Panorama
Apple TV+ ha condiviso con i fan il teaser della nuova comedy The Studio, con protagonista Seth Rogen, che è anche sceneggiatore, regista e produttore esecutivo insieme al candidato all'Emmy Evan Goldberg. La nuova serie farà il suo debutto il 26 marzo con i primi due episodi (sono 10 in totale), seguiti da un episodio ogni mercoledì fino al 21 maggio.
Trama
Seth Rogen interpreta Matt Remick, il nuovo capo dei Continental Studios in crisi. In un settore in cui i film faticano a rimanere vivi, Matt e il suo team di dirigenti in lotta combattono le proprie insicurezze, mentre si scontrano con artisti narcisisti e con i vili proprietari dell'azienda nella ricerca sempre più effimera di realizzare grandi film. Indossando il vestito buono che maschera un infinito senso di panico, ogni festa, set visit, decisione sul casting, riunione marketing e premiazioni offre loro l'opportunità di un successo scintillante o di una catastrofe che pone fine alla loro carriera. Da persona che mangia, dorme e respira cinema, Matt ha inseguito questo lavoro tutta la vita e ora potrebbe distruggerlo.
Cast
“The Studio” riunisce un cast stellare che comprende anche la vincitrice di Emmy, SAG e Golden Globe Catherine O'Hara, la candidata all'Emmy Kathryn Hahn, Ike Barinholtz e Chase Sui Wonders. Il candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award Bryan Cranston apparirà invece come guest star.
Prodotta da Lionsgate Television, “The Studio” è creata dai vincitori di più Emmy Peter Huyck e Alex Gregory insieme a Rogen, Goldberg e Frida Perez. James Weaver, Alex McAtee e Josh Fagen della Point Grey Pictures sono anche produttori esecutivi insieme a Rogen e Goldberg.
Il nuovo progetto segue l'ultima collaborazione tra Apple TV+ e Rogen, la comedy Apple Original “Platonic”, recentemente rinnovata, in cui Rogen è protagonista e produttore esecutivo insieme a Rose Byrne.
TUTTE LE NEWS DI TELEVISIONE
I giovani che disertano la messa. E non solo loro. Ma c’è una ragione: l’istituzione che deve portare il Vangelo si pone altre priorità.
«Per noi l’oratorio era come i social per i ragazzi di adesso. Non ne potevi fare a meno». Mio fratello è particolarmente soddisfatto del suo ardito paragone. Siamo a casa mia, durante le feste di Natale. Una tavolata in cui si sta tutti in famiglia e si ha tempo per le chiacchiere che durante l’anno vengono travolte dagli impegni quotidiani. Siamo tutti reduci dalle celebrazioni natalizie: le chiese abbastanza piene, certo, ma tante persone che poi, durante l’anno, a messa non si vedono più. E, in ogni caso, pochi giovani. Pochissimi. Sempre di meno. Di qui la discussione. E il paragone di mio fratello. Per noi infatti l’oratorio era una scelta inevitabile, il luogo d’incontro, il punto di riferimento. Lì avevamo gli amici. Lì abbiamo conosciuto le nostre future mogli. Lì siamo cresciuti giocando a pallone e prendendoci le prime responsabilità. E da lì siamo entrati in chiesa per non uscirne più.
Ma i ragazzi di oggi? Chi li porta in chiesa? Tik Tok? Instagram? WhatsApp? Ci sono sacerdoti che provano, anche con un certo successo, a usare i social per comunicare con i giovani. Ballano, cantano, scherzano. Ma la concorrenza è troppo forte. L’oratorio, per noi, era l’unico vero influencer. Oggi, invece, basta scorrere sullo schermo e di influencer se ne trovano a bizzeffe. Infatti i dati dell’Istat sono impietosi: tra il 2003 e il 2023 la proporzione di chi frequenta regolarmente la chiesa si è ridotta dal 35,4 al 17,9 per cento. E il crollo della partecipazione riguarda soprattutto i giovani: fra i 14-34enni infatti solo il 7 per cento frequenta regolarmente la chiesa mentre oltre il 50 per cento non la frequenta mai. Non è difficile da immaginare: chi passa le sue giornate su Tik Tok anziché all’oratorio è difficile che trovi la strada che porta alla chiesa. Al massimo trova quella che porta a Onlyfans.
E così ci troviamo di fronte a paradossi evidenti, almeno dal punto di vista mediatico. Roma si riempie di pellegrini, ma intanto le chiese si svuotano. L’anno del Giubileo attira le folle, ma intanto a messa non ci va più nessuno. Com’è possibile? Roberto Volpi sulla «Lettura» del Corriere della Sera, commentando il crollo delle presenze giovanili davanti all’altare, si pone una «domanda da un milione di euro»: «Che ne è delle sterminate folle giovanili che agitano bandiere, cantano e suonano alle Giornate della Gioventù? Dove vanno a finire, dopo? Tutte disperse a fine giornata?». L’impressione è che anche il cristianesimo sia diventato un po’ un fenomeno mediatico: sotto la copertina, nulla. O molto poco. Passato il grande evento, l’annuncio, il momento clou con il Papa star, non resta molto. Una fede più da spendere nei titoli di telegiornale che nella quotidianità.
Eppure che la Chiesa abbia ancora una grande forza di aggregazione sul territorio lo testimoniano mille storie di tutti i giorni. Una me l’ha segnalata il nume tutelare del Grillo: arriva da Molinelli, piccola frazione in provincia di Arezzo. Dopo il decesso del parroco le famiglie (una trentina di tutto) temevano che la piccola chiesetta locale, costruita dai loro padri, venisse dismessa. E così si sono messi al lavoro. Chi ha fatto il falegname, chi l’elettricista, chi ha organizzato una colletta per pagare le bollette di luce e gas, chi è andato a rompere le scatole al vescovo per avere un prete, almeno una volta al mese. E così la chiesetta di campagna è stata salvata.
Quello che arriva da Molinelli è un segnale in controtendenza di fronte ai sempre più numerosi edifici di culto abbandonati. E certo è anche un piccolo segnale di speranza per chi, come noi, non si arrende alla scristianizzazione del Paese. Ma ci si può accontentare? Vi faccio una confidenza. Io non penso che mio fratello abbia ragione. L’ho detto durante quel pranzo di famiglia. Pensare che la chiesa possa tornare centrale oggi con gli oratori o con le chiesette di Molinelli non è solo irrealistico, ma anche sbagliato. Piuttosto la Chiesa dovrebbe recuperare quello che ha perso in questi anni, quando si è accomodata, pensando che bastasse trasformarsi in un’opera di assistenza sociale per attirare gente. Non è così.
La Chiesa esiste per annunciare il Vangelo, cioè per dare una risposta alle domande che tutti gli uomini (tutti, nessuno escluso) si fanno. E il problema della Chiesa oggi non sono gli oratori vuoti o le chiesette di campagna che chiudono: è l’incapacità di testimoniare la fede nell’aldilà. È il Papa che non si fa il segno della croce davanti a Giorgio Napolitano morto. Sono le encicliche che parlano di smaltimento di rifiuti e non di Gesù Cristo. Sono Luca Casarini che diventa profeta e le ong che diventano la nuova religione. Ecco qual è il problema. Nei mesi scorsi, facendo una inchiesta sugli sciamani in Italia, sono rimasto colpito da quanti giovani si affidano a santoni esoterici per cercare la risposta alle loro inevitabili inquietudini. Perché quella risposta non la cercano più nella Chiesa? Solo perché l’oratorio è chiuso? Solo perché c’è TikTok? O forse perché, in chiesa, manca qualcosa di più essenziale? n
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L’accordo siglato tra Bruxelles e i Paesi latinoamericani danneggerà la nostra agricoltura, che già sconta posizioni di inferiorità in una competizione globale spesso scorretta. Eppure Ursula von der Leyen parla di «occasione storica» per l’Europa. Una mossa che cerca di mitigare gli errori su auto e Green deal. Ma non migliorerà la vita dei consumatori del Vecchio continente.
Hanno messo in moto ancora una volta i trattori per marciare di nuovo su Bruxelles. Arriveranno da Francia, Germania, Spagna, Italia: sono gli agricoltori contro il Mercosur che Ursula von der Leyen ha raccontato come uno straordinario successo politico-commerciale. In Europa invece sta diventando, anche per molti governi, un imbarazzante affare di Stato. L’accordo dopo «oltre venti anni di trattative» sostiene la baronessa «costruisce un’area di libero scambio che interessa oltre 720 milioni di consumatori, per le aziende europee è un’occasione storica». Ciò che ha indotto la Von der Leyen ad accelerare i tempi dell’intesa è riconducibile a due fattori: la crisi dell’auto, peraltro conseguenza di scelte draconiane operate dalla Commissione stessa sul blocco ai motori endotermici, e il timore dei dazi da parte del nuovo presidente americano Donald Trump. Perciò l’Unione va alla ricerca di nuovi mercati.
Il Mercosur provoca a Strasburgo anche degli strappi tra i partiti: se i Popolari lo difendono, i Verdi lo bocciano, i socialisti vanno in ordine sparso e la «maggioranza Ursula» vacilla. Un esempio? All’interno del Partito democratico Brando Benifei, capogruppo in Europa del partito di Elly Schlein, parla di «accordo storico», ma l’ex sindaco di Firenze Dario Nardella, che a Strasburgo è membro della commissione Agricoltura, lo boccia, mentre il senatore democratico Fabio Porta, per il Pd segue gli affari sudamericani, sostiene che «è un accordo “win-win”: l’Italia ne sia entusiasta». Peccato che - a parere degli agricoltori, ma non solo loro - apra nel Vecchio continente alcune contraddizioni difficilmente spiegabili. La prima è che la presidente della Commissione parla appunto di «un mercato di 720 milioni di consumatori», ma il potere di acquisto in questa platea non è omogeneo: sarà di più ciò che ci venderanno i latinoamericani di quello che compreranno.
Infatti nei Paesi fondatori del Mercosur - Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay -, il reddito medio annuo oscilla dai 10 mila dollari dei brasiliani, in uno Stato che conta 216 milioni di abitanti, ai 22.500 dollari dei 3,4 milioni di uruguaiani. Gli argentini sono meno di 47 milioni e dispongono di 13.700 dollari all’anno pro capite, mentre i paraguaiani che sono poco più 6,8 milioni non vanno oltre un reddito medio di 6.500 dollari. Per non parlare dei 28,9 milioni di venezuelani (lo Stato è membro del «Mercato comune del Sud», ma attualmente è sospeso), che non arrivano ai 2.800 dollari l’anno.
Al contrario, per i 450 milioni di europei il reddito medio tocca 39.850 dollari. La speranza di Ursula von der Leyen è quella di vendere in quell’area del mondo automobili, tecnologia e servizi finanziari sperando così di attutire l’urto che potrebbe arrivare dal blocco trumpiano. Non c’è però alcuna garanzia che i produttori europei, dato il minor costo del lavoro, spostino le fabbriche in Sudamerica: del resto negli anni Settanta la Fiat - che in Brasile produceva la «146» alimentata ad alcol - possedeva lì il suo più grande stabilimento al mondo.
Tra i governi più felici del pasticciaccio brutto di Montevideo - nella capitale dell’Uruguay il 6 dicembre è stata firmata l’intesa - ci sono quello tedesco e quello spagnolo. Ma tanto Olaf Scholz - ormai sulla via del tramonto come cancelliere federale - quanto Pedro Sánchez - primo ministro spagnolo eternamente in bilico - si sono trovati i contadini schierati contro di loro.
Tre settimane fa a Madrid gli agricoltori hanno preso d’assedio con i trattori i palazzi del governo e a guidarli c’era Jorge Buxadé, portavoce di Vox, che parla di accordo iniquo così come gli agricoltori della Sassonia strizzano l’occhio all’AfD. E proprio i tedeschi, insieme con i francesi, hanno inscenato la prima clamorosa protesta a Strasburgo il 19 dicembre. Davanti al Parlamento Ue hanno esposto striscioni con scritto: «Non avvelenerete i nostri figli con i vostri prodotti importati» e ancora «Mehr Freiheit, Weniger Brüssel» («Più libertà, meno Bruxelles»), «Stoppt Mercosur» («Fermate il Mercosur»).
Uno dei portavoce della protesta, Paul Fritsch, già presidente della Coordination rurale du Bas-Rhin, denunciava: «La concorrenza di Paesi che non hanno i nostri stessi standard è inaccettabile. Standard sociali, soprattutto salari e oneri sociali, ma anche normative sanitarie, livelli ambientali e prodotti fitosanitari impiegati». Questo è il vero punto caldo dell’accordo Mercosur che il presidente francese Emmanuel Macron - trovando un’unanimità inusitata di questi tempi a Parigi - definisce «inaccettabile» e che sta per far affluire di nuovo migliaia di agricoltori decisi a prendere d’assedio, come già lo scorso anno, Palazzo Berlaymont che è sede della Commissione europea a Bruxelles.
L’appuntamento se lo sono dato subito dopo l’Epifania, ma la sensazione è che questi focolai (ci sono mobilitazioni tra gli allevatori dei Paesi Bassi e in Polonia) siano soltanto l’inizio. L’accordo con il Sudamerica, peraltro, inquieta anche i sostenitori del Green deal senza se e senza ma. Carola Rakete, la capitana disobbediente della Sea Watch, ora eurodeputata della sinistra verde alla testa di un gruppo di contestatori, ha affermato: «I vincitori per un accordo di questo tipo sono i grandi produttori, mentre i perdenti sono i piccoli agricoltori. L’accordo Ue-Mercosur va contro la nostra visione di un’agricoltura biologica, locale, sostenibile». In ogni caso, contro l’intesa con i Paesi latinoamericani è schierata tutta la galassia ambientalista: da Greenpeace a Fair Watch con Slow Food in Italia particolarmente critica perché, sostiene Sergio Capaldo, presidente del consorzio di allevatori La Granda, «in Brasile si continuano a somministrare agli animali sostanze che alle nostre latitudini sono da tempo proibite».
La mancanza di reciproche «clausole specchio» ha fatto mobilitare Coldiretti in Italia. Sostiene Vincenzo Gesmundo segretario generale dell’associazione: «L’accordo sul Mercosur danneggia i piccoli agricoltori sia in Europa sia in Sudamerica. È inaccettabile parlare di compensazioni davanti alla chiusura delle aziende e ai pericoli per la salute dei cittadini. All’Europa vogliamo ricordare che contro i cittadini non si governa». Questo perché Ursula von der Leyen e i Popolari (ma Antonio Tajani è perfettamente allineato sulle posizioni del governo italiano per un no secco all’accordo così com’è) pur di difendere l’intesa parlano di incentivi agli agricoltori del Vecchio Continente che dovessero ricevere danni dall’accordo. «Divide et impera», si sarebbe detto una volta.
La Commissione, per esempio, sulla carne bovina sostiene che dal Brasile - primo produttore al mondo - entrerà solo l’1,6 per cento di prodotti rispetto alla produzione europea. La Von der Leyen, che insiste su un vantaggio di quattro miliardi di euro per l’abbattimento delle barriere doganali, sa che sta barattando l’auto contro l’agricoltura. Ecco che i settori più colpiti dal trattato sono la zootecnia, la risicoltura, i semi oleosi.
Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida è deciso: «Non sacrificheremo la nostra agricoltura per favorire altre produzioni, il Mercosur va cambiato: così è inaccettabile tanto più che l’Italia va verso i cento miliardi di euro di esportazione di prodotti agroalimentari». Anche Slow Food, che ha aderito all’appello Stop Eu-Mercosur now con altre 400 associazioni, ha fatto i propri conti: «Con l’accordo entreranno 99 mila tonnellate di carne con dazi doganali del 7,5 per cento». Gli Stati sudamericani esportano già 2,3 milioni di tonnellate di riso - l’Italia ha il primato produttivo e di export in Europa - e come sostiene il presidente di Coldiretti Ettore Prandini: «Si rischia un’invasione del mercato con prodotti che non hanno i nostri standard: già stanno arrivando 65 mila tonnellate di riso».
Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, cita uno studio specifico: «Nell’America del Sud vengono impiegati antibiotici per l’accrescimento rapido del bestiame, vietatissimi in Europa. La resistenza a questo tipo di sostanze, da qui ai prossimi anni, provocherà oltre 40 milioni di decessi. Noi abbiamo diminuito i pesticidi del 38 per cento, nel Mercosur sono aumentati del 600 per cento. Il Brasile - è il primo esportatore agricolo già oggi verso l’Europa con oltre 11 miliardi di euro - utilizza il 30 per cento di pesticidi vietati da noi. L’accordo non pone alcuna clausola di reciprocità e i controlli ci preoccupano. La normativa europea prevede solo il 3 per cento di verifiche sui carichi. Siccome il 99 per cento della merce passa per Rotterdam (l’Olanda che lucra su intermediazioni e servizi portuali è entusiasta del patto: da Rotterdam si ritiene abbia avuto accesso il batterio della xylella che ha distrutto gli ulivi pugliesi, ndr), dove i controlli non si fanno. Quindi non abbiamo alcuna garanzia. Il rapporto di prodotti insalubri tra ciò che viene importato e ciò che si produce in Italia è di 300 a uno e infine non è prevista alcuna sanzione per il lavoro minorile che in Sudamerica è ampiamente praticato. Con il Mercosur subiamo rischi sanitari per i cittadini e concorrenza sleale per le imprese».
I prossimi mesi invernali saranno di sicuro caldissimi per l’agricoltura.
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Due questioni fondamentali riguardano il nostro futuro: l’accordo commerciale che l’Ue ha stretto con i Paesi latinoamericani per l’importazione e l’esportazione di prodotti agricoli e industriali, il cosiddetto Mercosur, e l’Intelligenza artificiale.
Come ogni inizio d’anno, anche il 2025 arriva carico di novità e speranze di cambiamento. Spesso le prime consistono in una raffica di aumenti tariffari, che per un curioso gioco del destino dovuto principalmente alle strategie aziendali, giungono sempre dopo le feste, quando le famiglie hanno svuotato il portafoglio per concedersi vacanze e regali. Da questo punto di vista il 2025 non fa eccezioni, perché dai pedaggi autostradali alle bollette elettriche e del gas ci attende già dai primi giorni di gennaio una serie di rincari. Ma se gli aumenti rientrano nella regola, quasi fossero l’amaro dono di ogni Capodanno, è sui cambiamenti che conviene concentrarci, perché da questi dipenderà il futuro di molti di noi. Nel numero di Panorama che avete tra le mani troverete articoli dedicati a due questioni fondamentali: l’accordo commerciale che l’Ue ha stretto con i Paesi latinoamericani per l’importazione e l’esportazione di prodotti agricoli e industriali, il cosiddetto Mercosur, e l’Intelligenza artificiale.
Gli effetti del primo si sono già visti in diverse capitali europee alla vigilia di Natale. Gli agricoltori, preoccupati dalla probabile invasione di merci in arrivo da Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, hanno stretto d’assedio i palazzi del governo di Madrid e Berlino e nei prossimi giorni si preparano a protestare a Bruxelles. Le importazioni di prodotti agricoli e zootecnici non rischiano solo di mettere a repentaglio gli equilibri economici già incerti di chi coltiva la terra o alleva animali convivendo con regole europee sempre più stringenti. A destare allarme è anche l’arrivo sulle tavole delle famiglie di merci che non sono soggette alla stessa normativa di sicurezza che vieta l’impiego di pesticidi e additivi. Una disparità di trattamento, dicono le associazioni degli agricoltori, ma anche un pericolo per la salute, osservano le associazioni dei consumatori. L’Italia si oppone all’accordo raggiunto da Ursula von der Leyen e contro il Mercosur si è schierata anche la Francia. Per evitare che l’intesa diventi operativa è però necessario fare in fretta e i prossimi mesi saranno dunque cruciali.
Nei numeri recenti di Panorama abbiamo scritto spesso anche delle norme capestro che riguardano l’industria automobilistica. È l’altro corno del problema del Mercosur. Con un mercato europeo in forte contrazione e un’America che con Donald Trump minaccia di introdurre dazi per frenare le importazioni, la Ue spera di pareggiare i conti vendendo più macchine in Brasile, Argentina, Paraguay eccetera. Ma si tratta di una speranza che poggia su basi fragilissime perché, come spiega Carlo Cambi a pagina 32, i redditi pro-capite dei Paesi latinoamericani non consentono certo l’acquisto di vetture costose, quali sono i veicoli prodotti in Europa. Il pericolo di veder chiudere le fabbriche di auto, con il conseguente licenziamento di decine di migliaia di lavoratori, è dietro l’angolo, soprattutto se la Ue insisterà nell’imporre multe salatissime alle industrie che non riducono la produzione di veicoli a motore termico, aumentando quella di quattro ruote a batteria.
Ma se il 2025 è fondamentale per scelte che riguardano sia l’agricoltura sia le fabbriche di auto, lo è altrettanto per quanto attiene all’intelligenza artificiale. Marco Morello spiega che cosa cambierà in settori che vanno dall’istruzione alla produzione, dal commercio all’intrattenimento. Si tratta di una rivoluzione che avrà risvolti pratici nella vita di tutti noi. Una rivoluzione alla quale non possiamo sottrarci e con la quale siamo chiamati a fare i conti. Vale per tutti, per chi lavora nei settori più avanzati, soggetti all’innovazione, e per chi invece è impiegato nei settori più tradizionali.
Così come l’introduzione di computer e telefoni portatili ha cambiato i nostri comportamenti, quella dell’Ia, secondo la definizione degli esperti, comporterà trasformazioni ancora più profonde. Dunque, conviene prepararci. Perché il 2025 sarà un anno fondamentale, un vero assaggio del futuro che ci attende. Buona lettura.
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Il dialogo con Donald Trump si è dimostrato cruciale. La questione iraniana è complessa e delicata, ma il Premier ha saputo utilizzare con abilità tutte le risorse a sua disposizione. Il risultato è evidente: Cecilia Sala è stata liberata.
L’aereo dei Servizi segreti italiani con a bordo la giornalista Cecilia Sala e il direttore dell'Aise Giovanni Caravelli è atterrato questo pomeriggio a Ciampino. Ad attendere Sala c’èra il presidente del Consiglio Giorgia Melonie il ministro degli Esteri Antonio Tajani. La giornalista de Il Foglio e di Chora Media si trovava in Iran con un permesso di soggiorno giornalistico valido per otto giorni, allo scopo di raccogliere materiale per il suo podcast. Il 19 dicembre è stata fermata dalle autorità iraniane all'interno del suo hotel. Da quel momento è stata incarcerata in isolamento nella prigione di Evin, nota per ospitare dissidenti politici e cittadini stranieri. Inizialmente, le accuse contro di lei non erano state dichiarate. Tuttavia, il 30 dicembre, il Governo iraniano ha dichiarato che Cecilia Sala era detenuta «per aver violato le leggi della Repubblica islamica dell'Iran». Un’accusa priva di fondamento. Durante il periodo di detenzione di Cecilia Sala non sono pochi coloro che hanno attaccato il Governo accusato non saper gestire il caso. Tuttavia la liberazione della giornalista è la prova che il Governo e tutte le strutture delegate che hanno lavorato in silenzio hanno gestito bene il caso. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è complimentato con il presidente del Consiglio per il ritorno di Cecilia Sala in Italia. Poi il capo dello Stato ha telefonato alla mamma di Sala, che - si ricorda - aveva incontrato nei giorni successivi all'arresto. Contrariamente a quanto dichiarato dall'opposizione e riportato da buona parte della stampa, che ha descritto il viaggio di Giorgia Meloni negli Stati Uniti come una semplice operazione di facciata, tale visita ha avuto un ruolo significativo nella vicenda. Il dialogo con Donald Trump si è dimostrato cruciale. La questione iraniana nella situazione attuale è complessa e delicata, ma il Premier ha saputo utilizzare con abilità tutte le risorse a sua disposizione. Il risultato è evidente: Cecilia Sala è stata liberata ed è quello che conta.
Che cosa hanno ottenuto gli iraniani? Ancora non lo sappiamo ma c’è chi dice che Mohammad Abedini Najafabadi, l'iraniano arrestato a Milano lo scorso 16 dicembre che si trova nel carcere di Opera, verrà scarcerato ed espulso. Se così fosse non ci sarebbe da scandalizzarsi per due semplici ragioni: tutti i Paesi trattano (compresi gli Stati Uniti) e talvolta pagano quando c’è da riportare a casa un rapito, quindi uno scambio è nella logica delle cose anche se può dare fastidio. Governare significa anche prendersi carico di situazioni delicate come queste e fanno ridere coloro che dai banchi dell’opposizione -dopo essere stati al Governo per anni- se ne sono dimenticati.
Secondo aspetto è che Mohammad Abedini secondo gli Usa è un trafficante di sistemi utilizzati nei droni dei Pasdaran iraniani, tuttavia, non è certo Osama bin Laden e se gli americani hanno dato il loro via libera all’operazione significa che non si tratta di una figura per loro irrinunciabile. Renato Sala, il padre di Cecilia, all’Ansa ha confermato la delicatezza dell’operazione: «Dirò a Cecilia che sono orgoglioso di lei e della capacità e la compostezza che ha avuto in questa vicenda. Nei suoi giorni di prigionia l'ho sentita tre volte. In questo periodo ho avuto l'impressione di una partita a scacchi, ma i giocatori non erano soltanto due. A un certo punto la scacchiera si è affollata e questo ha creato forti timori in un genitore come me, che purtroppo ignora le mosse». Infine, le accuse al Governo italiano di non sapere gestire i casi di sequestro o detenzione all’estero appaiono gratuite se si va al recente passato dove non sono pochi i casi di italiani liberati.
-Alessia PIPERNO, arrestata in Iran verso la fine del mese di settembre 2022 per aver partecipato a manifestazioni di protesta e detenuta presso il carcere di Evin. È stata liberata dopo circa 45 giorni il 10 novembre scorso, dopo intense interlocuzioni diplomatiche e di intelligence;
-Patrik ZAKI, studente presso l’Università di Bologna, arrestato dalle Autorità egiziane nel 2020. Da subito sono state avviate attività intelligence e diplomatiche da parte italiana. La sua detenzione fu sospesa nel dicembre 2021. Nel luglio del 2023, il tribunale de Il Cairo emetteva una sentenza definitiva a 3 anni di reclusione, ma il giorno successivo, anche grazie all’importante lavoro di mediazione incessantemente condotto dall’Italia, il Presidente egiziano Al-Sisi ha concesso la grazia allo studente, consentendogli così il rientro in Italia;
-Ilaria DE ROSA, arrestata in Arabia Saudita il 3 maggio 2023 e successivamente condannata a 6 mesi di reclusione in primo grado e in appello per possesso di sostanze stupefacenti (circostanza sempre negata dall’interessata). La stessa ha fatto rientro in Patria il 2 novembre dello stesso anno, a seguito del lavoro della diplomazia nazionale;
-Enrico FORTI, arrestato a Miami nel 1998 con l’accusa di omicidio, dopo diversi anni di mediazione con il Governo degli Stati Uniti è stato riportato in Italia nel maggio del 2024.
-Rocco e Giovanni LANGONE, Maria Donata CAIVANO, tre italiani liberati il 27 febbraio 2024 e hanno fatto rientrato in Italia. Gli stessi erano stati sequestrati da un gruppo terroristico il 19 maggio 2022 a Koutiala (Mali), Paese nel quale vivevano.
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Da una parte le milizie di Ahmed al-Sharaa, al potere a Damasco. Dall’altra, cristiani, drusi, curdi e gli stessi alauiti della setta sciita di Assad: non si fidano degli annunci di «normalizzazione» dei vincitori. E non consegneranno le armi.
«Vedi quelle colline con le grandi ville? È tutto proprietà di Assad e ci vivono i suoi fedelissimi, che hanno messo da parte le armi, tante, e anche qualche carro armato. Si preparano al peggio e hanno un piano». Ahmed è un alauita, la setta sciita del dittatore di Damasco fuggito in Russia, ma gironzola ancora fra i resti anneriti dalle fiamme del grande mausoleo di al-Qordaha, dedicato al fondatore della dinastia Hafez al Assad. La sontuosa tomba è stata spogliata di tutto, come gli altri edifici-simbolo degli Assad, ma il corpo non c’era ed i nuovi conquistatori, ex ribelli jihadisti o presunti tali, si sono portati via i resti del figlio primogenito e prediletto, Bassil, morto in un incidente d’auto.
Nei giorni di Natale proprio ad al-Qordaha, roccaforte alauita e Tartus, dove i russi hanno ancora la base navale, sono scoppiati violenti scontri armati con i miliziani del nuovo governo di Salvezza nazionale messo in piedi a Damasco da Ahmed al-Sharaa. Nome di battaglia Al Joulani è un ex seguace di Al Qaida, che si presenta al mondo come «talebuono».
Il Comitato per la liberazione del Levante (Hts) che lo ha portato al potere conta su 40 mila uomini, troppo pochi per controllare l’intera Siria. I siriani sognano un futuro di stabilità e pace, ma in molti, curdi, drusi, cristiani si fidano ben poco e non vogliano saperne di stato islamico, sharia e legame stretto con il «sultano» turco Erdogan.
I primi che non ci stanno sono le sacche di irriducibili alauiti, che nel triangolo fra Latakia, Qordaha e Tartus «si sentono abbandonati da Assad al proprio destino, ma non vogliono cedere le armi. Il nuovo governo ha dovuto mandare un migliaio di uomini per mantenere sotto controllo la situazione» secondo una fonte di intelligence. Fra il 25 e 26 dicembre sono scoppiati violenti scontri con dozzine di uomini del nuovo governo uccisi prima di riuscire a catturare il generale Mohammed Kanjo Hassan. Il ricercato era responsabile della giustizia militare del regime accusato degli orrori del carcere-mattatoio di Sednaya alle porte di Damasco. A Latakia, altra roccaforte dell’ex regime, il crollo è raffigurato dalla fila chilometrica all’ingresso di una caserma del ministero dell’Interno, dove gli ex militari e poliziotti consegnano le armi e ottengono un agognato salvacondotto. «Riusciamo a gestirne duemila al giorno al massimo e va avanti così dalla fine del regime» spiega Mohammed Mostafa un giovane barbuto in uniforme. «Non trattateci come i cani di Assad» sbotta un ex soldatino in fila «Anche noi siamo contenti che il figlio di puttana sia caduto. Ho pure disertato per non farmi ammazzare, ma sono stato preso e rimandato in guerra».
I miliziani che li sorvegliano fanno il segno di vittoria con le dita e scatta l’urlo takfir, la «scomunica» contro gli apostati come Assad, fra gli ex soldati che paiono allinearsi al nuovo corso. Sul retro della caserma vengono consegnate armi e chiavi delle auto governative. Un ufficiale di polizia ha portato la sua pistola, anche se non sembra molto convinto che tutto andrà per il meglio. L’importante è ottenere il salvacondotto con foto e numero di registrazione, che dovrebbe servire un domani a richiamare in servizio militari e agenti. In coda si presenta pure una guardia del corpo di Assad, che non viene riconosciuto dai barbuti. Anche lui consegna la pistola e fa finta di niente.
A Homs le tetre quinte di palazzi sbrecciati dai combattimenti ricordano la brutalità della guerra civile siriana. Gli alauiti sono scesi in piazza ed è stato imposto il coprifuoco. Il vescovo Jacques Murad era stato rapito nel 2015 dai tagliagole del Califfato. Confratello di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano sparito nel nulla dal 2013, denuncia che «a Homs i sunniti entrano nelle case mascherati per uccidere gli alauiti. Anche se avessero partecipato al massacro perpetrato dal regime bisogna processarli con una corte indipendente nel rispetto dei diritti dell’uomo. Il governo voluto da Al Joulani sostiene che si tratta di azioni individuali. Non ci credo». E poi rivela che «in una riunione con emissari di Damasco, il capo-delegazione, ha detto che hanno una lista di 40 mila persone da uccidere...».
I cristiani, ridotti a 300 mila dall’oltre milione e mezzo di siriani prima della guerra, sono i più deboli. Il primo Natale senza Assad, dopo 53 anni, lo vivono fra speranza e paura. Firas Lufti, il francescano custode della Terra Santa a Damasco, sottolinea che «i miliziani al potere hanno alle spalle un bagaglio islamo-fanatico e jihadista. Un simile governo non può reggere in Siria, un Paese-mosaico di etnie e religioni. Speriamo di non arrivare a constatare che si stava meglio quando si stava peggio». Fahda Nasr, con i capelli lunghi e sciolti, è appena uscita dalla messa della domenica a Bab Touma, la porta di Tommaso, il quartiere dei cristiani nella capitale. «Va bene cambiare» ribadisce. «Ma c’è anche la paura che ci impongano il velo. Spero che rispettino la nostra religione».
Georges Assadourian, vescovo armeno di Damasco - che parla italiano - nutre speranza, per una «Siria libera, indipendente e laica». Però rivela che «hanno iniziato a girare per i negozi cristiani dicendo di non vendere alcolici. È uno dei nostri timori».
La strada principale, che porta verso nord, da dove sono calati velocemente i ribelli che l’8 dicembre scorso hanno conquistato Damasco, è ingombra di mezzi militari abbandonati. Un camion con un cannone semovente, tank con le uniformi dei carristi gettate via, basi aeree sguarnite dove i Mig portano ancora le bombe russe sotto le ali e automobili crivellate da raffiche di mitra sono il simbolo di una specie di «8 settembre» e «25 aprile» siriani uno dietro l’altro.
Ad Aleppo, chi non ci sta sono i curdi, che presidiano da anni due quartieri nella «Milano della Siria». Si entra solo attraverso del posto di blocco, dove donne e uomini armati di kalashnikov controllano tutte le macchine. «Siamo disponibili a collaborare con Hayat Tahrir al-Sham, che deve rispettare la nostra lingua e autonomia. Il nostro nemico è l’Esercito nazionale siriano messo in piedi dai turchi, che ha compiuto crimini contro i curdi» spiegano Nouri Sheikho e Heaven Suleiman, uomo e donna alla guida dei quartieri. Il ritratto di Apo Öcalan il leader incarcerato del Pkk, che i turchi bollano come terrorista, è seminascosto per non attirare l’attenzione dei giornalisti. L’area curda è affollata, ma con le fogne a cielo aperto, l’elettricità a singhiozzo ed edifici da campo profughi. Non mancano gli yazidi, sterminati dal Califfato, in armi anche loro. La bestia nera dei curdi è appunto l’Sna, l’Esercito nazionale siriano, che ha sfruttato il crollo del regime per attaccare l’etnia nelle loro roccaforti. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vuole creare una zona cuscinetto lungo la frontiera con la zona di Amministrazione autonoma nel Nord-est della Siria chiamata Rojava. Un terzo del Paese controllato dalle Forze democratiche siriane, che hanno sconfitto l’Isis con l’appoggio Usa. E Israele considera i curdi «alleati naturali». All’hotel Sheraton, semideserto, si nota una squadra turca in borghese ma, sotto i maglioni, alcuni portano la pistola alla cintola. Al Four Seasons, l’albergo di lusso di Damasco, era arrivato fin dalla prima settimana di «liberazione», il nuovo ambasciatore di Ankara con gli uomini del Mit, l’intelligence turca. Non è un caso che il neo nominato governatore di Aleppo, Azzam Garib, laureato in Turchia, sia legato ai Fratelli musulmani dell’Sna che si ispirano a Erdogan.
Anche il nuovo ministro degli Esteri, Asaad Hassan al-Shaybani, ha ottenuto un master a Istanbul. E pure la prima donna nell’esecutivo provvisorio, Aisha al Dibs, è un’attivista dei diritti umani con doppia cittadinanza turca e siriana. «Se Fratellanza musulmana e salafiti di Al Joulani si accordano possono gestire lo Stato» spiega un diplomatico a Damasco. «E la Turchia può trovare un via d’uscita e stabilizzare la Siria». Impresa densa di incognite a partire dalle migliaia di volontari della guerra santa internazionale non più isolati nella sacca di Idlib, il piccolo Califfato da dove è partita la conquista di Damasco.
La megavilla di Bashar Assad, il cugino omonimo del presidente destituito, è spogliata di tutto dopo il saccheggio. Si sono portati via pure le tapparelle, ma hanno lasciato la grande aquila all’ingresso e le pacchiane pseudo-sculture romane in cartongesso. Un fuoristrada bianco senza targa arriva a tutta velocità con tre uzbeki in mimetica e il dito sul grilletto. Sospettosi chiedono subito: «Parli russo?». La risposta è «no», pur conoscendo qualche frase, ma ci vuole un po’ per calmarli spiegando che sono italiano. Alla fine si scattano dei selfie nella villa, come se fossero i nuovi padroni, e se ne vanno.
Nella piazza d’ingresso di Idlib, la roccaforte jihadista, sventola la bandiera bianca con i versi del Corano scritti in nero. È uguale a quella dei talebani in Afghanistan. Le donne girano con il niqab, il velo che copre dalla testa ai piedi. Il mercato è pieno di alimentari, ma si paga con lire turche. E in una piazzetta, Al Joulani ha autorizzato un piccolo monumento «da Idlib a Gaza» inneggiante all’attacco stragista di Hamas del 7 ottobre con un mosaico-dipinto di un terrorista che arriva dal cielo in parapendio verso la cupola dorata della moschea di Gerusalemme.
Un giovanotto con gli occhi a mandorla e orologio militare al polso, originario del Kirghizistan, compra un chilo di patate da un fruttivendolo. «Sono venuto a combattere la guerra santa per difendere i fratelli siriani» spiega a telecamera spenta. «Faccio parte, assieme ad altri volontari dell’Asia centrale come gli uiguri (militanti islamici cinesi, ndr), della Kahtiba al Tawid Wal Jihad». Il gruppo, legato ad al-Qaida, è nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Alla domanda su cosa farà ora, risponde che «il dittatore è scappato. Probabilmente andremo in Giordania» per combattere. Un’auto con i finestrini oscurati lo sta aspettando per ripartire.
A sud di Damasco, vicino al confine giordano, la roccaforte di Sweida è una città di 120 mila abitanti controllata armi in pugno dai drusi, che non intendono mollare il potere. All’ingresso, una sentinella con elmetto e giubbotto antiproiettile di Liwa al Jabal, uno dei gruppi di volontari della difesa di Sweida, saluta con un cordiale Salam aleikum, «la pace sia con te». Una dozzina di armati sono schierati nella base con la bandiera rossa ed i fucili incrociati sullo sfondo. «Rifiutiamo il radicalismo, la sharia e lo Stato islamico» afferma il loro comandante Shaker Azzam. «Su questo non negozieremo mai». Ziad, che ha un cappellino del Venezuela e parla inglese, fa da scorta per un giro dalla chiesa cristiana presidiata per proteggerla, alla banca centrale e l’ex base dell’intelligence di Assad soprannominata «l’inferno» per le torture sui prigionieri. «Il vecchio regime ha messo in testa a tutta la popolazione siriana che Israele è il nemico» spiega Ziad. «Non è così. Ci sono molti drusi in Israele che sono nostri fratelli e nonni». Un giovane è ancora più netto: «Se dovessi scegliere fra la sharia e Israele non avrei dubbi a preferirei il secondo».
Yousuf al Jarbu, barba d’argento, tenuta nera e tipico copricapo bianco dei leader drusi, è uno dei tre sheik che governano la comunità. «Sappiamo bene che i nuovi arrivati a Damasco erano di Al Qaida» dice. «Ci hanno garantito che rispetteranno tutte le minoranze. Vedremo presto se manterranno le promesse».
Tanti sperano che Ahmed al-Sharaa sia il primo jihadista illuminato sulla via di Damasco, che al posto delle armi e del Califfato faccia uscire il Paese dal tunnel. Uno dei veterani della nostra intelligence sul campo è scettico: «In Siria è stato scoperchiato il vaso di Pandora. L’Occidente ne subirà gli effetti per anni». n
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Dal Mondo
Cecilia Sala liberata è arrivata in Italia: «Ciao, sono tornata»
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08 January 2025
È atterrato pochi minuti fa a Ciampino l’aereo che ha riportato in Italia Cecilia Sala, la giornalista italiana trattenuta in Iran.
Aggiornamento:
Con un sorriso sereno e gli occhiali appesi al colletto di una maglia scura, Cecilia Sala ha salutato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, appena atterrata all’aeroporto di Ciampino a bordo del C-130 dell'Aeronautica Militare. L’immagine, condivisa dai profili social de Il Post, mostra sullo sfondo anche il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.
Sala, giornalista e voce di Stories per Chora Media, ha inviato ai colleghi un messaggio semplice ma carico di significato: “Ciao, sono tornata”. Un gesto che trasmette sollievo dopo la difficile esperienza della detenzione in Iran.
Il rientro di Cecilia Sala rappresenta un momento di grande emozione e sollievo, non solo per i suoi cari e colleghi, ma per l’intero Paese che ha seguito con apprensione la sua vicenda. Festante la madre: "Cecilia è libera, evviva!". Il padre della ragazza ha parlato di "una partita a scacchi affollata" per ottenere la liberazione della figlia.
Ancora incerto il destino di Mohamed Abedini Najafabadi, l'uomo legato alle Guardie della rivoluzione islamica (Irgc) arrestato in Italia su richiesta statunitense, dove le Irgc sono considerate un'organizzazione terroristica. Sono in molti a ritenere l'arresto in Iran della giornalista italiana legato al caso Abedini, fermato dalla polizia solo alcuni giorni prima in Italia. La palla passa al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha facoltà di revoca sull'arresto. Il Guardiasigillipotrebbe invocare l'articolo 718 del codice di procedura penale e liberare Abedini, ritenendolo inestradabile.
È decollato pochi minuti fa da Teheran l’aereo che riporterà in Italia Cecilia Sala, la giornalista italiana trattenuta in Iran. Lo ha comunicato Palazzo Chigi in una nota ufficiale.
"Grazie a un intenso lavoro sui canali diplomatici e di intelligence, la nostra connazionale è stata rilasciata dalle autorità iraniane e sta rientrando in Italia", si legge nel comunicato. Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha espresso gratitudine verso tutte le figure che hanno contribuito a rendere possibile il rilascio della giornalista, permettendole di tornare dalla sua famiglia e dai colleghi.
Il Presidente ha inoltre informato personalmente i genitori della Sala nel corso di una telefonata avvenuta poco prima della partenza dell’aereo. L'episodio rappresenta una nuova dimostrazione degli sforzi diplomatici italiani nel garantire la tutela e il rientro dei propri cittadini in situazioni di difficoltà all'estero.
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Una sinistra che urla ma con poca sostanza. I compagni della coalizione di centrodestra, litigiosi però uniti. L’Europa e gli americani che danno credito. Nell’anno che arriva, l’esecutivo di Giorgia Meloni può davvero cambiare verso al paese.
Dureremo fino al 2027». Nell’eventuale attesa, Giorgia Meloni può già bearsi. Nulla fa presagire clamorosi impedimenti. Bettino Craxi rimase a Palazzo Chigi 1.093 giorni. Se anche il 2025 filasse liscio, la premier salirebbe così sul podio repubblicano: terzo governo più longevo di sempre. In patria, del resto, nel 2025 non s’intravedono grandi pericoli. Elly Schlein, che sogna di affrontarla alle prossime politiche, rimarrà a malapena leader del Pd. Giuseppe Conte, affetto da fregolismo congenito, sarà tallonato dal deposto fondatore, Beppe Grillo, che vuole sottrargli il simbolo e l’onore. Gli altri pretendenti si lambiccano: chi tenterà di riesumare il centrino, il declinante Beppe Sala o il riscossore Ernesto Maria Ruffini? Davanti a tali insolvibili enigmi, Giorgia può dunque dormire fra due guanciali di piuma d’oca.
Per carità, non è che nella maggioranza tutto fili liscissimo. Forza Italia e Lega baruffano, enfatizzando il gioco delle parti: moderati e destroni. Certo: Antonio Tajani, capo dei forzisti, non stravede per Matteo Salvini, segretario leghista. Ma i due vicepremier sono ormai maestri nell’arte del tiremmolla. D’altronde, nonostante qualche screzio, il centrodestra in parlamento rimane unito. E l’imminente 2025? «L’anno che verrà sarà quello delle riforme che spaventano molti. Andremo avanti sul premierato, così temuto dai campioni olimpici dei giochi di palazzo, sull’autonomia differenziata, sulla riforma fiscale e della giustizia» scandisce Meloni dal palco di Atreju. La separazione delle carriere, di cui si parla da un trentennio, sembra quella meglio avviata, nonostante la furibonda opposizione di giudici e pm. Giorgia, però, insiste: «Vogliamo liberare la magistratura dal controllo della politica e delle correnti politicizzate». La riforma più scivolosetta è invece l’autonomia differenziata, vista l’opposizione dei governatori forzisti.
Non sarà però il proscenio italiano a regalare grandi soddisfazioni. Svecchiare il Paese resta un’impresa defatigante e ciclopica. In Europa, invece, non potrebbe andar meglio. Come ama ricordare Meloni, il governo italiano è quello più stabile tra i grandi Paesi del continente. Germania e Francia, per lustri, hanno giganteggiato. Adesso fronteggiano una crisi feroce e inedita. A Berlino Olaf Scholz si è dimesso. Il 23 febbraio 2025 ci saranno le elezioni anticipate, ma le possibilità di vittoria per il cancelliere rasentano lo zero. I suoi socialdemocratici arrancano nei sondaggi. La maggioranza del Bundestag sarebbe invece dei popolari, seguiti dall’estrema destra.
Comunque vada, s’annunciano tempi cupissimi. La recessione sarà aggravata dal crollo del settore automobilistico. L’instabilità politica rischia di essere perfino peggiore di quella francese. Emmanuel Macron ha perso le elezioni. S’è arroccato all’Eliseo, ma è ostaggio di destra e sinistra. Lo scorso settembre ha nominato primo ministro Michel Barnier. Dopo tre mesi s’è dimesso, infrangendo ogni record: il governo più breve della Quinta repubblica. Così, monsieur Macron si ritrova isolato in patria e sempre meno influente in Europa.
Tutto il contrario dell’arcinemica italiana. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è stata eletta con la maggioranza più striminzita e rissosa della storia. Non può fare a meno di Meloni e dei conservatori di Ecr. Ha già nominato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, armato di «un pacchetto di competenze che vale mille miliardi» gongola Giorgia. La prossima concessione di Ursula potrebbe essere imminente: anticipare al 2025 la clausola di revisione sul Green deal dell’auto elettrica. A quel punto, l’Italia chiederà di rimuovere anche il veto sui biocarburanti. Sono l’avanguardia dell’Eni, il nostro colosso energetico, e uno dei capisaldi del Piano Mattei, che prevede robusti investimenti negli Stati africani.
Scholz, Macron e Von der Leyen arrancano. Ma non è l’unica contingenza internazionale favorevole. Nel frattempo, avanza lo schiacciasassi Donald Trump. I profeti di sventura, oltre a sognare l’isolamento in Europa, speravano che le pacche con il vecchio presidente americano, Joe Biden, facessero incarognire il suo successore. Macché. «Meloni è fantastica» la esalta Trump. Lo stesso fervore viene mostrato pubblicamente da Elon Musk, l’imprenditore più ricco e influente del pianeta: «Ha fatto cose incredibili». I rapporti con la presidente del Consiglio, puntellati anche da una scenografica visita a Roma del tycoon, sono ormai strettissimi. I tweet a sostegno dell’amica sono sperticati.
La premier punta, quindi, a diventare la mediatrice tra le sponde atlantiche. Tanto da voler organizzare nei prossimi mesi tramite lo «zio Elon», come lo chiamano nel clan Trump, una chiamata chiarificatrice tra Von der Leyen e il presidente americano, che minaccia sostanziosi dazi contro l’Europa. Avvisaglie pericolose. Così il ruolo di Meloni, possibile portiera tra Bruxelles e Washington, sarebbe ancor più strategico. Difatti, l’opposizione non perde occasione per denunciare ingerenze di Musk nella politica italiana. C’è da capirli, comunque. A sinistra continuano a tribolare. Il futuro non pare certo sfavillante. Elly tenta faticosamente di accreditarsi come l’anti Giorgia: ovvero, colei che la sfiderà nel 2027. Campa cavallo. E poi, la segretaria fatica ancora a imporsi tra i cacicchi, figurarsi nel sedicente campo largo. L’unica, insperata, soddisfazione è di essere ancora al suo posto. A marzo 2025 festeggerà due anni filati al Nazareno. Chi l’avrebbe mai detto? Più di Enrico Letta e Nicola Zingaretti, i suoi predecessori.
Per il resto, a parte qualche slogan ben riuscito, c’è poco da brindare. La «testardamente unitaria» si ritrova, ogni volta, a dover ripartire dall’inizio. Sui Cinque stelle, ovviamente, non può contare stabilmente. Il partito è ormai nelle mani di Giuseppi, il più celebrato trasformista della storia repubblicana. Si autoproclama «progressista indipendente». Che vuol dire? «Come se fosse Antani» chiarirebbero gli impenitenti di Amici miei. Il Conte Mascetti, sul modello «prematurata la supercazzola o scherziamo?», dice ad Atreju: «Non farò lo junior partner del Pd». Dunque, caro Giuseppi? Ancora una volta: boh. Eppure, viste le asfittiche percentuali, verrà a miti consigli. In primavera dovrebbero andare al voto cinque regioni. In Veneto, per esempio, la stantia alleanza è già siglata. Tutti insieme, poco appassionatamente. Mentre in Campania si spera nella clemenza di Schlein, che potrebbe concedere la candidatura allo scalpitante Roberto Fico, già presidente della camera pentastellato. Todos caballeros, anche qui. Come alle regionali in Liguria, dove il Movimento ha appoggiato l’ex pluriministro dem, Andrea Orlando. Alla fine, però, ha vinto lo sfidante di centrodestra: Marco Bucci, ex sindaco di Genova. Tra qualche mese, si voterà quindi per sostituirlo. Come noto: errare è umano, perseverare è diabolico. Così il campetto largo medita di ripresentare lo sconfitto Orlando, che s’è pure dimesso dal parlamento per fare lo scornato capo dell’opposizione in Liguria. Ed ecco l’ideona: visti i natali spezzini, perché non schierarlo ancora a Genova la prossima primavera? A quel punto, i Cinque stelle, che l’hanno già appoggiato nella sfortunata corsa a governatore, non potrebbero esimersi. Arroccato nel suo villone di Sant’Ilario, l’Elevato intanto medita vendetta. Giuseppi gli ha tolto l’adorato ruolo di garante e la profumata consulenza da 300 mila euro. Adesso Beppe, a capo della velleitaria Armata Brancagrillone, cercherà in ogni maniera di far fallire i già confusi propositi dell’azzeccagarbugli di Volturara Appula. A partire, magari, proprio dalle elezioni genovesi.
Il Conte Mascetti, tra l’altro, dovrà guardarsi le spalle anche dal Centro. Nella commedia politica italiana, difatti, c’è un nuovo protagonista: il tassator cortese, al secolo Ernesto Maria Ruffini. Guidava, da tempo immemorabile, l’Agenzia dell’entrate. S’è appena dimesso, colto da insopprimibili bollori. Sarà lui, pare, a tentare di riesumare il Centro: quell’ameno luogo elettorale, popolato un tempo dalla Dc. A sostenere il suo illustre profilo si scomodano leggendari cattolici di sinistra: da Rosy Bindi a Romano Prodi. Del resto, visto che Elly non può sempre contare su Giuseppi, non è meglio aprire un secondo forno, come insegnano gli avi scudocrociati?
Ed ecco un’altra ideona: schierare lo sceriffo di Nottingham tricolore. Autore, tra gli altri, del mancato bestseller L’evasione spiegata a un evasore. Con la pregiatissima prefazione del professor Prodi e l’immancabile postfazione dell’ex ministro Vincenzo Visco, soprannominato «Dracula». Comunque, il ruolo è ambito: pure Beppe Sala, sindaco di Milano, freme all’idea. Tanto da affossare già Ruffini: «È bravissimo, ma lo conoscono in pochissimi». Mal che vada, potrebbe scendere in campo, con la flemma che lo contraddistingue, un’altra leggenda: «Er moviola», l’eterno Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo. Prodi permettendo, s’intende. Come sarà, dunque, il 2025? Si potrebbe sintetizzare con un detto capitolino, da rivolgere in occasione delle feste alla romanissima Giorgia: «Magna tranquilla». Con un’opposizione così, rischia di governare per i prossimi trent’anni.
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In Europa è arrivata la consapevolezza che subire un attacco militare - di ogni genere e gravità - non è più impensabile. E molti Paesi cominciano ad attrezzarsi: con riarmo, difese, bunker. Ma anche con nuovi cimiteri.
Ognuno si organizza come può, come meglio crede. In Italia, al comando dello Stato maggiore della Difesa di Roma, dal più alto in grado fino all’ultimo militare, tutti indossano la mimetica: «Bisogna prepararsi all’ipotesi peggiore» spiega il generale Carmine Masiello. Ben più cupo è l’atteggiamento svedese: a metà dicembre la Chiesa luterana ha ricevuto dal governo di Stoccolma la richiesta di individuare dieci ettari di terreno e di prepararsi all’eventualità di dover seppellire 30 mila persone, non solo soldati.
Freddi venti di guerra scuotono il mondo, dall’Ucraina al Medio Oriente, e gelano la schiena fino a Taiwan, dove la flotta cinese è appena tornata a circondare l’isola. E l’Europa, quasi senza accorgersene, ai conflitti ha cominciato a prepararsi. No, non come tre mesi fa aveva suggerito Mario Draghi, che nel suo Rapporto all’Unione europea aveva raccomandato più integrazione e più spesa per la difesa comune. Ma in ordine sparso. Di fronte alle crescenti minacce di Vladimir Putin, lo scorso 19 novembre, a Varsavia, i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito e Polonia hanno firmato un documento di forte critica «all’escalation delle attività ibride di Mosca contro i Paesi della Nato e dell’Ue», che «stanno creando rischi significativi per la sicurezza». Da allora, però, l’Europa unita non ha saputo fare nulla di più concreto. In molti Stati, invece, è partita una silenziosa, concretissima corsa ai preparativi: piccole mosse e quasi ingenue, a volte, ma comunque sintomatiche di un’inquietudine inedita, almeno dalla fine della Guerra fredda.
Uno dei passi più decisi l’ha fatto la Germania. A fine novembre è emerso un piano riservato di mille pagine, elaborato dagli alti comandi del Bundeswehr, l’esercito tedesco, e intitolato «Operation Deutschland», denso di scenari bellici. Il documento individua le linee della resistenza a un’invasione russa, ma anche piani di requisizione e mobilitazione di risorse civili, a partire dai mezzi di trasporto privati, e progetti di esercitazioni congiunte tra i militari e le aziende per garantire l’operatività logistica del Paese. Il Piano è tanto dettagliato da includere l’addestramento dei dipendenti privati a competenze utili in tempi di crisi, come la guida di camion. Già a fine ottobre il ministro tedesco della Difesa, il socialdemocratico Boris Pistorius, aveva invitato i tedeschi a essere «Krieg-stüchtig», cioè «pronti alla guerra». Pistorius aveva annunciato anche 100 miliardi d’investimenti a favore del Bundeswehr, aggiungendo che l’esercito era stato «trascurato per oltre 30 anni», e che questo era stato «un madornale errore cui purtroppo non si può riparare in pochi mesi». Uno choc, cui ai primi di novembre ne è seguito un altro: la crisi del governo di centrosinistra di Olaf Scholz.
Da allora, in attesa delle elezioni del 23 febbraio, gli alti comandi di Berlino si sono messi a lavorare a un elenco dei rifugi anti-atomici disponibili, per avere un’idea degli spazi dove riparare la popolazione in caso d’emergenza. Ai primi di dicembre il ministero degli Interni ha fatto sapere che sarebbero «attivabili» 579 rifugi in tutto, capaci di dare riparo a meno di mezzo milione di abitanti (su un totale di 90 milioni di tedeschi), e che presto sarà pronta un’applicazione da smartphone con la posizione delle strutture. L’Associazione tedesca delle città ha subito chiesto di riattare i duemila bunker sotterranei costruiti negli anni della Guerra fredda, ma sono stati in gran parte smantellati dal 2007.
La Francia intanto ha scoperto il fascino dei rifugi privati. Le aziende costruttrici fioriscono e la domanda - partita nel 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina - s’è impennata proprio negli ultimi mesi. Stime aggiornate parlano di almeno mille nuovi bunker personali costruiti negli ultimi due anni. A prezzi notevoli: si va dai 70 ai 150 mila euro per un piccolo rifugio familiare spartano per due-tre persone, ma si arriva a qualche milione per un bunker lussuoso e di grandi dimensioni. In primavera, poi, l’esercito francese parteciperà all’esercitazione su larga scala «Dacian 2025», in Romania: il test dovrà verificare la rapidità di mobilitazione sul fianco orientale dell’Alleanza atlantica. Secondo il generale Bertrand Toujouse, capo delle forze terrestri francesi, l’esercitazione cambia ogni paradigma: «Non stiamo più simulando guerre astratte, ora abbiamo un nemico designato». Nel frattempo, anche a Parigi cadono i governi, e il Paese ha altro cui pensare. Ma un sondaggio d’inizio dicembre rivela che 62 francesi su 100 vogliono tornare al servizio di leva obbligatorio, e oltre metà del campione vorrebbe «aumentare le risorse per l’esercito». Un terzo ritiene addirittura che in tempo di crisi sia «più auspicabile un governo militare rispetto a uno civile».
La Svizzera ha una storica tradizione di bunker. Dal 1962 una legge ne impone la costruzione sotto ogni nuovo edificio, pubblico e privato, e così la Confederazione oggi dispone di circa 360 mila rifugi individuali o collettivi, capaci di proteggere un numero di persone addirittura superiore ai suoi nove milioni di abitanti. La Finlandia ha numeri simili, visto che garantisce il posto in un bunker a 70 cittadini su 100, ma ha anche 1.340 chilometri di confine aperto verso la Russia: per questo, in autunno, ne ha chiuso gli otto valichi, ha avviato la costruzione di un’alta recinzione in acciaio e ha chiesto ai satelliti della Nato di intensificare i controlli su quella bianca terra di nessuno. Da metà novembre, poi, un milione di finlandesi ha scaricato dal sito del governo una nuova guida di sopravvivenza intitolata «Prepararsi a incidenti e crisi», che prevede anche «conflitti militari» e offre consigli sull’uso di pasticche allo iodio contro gli effetti delle radiazioni. Anche l’Agenzia svedese per le emergenze civili ha distribuito a cinque milioni di famiglie un opuscolo di 32 pagine, intitolato «Se arriva la guerra»: dà suggerimenti su come fermare un’emorragia, quali scorte fare, come calmare i bambini… E lo stesso accade in Norvegia, dove il governo consiglia alla popolazione di tenere in casa alimenti e medicine (e le solite pasticche allo iodio) per reggere almeno una settimana.
In Italia - tute mimetiche a parte - regna la calma. Di conflitti bellici si parla poco, di bunker ancora meno. Da noi, del resto, sopravvive tutt’al più qualche vecchio rifugio antiaereo, inutile in caso di attacco nucleare. Eppure alcune strutture ci sarebbero, sia pure disattivate e trasformate in museo. Una fu scavata nel 1937 dal fascismo nel monte Soratte, non lontano da Roma, e nel 1967 la Nato lo potenziò per la Guerra fredda. I suoi quattro chilometri di gallerie, nel dopoguerra, avrebbero potuto funzionare da bunker antinucleare. Un altro grande rifugio atomico, 13 mila metri quadri a 150 metri di profondità, risale agli anni Sessanta e si trova ad Affi, vicino a Verona. Può resistere a un’esplosione da 100 chilotoni (la bomba di Hiroshima ne scatenò 15), e null’altro è dato sapere. Da noi, come sempre, sono molto più veloci le grandi società private. Alcune si sono già organizzate per trasferire le loro prime linee di comando in luoghi segreti, ben protetti e riforniti, e lontani dai possibili obiettivi dei missili di Mosca. A tutti gli altri italiani restano gli scongiuri.
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