza e di vitalità, insomma di felicità. Il culto della velocità si unì nel Futurismo al mito della giovinezza di cui fu impregnato il Novecento. La gioventù futurista diventa col fascismo «giovinezza primavera di bellezza». La gioventù futurista è una gioventù bruciante; mezzo secolo dopo la parabola giovanilista declinerà nella gioventù bruciata, per finire poi nel Sessantotto. Attivismo assoluto, agito ergo sum. C’è la modernità alla massima potenza e c’è il germe del fascismo come attivismo e volontà di potenza.
Il culto della velocità si fece poi maniera, così come il futurismo ebbe il suo rococò ed entrò perfino nelle detestate accademie. Al punto che si può azzardare un’archeologia della velocità, qualcosa che evoca la Vittoria di Samotracia, esaltata da Marinetti (e superata dall’automobile). Anche la velocità finì in museo, imbalsamata come una tentazione ardita del passato. Restò la velocità dei rapporti telematici, che si fece anzi simultaneità; ma si perse il suo mito, applicato alla vita e alla macchina.
L’ideologia di Marinetti riverbera nei nomi dati alle sue tre figlie: Ala, Luce e Vittoria. La parola chiave per intendere l’epoca e la punta acuminata del Futurismo è fiamma, cioè fuoco, ardere/ardire. «Allegri incendiari dalle dita carbonizzate» li definisce il Manifesto futurista, e vari poeti futuristi, perfino Palazzeschi, dedicano versi al fuoco; dietro quel fiammeggiante universo c’è il Fuoco, dall’omonima opera di Gabriele D’Annunzio allo scoccare del Novecento e tutto il richiamo di fiamme, faville, scintille, fiaccole e arditi che incendia il primo ventennio del secolo scorso.
Prima fenomeno artistico, poi interventismo bellicoso, il Futurismo si fa movimento politico, alleato al nascente fascismo. Quando il futurismo assunse connotati politico-rivoluzionari, si presentò come una promessa integrale di svecchiamento; via il senato, via il papato, via la monarchia, via i parassiti, via il matrimonio. Democrazia economica, parità dei diritti, espropri. Al centro del Novecento come del futurismo è l’uomo nuovo, il mondo nuovo, l’ordine nuovo che per i futuristi è in realtà un disordine nuovo, ma creativo. Marinetti è definito dal «passatista» Prezzolini un «formidabile disorganizzatore». Fascista e sfascista.
Del Futurismo restano molti annunci di rivoluzione senza seguito: come i bozzetti di architettura futurista di Sant’Elia, l’indigeribile ma stravagante cucina futurista, l’assurda e non indossabile moda futurista, la rumorosa inascoltata musica futurista, il teatro, il cinema futurista e via dicendo. Resta invece, e smagliante, la pittura futurista, la scultura, un po’ meno la poesia. Un’avanguardia inconclusa, che perciò resta sempre giovane promessa, come Boccioni e Sant’Elia, che morirono giovani. Del Futurismo restarono molte promesse, tante opere, briosi reperti di una paradossale archeologia.
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Nonostante i tagli agli enti statali, ce n’è uno che continua a veder crescere i propri fondi. È il Consiglio superiore della magistratura, che anche nel 2024 ha ottenuto da parte del ministero della Giustizia oltre 34 milioni di euro. Risorse ingentissime se si confrontano con quelle stanziate in Francia e Belgio per organi che hanno le stesse funzioni.
Tagli. Risparmi. Contenimenti della spesa. Tempi decisamente magri, per i bilanci pubblici. Eppure, in Italia, c’è un ente dello Stato che riceve tanti soldi da non sapere (quasi) come impiegarli. L’anomala fortuna tocca al Consiglio superiore della magistratura, l’organo costituzionale che governa vita e carriere degli oltre novemila magistrati italiani. Dal 2020, all’inizio di ogni anno, il Csm ottiene dal ministero della Giustizia la bellezza di 32,5 milioni di euro. La dotazione, confermata anche per il 2024, in passato era perfino superiore: nel 2016 andava oltre i 34,4 milioni e superava i 36 nel 2014. Risultato? Da tempo immemorabile, alla fine di ogni esercizio, il Csm riesce a mettere da parte avanzi di gestione variabili in genere tra i 7 e i 10 milioni, che poi sposta all’attivo nella contabilità dell’anno successivo.
Lo stanziamento a favore del Csm, a quanto pare, non verrà limato nemmeno nel triennio 2024-26, e questo malgrado la scarsità di risorse abbia imposto tagli notevoli al bilancio complessivo del ministero della Giustizia, destinato ad arretrare dagli 11.268 milioni di euro di quest’anno a 10.284 nel 2026. Eppure, nel 2020 il Csm ha registrato un avanzo di gestione di quasi 16 milioni, più altri 16 nel 2021, e poi ancora 13 nel 2022 e quasi 9 nel 2023. Nel bilancio preventivo di quest’anno, si prevedono 10 milioni di avanzo (il totale complessivo dell’attivo tocca così i 42,3 milioni di euro). E non si pensi che mancate spese e giacenze di cassa siano inevitabilmente indice di efficienza o di virtù gestionali.
Per capirlo, basta un veloce confronto con i due soli organi di autocontrollo della magistratura che in Europa, alla pari del nostro Csm, devono occuparsi sia di giudici sia di pubblici ministeri. Rispetto al Csm di Roma, il Conseil supérieur de la magistrature della Francia e il Conseil supérieur de la justice del Belgio hanno bilanci inferiori, rispettivamente, di dieci e di sette volte. I Csm di Parigi e Bruxelles, però, hanno appena 21 e 44 dipendenti, mentre quello italiano ha un organico tecnico di ben 243 addetti. A questi vanno sommati i 30 magistrati che lavorano come segretari-collaboratori dei 30 consiglieri eletti (dieci membri «laici» eletti dal Parlamento e 20 magistrati). Risultato? Dal 2020 al 2023 la spesa principale, quella relativa alla voce «spese per stipendi e altri assegni al personale in servizio», è cresciuta da 22,6 a 26,6 milioni di euro. E nel bilancio preventivo 2024 è previsto un nuovo aumento a quasi 27,9 milioni. A comporre la cifra contribuiscono alcune voci «secondarie», come i 900 mila euro di straordinari, i 300 mila euro in buoni pasto, il milione e 230 mila euro di indennità per i magistrati addetti alla segreteria, e un altro milione e 250 mila euro in previdenza complementare.
Da soli, gli emolumenti dei 30 consiglieri elettivi del Csm, nel bilancio 2023, pesavano per 7 milioni di euro. La cifra comprende l’intera retribuzione dei dieci consiglieri «laici», cioè quelli eletti dal Parlamento, ma soltanto una quota dei compensi per gli altri 20 membri «togati», i magistrati eletti dalle correnti, che per il resto sono stipendiati dal ministero della Giustizia. Nel 2024 i 7 milioni degli emolumenti dovrebbero calare a 5,9 grazie alla riforma Cartabia, che ha imposto un tetto di 240 mila euro lordi a testa. Nel 2023, inoltre, è stata finalmente fatta piazza pulita di un’intricata giungla d’indennità: prima c’erano gettoni per ogni seduta del plenum e delle varie commissioni, nonché gettoni per «incarichi speciali» e per le missioni all’estero, perfino per gli incontri con delegazioni straniere. Per non parlare dei rimborsi spese pagati ai consiglieri non residenti a Roma per alloggio, vitto e sosta dell’auto: un anno fa, a questi rimborsi, il Csm ha posto un tetto di quattromila euro. Ma intanto il bilancio 2024 indica una spesa per servizi di biglietteria (trasporti), albergo e catering che resta identico a quello del 2023: 770 mila euro.
C’è chi è convinto che tanta anomala abbondanza di mezzi non sia fine a se stessa. Giuseppe Di Federico, il grande giurista bolognese che da sempre è tra i massimi critici dello strapotere della magistratura e dell’esondazione dei compiti del Csm (di cui è stato membro laico tra il 2002 e il 2006), è convinto che «le dotazioni di personale e di risorse finanziarie del Csm, nettamente superiori alle sue esigenze» siano state e siano «funzionali alla progressiva espansione dei suoi compiti». Di Federico motiva questa tesi sottolineando anche alcune incongruenze nella fin troppo generosa dotazione del Csm: «Nel 2012», ricorda, «il compito di effettuare la formazione dei magistrati venne affidato alla Scuola superiore della magistratura». Nonostante quel costoso compito fosse venuto meno, però, il giurista nota che «la dotazione finanziaria annuale del Csm non fu diminuita: rimase la stessa, cioè circa 35 milioni di euro, anche per gli anni successivi». Di Federico, insomma, è certo che sia stato proprio grazie all’eccesso di risorse se il Csm ha potuto creare «nuovi organismi e servizi, costosi, che gli hanno consentito di ampliare la governance dell’apparato giudiziario e di consolidare il ruolo di garante della funzionalità degli uffici giudiziari, assorbendo parte dei poteri che la Costituzione assegna al ministro, come quelli riguardanti l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia».
Quali che siano i motivi, resta il fatto che l’eccesso di dotazione non ha alcun senso. L’unico atto ragionevole, da questo punto di vista, risale al settembre 2017, all’epoca del vicepresidente Giovanni Legnini, quando il plenum del Csm restituì al bilancio dello Stato 20 milioni risparmiati nel corso degli anni, «con il fine di destinarli al sostegno degli uffici giudiziari in difficoltà» dopo il terremoto che aveva appena colpito Abruzzo e Marche. È rimasto un caso unico.
Un’irridente, vecchia battuta, in voga soprattutto tra gli avvocati, sostiene che la sigla Csm non stia per Consiglio superiore della magistratura, bensì per Cieco, sordo e muto: la battuta, ovviamente, critica la scarsissima attività disciplinare esercitata dal Csm nei confronti di pubblici ministeri e giudici. A ben vedere, però, la sigla potrebbe avere anche un altro significato: Costa sempre molto. Sì, decisamente troppo.
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Non ne posso più dell’allarmismo ambientalista. Non passa giorno senza che qualcuno si svegli e annunci catastrofi e disastri globali. L’ultimo è di pochi giorni fa: la Sicilia è a rischio desertificazione, dice un professore dell’Università di Catania. Gli invasi sono sotto il 10 per cento della loro capienza massima e le piogge dei giorni scorsi sono anomale ed eccezionali, concentrate solo in alcune zone della regione e a volte la quantità di acqua che si riversa in poche ore è quella di sei mesi. Conclusione: si rischiano danni alle colture agrumicole e olivicole, ma anche alle attività zootecniche legate ai pascoli.
La scarsità di piogge in alcune aree e l’eccesso in altre per effetto del cambiamento climatico, porta la Sicilia verso scenari di aridità, è la sentenza. «A settembre» scrive il Corriere della Sera «alcuni ricercatori dell’Università di Catania hanno registrato la moria di numerose querce, alberi dominanti della macchia mediterranea. E gli agricoltori in pieno autunno sono stati costretti a irrigare gli agrumi».
Non so quante piante siano morte a settembre, tuttavia so quali sono l’estensione boschiva della Sicilia e il territorio coltivato, perché l’Istat e la Regione fanno periodiche rilevazioni. Cominciamo dall’inventario forestale. Una relazione del maggio 2020 mette a confronto i dati del patrimonio boschivo al momento dell’istituzione dell’autonomia dell’isola (1947) con le più recenti rilevazioni. In totale, si passa da 102 mila ettari, pari al 4 per cento della superficie totale, a 221 mila ettari. Mica male per una regione che rischia la desertificazione. Nel dettaglio il rapporto ci spiega che «in tempi recenti, un significativo incremento del bosco è stato determinato dalla ricolonizzazione di aree boschive abbandonate, soprattutto dei frutteti». Ma soprattutto, ci dice che i rimboschimenti rappresentano da soli il 36 per cento del totale. Dunque, avere un esercito di forestali in Sicilia (pare siano 16 mila, poco meno di quelli impiegati in Canada) non è stato inutile. «Prescindendo dai rimboschimenti» ci illustra la relazione del 2020, «le specie più diffuse sul territorio regionale sono quelle di genere Quercus: in primo luogo le querce caducifoglie submontane, mesofile ma anche termomesofile, a seguire quelle sempreverdi mediterranee». Può darsi che, come ci informa il Corriere, si registri una moria di numerose querce, ma a meno che non siano morte nell’ultimo anno, al momento non pare esserci traccia di desertificazione. Anzi.
E veniamo al secondo allarme, per cui sarebbero a repentaglio le produzioni agricole e zootecniche. È appena uscito un dettagliato rapporto sul settore in Sicilia a cura del Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. Sono un centinaio di pagine, ma il succo è che le coltivazioni nell’isola sono in aumento. La fotografia dell’andamento del sistema agroindustriale regionale, infatti, mostra un settore in crescita del 4 per cento rispetto alla media del periodo 2013-2022. Nella sintesi di pagina 26 si legge: «Il valore della produzione a prezzi base del settore agricoltura, silvicoltura e pesca in Sicilia nel 2023 è aumentato di quasi 7 punti percentuali rispetto al 2021. Tra le coltivazioni agricole, nel corso del 2023, cresce per il secondo anno consecutivo il valore della produzione degli agrumi (23,8 per cento rispetto al 2022 e 26,5 tra il 2021 e 2022) e delle coltivazioni legnose (+12 per cento). La produzione olivicola aumenta del 19 per cento, mentre tra i prodotti della zootecnia la crescita maggiore si registra per uova (+15,3 per cento), latte (+9,7) e miele (+9)».
Desertificazione? A rischio le colture agrumicole, olivicole e le attività zootecniche? A leggere i dati non si direbbe. Certo, se poi si vuol fare il discorso degli invasi che risalgono al secolo scorso, delle condutture che perdono acqua da tutte le parti e condannano spesso i siciliani ai rubinetti a secco, si può essere d’accordo, ma l’idea che il cambiamento climatico stia trasformando la Sicilia nel Sahara non sembra proprio corrispondere alla realtà. Semmai pare rispondere all’esigenza di trovare nel surriscaldamento globale la colpa di ogni cosa, oltre che uno strumento straordinario per ottenere visibilità e giustificare tutto: pure l’aumento del prezzo dei servizi e la necessità di sostituire macchine e caldaie con altre più rispettose dell’ambiente. E, guarda caso, anche più costose.
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Sono sempre più numerosi i sanitari «a tempo». Ma a volte, tragicamente, si scopre che non sanno curare chi si affida a loro. Si può assumere un medico come si assume un facchino? Affittandolo da una cooperativa? E pagandolo a gettone? Con tutto il rispetto dei facchini: c'è una certa differenza tra trasportare un pacco e curare chi sta male. Eppure in Italia, nei pronto soccorso, ma anche nei reparti più delicati come ginecologia, pediatria, anestesia, sono migliaia i medici ingaggiati così, proprio come si assumono i facchini. Fornitura esterna, prestazione occasionale e gettone. L'unica differenza è che per i medici delle cooperative, al contrario che per i facchini, il gettone è d'oro.
E anche questa, però, è una bella assurdità nella già assurda sanità italiana. Ma vi pare? Non ci sono i soldi per assumere medici, però ci sono soldi per strapagare (fino a 3-4 volte di più) i medici in servizio presso cooperative esterne. E questi dottori, oltre a guadagnare il triplo o il quadruplo dei loro colleghi interni, hanno anche il vantaggio di entrare negli ospedali senza alcun controllo, senza alcuna selezione e troppo spesso anche senza alcuna qualifica. Risultato: la sanità italiana spende di più per avere un servizio peggiore. Quindi si impoverisce. Mentre i medici delle coop, al contrario, si arricchiscono. E le coop pure. Il giro d'affari delle coop dei medici a gettone, infatti, ha raggiunto 1,7 miliardi di euro in quattro anni. E pazienza se, nel frattempo, qualcuno ne muore.
Eleonora aveva 14 anni. Qualche giorno fa, mentre andava a scuola a Dolo, in provincia di Venezia, è stata investita da un'auto. È arrivata l'ambulanza. Ma la dottoressa non è scesa. «Fate voi», ha detto agli infermieri. La ragazzina è morta. La dottoressa che non è scesa dall'ambulanza si chiama Anna Maria Lamanna: è originaria di Castel Volturno (Caserta) e lavora per una di queste cooperative a gettone. Non è specializzata in emergenza. È un medico di base: quello del medico di urgenza, sull'ambulanza, è il suo secondo lavoro. Lo fa per arrotondare. In servizio presso una coop. Affittata come un facchino. Tutto regolare, si capisce. La legge lo consente. Peccato solo per il risultato finale: lei guadagna, la cooperativa pure, la ragazzina invece perde. La vita.
La cooperativa per cui lavora la dottoressa che non scende dall'ambulanza si chiama Cmp Global Medical Division.
Ha sede a Granarolo, vicino a Bologna. Il presidente è Manuel Cristian Perez, padre peruviano e madre polacca, già candidato nel suo Comune per il centrodestra. Il suo nome era uscito anche tra i possibili acquirenti della società di basket Fortitudo. La cooperativa Cmp fornisce dottori del pronto soccorso, anestesisti, vaccinatori, pediatri. Ne gestisce oltre mille. La chiamano «la fabbrica dei camici bianchi». Nell'ultimo anno ha fatturato 16 milioni di euro (16.602.384 euro per l'esattezza). Un bel guadagno. Non per Eleonora, purtroppo.
Quello della ragazzina di Dolo, però non è un caso isolato. A inizio ottobre è successo a Lavagna, in Liguria. Una bimba di un anno viene portata all'ospedale: sta male, vomita, ha dolori fortissimi. La dottoressa in servizio non è interna all'ospedale: è in affitto dalla cooperativa Pediacoop. Visita la bambina. «Non è niente». La dimette. E la bambina muore. Ora la dottoressa è indagata. Un anno fa era successo a Novi Ligure: a essere dimessa una 76enne. Aveva i sintomi dell'enfisema, ma la dottoressa evidentemente non li ha riconosciuti. Anche lei era in affitto, prestata a gettone dalla cooperativa Amaltea. Trattasi di professionista calabrese, specializzata in medicina estetica. Alcuni dei responsabili di queste cooperative sono stati arrestati. Come Artemio Serafini, della coop La Fenice (era già finito nei guai con le coop per migranti, poi ha deciso di buttarsi sull'emergenza sanità). O come Mauro Gianotti della coop Altavista beccato a mandare nell'ospedale di Latina un anestesista che non era tale. Svariate Corti dei conti hanno messo in evidenza l'inefficacia economica dei medici a gettone. L'inefficacia sanitaria è sotto gli occhi di tutti. Chi vorrebbe trovare in sala operatoria un anestesista che non è anestesista?
I Nas dei carabinieri, qualche tempo, fa hanno svolto un'indagine sui medici mandati dalle coop in corsia: sono saltate fuori centinaia di violazioni della legge e di professionisti privi di qualifica. L' Anac, l'autorità anticorruzione, ha denunciato il fenomeno a febbraio: «Bisogna fermarlo». Già un anno prima il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva garantito: «Andiamo verso lo stop». Invece no, nessuno stop. Per 1,7 miliardi di buoni motivi non c'è stato nessuno stop. A parte quello della vita di Eleonora. E ora la domanda è: chi sarà il prossimo?
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Politica
Pichetto Fratin: "La nuova Commissione sterzi sulle follie della transizione energetica"
24 November 2024
L'intervento a Matera con il direttore Maurizio Belpietro e il Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica durante la prima tappa di «Panorama on the road».
Il problema dell’Europa è l’Europa, non sono i dazi, non è Trump ma la sua capacità di liberarsi dai pregiudizi dell’ideologia green, di essere autonoma sul fronte dell’energia e delle materie prime. E le risorse e le potenzialità ci sono. Automotive, energia, lavoro, agroindustria, la presidenza Trump negli Stati Uniti e la sua influenza sull’Italia. Grandi temi guardati dalla lente d’ingrandimento di una città del Sud quale Matera che «Panorama on the road», il format itinerante ideato dallo storico settimanale Panorama e fortemente voluto dal direttore, Maurizio Belpietro, ha voluto prendere a modello della capacità di rinascita. «Una Regione la Basilicata, poco conosciuta prima di Matera capitale della Cultura nel 2019 e che quest’anno ha registrato un aumento del turismo del 60%» come ha ricordato il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, primo intervistato da Belpietro nell’evento presso l’Alvino Relais. E proprio per celebrare la capacità imprenditoriale del Mezzogiorno, nella prima tappa a Matera, Belpietro ha voluto ringraziare l’imprenditore Nicola Benedetto che «otto anni fa ha avuto il coraggio di partecipare all’iniziativa editoriale de La Verità da cui è nato un gruppo importante e nel quale Panorama è entrato sei anni fa. Era un’impresa difficile complicata in una situazione in cui nessuno avrebbe scommesso sull’editoria ma Nicola disse che il suo impegno non sarebbe stato di trovare un veicolo ma di partecipare a titolo personale». Il convegno ha visto gli interventi dei ministri del Made in Italy, Adolfo Urso, dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, del presidente della Coldiretti Ettore Prandini, dell’assessore alle politiche agricole della Basilicata Carmine Cicala, del presidente della Confindustria Basilicata, Francesco Somma, di Nicola Lanzetta (head of Italy Enel) e di Paolo Gencarelli, responsabile immobiliare Poste Italiane.
Ma la Basilicata non è solo turismo è anche industria e Stellantis ha un ruolo centrale. Lo stabilimento di Termoli, recentemente travolto dalla crisi del gruppo automotive vive ormai di cassa integrazione. Il ministro Urso intervistato da Belpietro, ha tracciato le problematiche dell’industria dell’auto in Europa e in Italia, strettamente connesse con le scadenze capestro del Green Deal. Urso ha prospettato il rischio che le istituzioni di Bruxelles come furono costrette a fare marcia indietro dalle mobilitazioni degli agricoltori potrebbero «essere costrette a un cambio di marcia degli operai che protestano sotto i palazzi». C’è quindi un tema Europa ovvero le sue politiche green scollegate dalla valutazione degli effetti e sbaglia chi parla di emergenza dazi dagli Usa. Urso è stato chiaro: «Il problema dell’Europa è l’Europa. Non possiamo decidere per gli elettori americani, non possiamo decidere per il governo cinese ma possiamo decidere per un’Europa che ha realizzato un green deal a misura di Cina. Non vorrei che l’industria net zero generasse zero industria invece che un’Europa competitiva».
Il ministro si è detto convinto che ci siano spazi per un confronto con Washington e che nessuno vuole creare una guerra commerciale. Peraltro «anche Biden - ricorda Urso - aveva messo in campo i dazi e con il Buy American aveva fatto da aspirapolvere dei grandi investimenti internazionali. La soluzione è reagire con una politica energetica e commerciale europea che investa nelle imprese e nel mercato interno come stanno facendo gli Usa». E questo vale a cominciare dall’auto. Urso ricorda di aver lanciato l’allarme dell’automotive al collasso in epoca non sospetta e di aver posto il problema a Bruxelles con insistenza». Quanto a Stellantis, «abbiamo varato incentivi per 1 miliardo ma non solo la produzione non è aumentata ma è stata tagliata». Urso ha sollecitato un «piano europeo di risorse per avere la garanzia che nel 2035 le batterie siano prodotte in Europa con materie critiche sotto il nostro controllo altrimenti ci consegniamo alla Cina».
Oltre all’automotive c’è il tema dell’industria siderurgica. Urso ha sottolineato la rinascita del polo siderurgico di Piombino e l’avvio delle procedure per l’assegnazione a nuovi soggetti di Taranto «oltre alla distribuzione dei ristori alle imprese dell’indotto che li aspettavano da dieci anni». L’industria si porta dietro un problema energia e la strada, dice Urso, non può che essere quella del nucleare di 3 generazione, degli small reactor. Sulla stessa linea il ministro Gilberto Pichetto Fratin che in collegamento da Baku, al termine del Cop29, ha rimarcato «l’assurdità delle scelte europee sulla transizione energetica» e si augura che nella nuova commissione prevalgano posizione più equilibrate.
Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha confermato la straordinaria importanza che avrà il ruolo del vicepresidente della Commissione U, Raffaele Fitto per il settore agricolo. E a proposito di posizione ideologizzate e velleitarie, ha indicato l’intenzione della Danimarca di tassare la flatulenza dei bovini. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha insistito invece sulla reciprocità delle regole sui prodotti dell’agroalimentare, severe per quelli italiani e lasche per quelle di alcuni beni importati.
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