Panorama
L'editoriale del direttore
«Ma che giustizia è quella che a 25 anni da un delitto non è in grado di stabilire se qualcuno è colpevole o innocente? Come si può parlare di giustizia se a dieci anni dalla condanna definitiva per omicidio di una giovane, e dunque dopo che un «colpevole» ha trascorso 3.368 giorni dietro le sbarre, i magistrati riaprono il caso e indagano per lo stesso assassinio un’altra persona? Credo che tutti, nei giorni scorsi, si siano posti queste domande...»
Le magnifiche prede
Dopo anni di relativa calma, è ripartito il risiko del credito. Mediobanca, Banco Bpm e Popolare di Sondrio sono finite nel mirino di Monte dei Paschi di Siena, UniCredit e Bper. Una guerra per banche con l’obiettivo più grande: Generali.
Milano sotto inchiesta
Il terremoto scatenato dalla Procura (con arresti e dimissioni) per le concessioni urbanistiche del Comune. E poi la sgangherata vicenda di Davide Lacerenza e del suo locale, tra prostituzione, droga e champagne. Così si compie la parabola dell’ex città-vetrina. Come del suo sindaco «smart»...
Mala estetica
Si sono fidate. È stato questo il tragico errore delle ultime vittime degli interventi «di bellezza» praticati da sedicenti medici. E sono solo gli episodi più eclatanti di una tendenza in crescita.
Dina, l’irriverente
Voce originale e potente del panorama artistico contemporaneo, eccentrica e visionaria, Dina Goldstein è regista, scenografa e costumista, oltre che fotografa delle immagini che rappresenta. Scatti forti, sgargianti e provocatori che, con un’ironia portata all’estremo, invitano a riflettere su temi attuali e sui vizi della nostra società. A lei e alla sua arte irriverente Milano dedica la mostra Dina Goldstein - Un’artista tra fiaba e realtà, una monografica dei suoi progetti più celebri allestita alla Fabbrica Eos (viale Pasubio 8/A, fino al 23 marzo) e curata da Patrizia Madau.
Vite di donne tra Hitchcock e Almodóvar
Osservano le persone dalla loro abitazione alla ricerca di uno spunto per un libro. Fino a che un vicino sexy si trasforma in stupratore. Noémie Merlant, attrice e regista, parla con Panorama del suo ultimo film Donne al balcone, che inizia come commedia ma finisce in thriller mozzafiato. E fa una piccante anticipazione: «Interpreterò il remake di Emmanuelle».
TUTTE LE NEWS
La sua figura spicca più che mai, in un presente culturalmente piatto, non solo nella musica. Un libro ci porta ora All’essenza di pensieri, ricordi, piccole grandi illuminazioni dell’artista. Da Dio alla politica, dai colleghi al futuro che tutti ci aspetta.
Le biografie che portano all’essenza. Si chiama proprio così, All’essenza, l’antologia autobiografica di Franco Battiato che esce da Mondadori a cura di Giordano Casiraghi, con l’imprimatur della fondazione dedicata al cantautore siciliano. È il retrobottega di una vita e di un’opera, l’officina dei pensieri e dei ricordi di un cammino non solo musicale; la via dei canti, si potrebbe dire, ma anche le esperienze, gli incontri e i mondi interiori ed esteriori di Battiato. C’è tutto il suo universo spirituale e reale che Casiraghi raccoglie nel collage: non solo pensieri, canzoni e intuizioni, ma anche amore, dolore, ricerca, sesso, cibo, denaro, droga, cinema, educazione, famiglia, infanzia, Sicilia, letture, meditazione della morte, reincarnazione, amicizie, solitudine e silenzio. Sì, infine, Un oceano di silenzio.
«Ritengo di essere musicista di essenza e non di cultura», dice di sé Battiato; i suoi riferimenti culturali, esoterici e sapienziali sono noti ma qui sembra ridimensionarne l’influenza. Quel che conta è l’essenza, a volte anche la magia dell’assenza. Secondo Battiato gli artisti si dividono in due categorie, quelli che seguono i desideri, le mode, le influenze del pubblico, e quelli che invece li determinano; lui appartiene a questa seconda specie. «Le mie canzoni» dice «piacciono a intellettuali e analfabeti, bambini e adulti, perché offrono una doppia chiave di lettura. Per tutti e per nessuno, come diceva Nietzsche del suo Così parlò Zarathustra; in superficie favola, in profondità viaggio nel pensiero cosmico». Il cantautore ammette di essere sempre stato affascinato dall’Oriente, ma un «Oriente occidentalizzato». Il cinghiale bianco, di cui canta, rappresenta, a suo dire, «l’autorità spirituale, il superamento del concetto edonistico della vita, la possibilità di dare corpo all’«inesprimibile». «La canzone che mi rappresenta di più oggi è Le nostre anime, perché tendo all’aldilà, tento di andare all’aldilà». Particolare predilezione ha per La cura: «ha una sua completezza, emozionalità e finezza. È una canzone che ognuno può indirizzare a chi vuole: anche a un padre, a una madre o a un figlio». L’amore non è solo quello di coppia. Ricorda poi che la splendida raccolta di canzoni altrui, Fleurs, a dispetto del titolo, contiene quasi solo canzoni d’amori sfioriti.
Il mondo, dice Battiato, è sempre stato diviso tra credenti e non credenti, e «i non credenti spesso si sono creduti più intelligenti delle persone di fede. Che errore! Gli schiavi che si credono dei padroni fanno pena». Noi viviamo nel magico, nota, solo gli stolti non si accorgono che intorno c’è un intero mondo di magia. «Non comprendo come si possa essere atei». La preghiera per Battiato non è un atto di fede ma un metodo, un esercizio spirituale. Dopo aver girato molti monasteri, nota che i mistici sono «la razza più intelligente che conosca. Sono stato accecato da un raggio mistico. Vivo nel sacro e la mia musica riflette questa dimensione». La reincarnazione per Battiato non è un atto di fede, ma a suo dire «un’intuizione di vita: io credo che siamo sempre esistiti e che il percorso di incarnazione serve per tornare nelle zone da cui veniamo». Una teoria molto personale. Con la cristianità Battiato ha un rapporto di contiguità senza appartenenza; il suo orizzonte è nella visione del sacro, non della fede e dei suoi dogmi. «Ho sempre detestato la parrocchia: ho bisogno di un’indipendenza totale. Non ho il senso dell’appartenenza».
Il cantautore ha parole di simpatia per Papa Francesco però «ha una piccola veduta delle cose spirituali. Non possiamo umanizzare Dio, ma lavorare da pazzi per avvicinarci a lui». Tocca a noi salire verso di lui, non far scendere Dio fino a umanizzarlo. Battiato tocca di striscio la politica, sottolineando la sua estraneità. Non ama il tentativo di catturarlo «a destra»; di Berlusconi detestava l’effetto delle sue televisioni più che la sua discesa in campo. Racconta che Marco Bellocchio gli propose di interpretare Aldo Moro in Buongiorno, notte; ma lui declinò la proposta. Battiato condivise la scelta di Lucio Battisti di allontanarsi dal suo repertorio vincente, così si salvò dal rischio di ripetersi. Ricorda quando a Milano giocava a poker a casa di Giorgio Gaber con Roberto Calasso e sua moglie Fleur Jaeggy. «Il premio, per chi vinceva, erano i libri Adelphi». Poi scelse di vivere in Sicilia, perché «dove si nasce si vuole tornare». «Noi siciliani siamo come dei boomerang che l’isola lancia in giro per il mondo e che poi, per una meccanica che è nella nostra indole, rientrano».
Ha vissuto da solo a Milo, vicino a Catania, tra la montagna e il mare, in una mezza clausura. «Ma è una vita stupenda e dai ritmi magnifici». Il fascino della sua musica e delle sue parole è che ci porta nell’altrove; in quell’altrove, magico e mistico, dove è possibile trovare la chiave della vita e ciò che la trascende, la luce dell’Essere o per immaginare altri mondi e sognare altre dimensioni, altri destini. E a fianco a questo cammino, la dolcezza dei ricordi e la magia dell’infanzia come in Mesopotamia: «Lo sai che più s’invecchia /Più affiorano ricordi lontanissimi». La sua carriera, dice, è stata felice e fortunata. Non mi sono mai lamentato, né mai mi sono sentito incompreso. In sintesi, sono contento della vita che ho fatto. Sono stato molto fortunato. Questa è la conclusione». Ma provvisoria. Perché, come lui canta, e pensa, «noi torneremo ancora, e ancora».
Nel 2024 è successo, a proposito delle forze dell’ordine, qualcosa che non vedevamo da anni e che ci deve far riflettere anche in questo 2025 dove, per ora, la situazione si presenta decisamente meno grave. Comunque quello che è successo nel 2024 deve essere un monito per il futuro, da vari punti di vista. Gli agenti feriti nel corso dei cortei di protesta svoltisi l’anno scorso sono stati 273, più del doppio del 2023. Del resto, chiunque avesse seguito la cronaca mese per mese, non si sarebbe meravigliato, a fine anno, a leggere questi numeri.
Perché a ogni manifestazione, quando per il cambiamento climatico, quando pro-Pal, quando contro i poliziotti che avevano usato il manganello contro manifestanti che avevano sfondato volontariamente il cordone di sicurezza all’Università di Pisa, quando, infine, per il caso Ramy, a ognuna di queste manifestazioni, cortei, picchetti, blocco delle strade e delle autostrade accadeva che i manifestanti, o la parte più riottosa di essi e violenta, non rispettasse le regole, varcasse i confini imposti dalla sicurezza, svolgesse manifestazioni non autorizzate.
Ricorderete tutti che, da un certo punto in poi, le proteste, compresi gli assalti alle caserme, sono diventati il contenuto fondamentale delle manifestazioni stesse. Quel +127 per cento di agenti delle forze dell’ordine feriti, per buona parte, sono stati colpiti perché erano l’obiettivo, non perché facessero il loro mestiere. Erano il bersaglio prescelto.
Nel 2024, secondo il ministero dell’Interno, si sono svolte 12.302 manifestazioni, quasi il dieci per cento in più dell’anno precedente, con relativi episodi di violenza, come detto sopra. Ricorderete che si era sviluppato (ma a volte ancora ritorna) un dibattito sbilanciato in cui, spesso, la difesa delle forze dell’ordine ha lasciato il campo a una malcelata difesa dei protestanti e, anche se non esplicitamente, al loro diritto di manifestare senza l’uso del manganello anche quando violavano palesemente la legge commettendo reati.
Si fa presto, troppo presto, soprattutto nel mondo dei social, a dimenticare la violenza di quel dibattito e la timidezza di molti, anche nelle più alte cariche istituzionali, a condannare non l’azione di questi teppisti ma la difesa della libertà di tutti noi operata dalle forze dell’ordine.
Potrebbe sembrare tardivo e fuori luogo parlarne oggi e invece lo riteniamo necessario e doveroso perché, Dio non voglia che accada qualcosa di simile, ci ritroveremo nelle stesse identiche situazioni. E arriviamo al punto.
Qual è l’idea, la cultura che sottostà a coloro che manifestano contro le regole dell’ordine pubblico occupando case, mettendo a ferro e fuoco quartieri, usando violenza anche contro le persone più deboli? La risposta è semplice. Queste persone ragionano così: «Quello che io ritengo giusto fare è legittimo che io lo faccia indipendentemente da tutto e da tutti, regole comprese». E sia ben chiaro che chi asseconda, ovviamente alla maniera del coniglio, cioè senza dirlo esplicitamente ma mantenendosi nel vago, le azioni di coloro che la pensano così, assecondano conseguentemente anche il pensiero che ci sta dietro.
Se si trattasse di uno scontro ideale all’interno del perimetro della legalità non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma qui il caso è diverso: quel ragionamento va contro lo Stato di diritto.
Infatti, esso prevede che ognuno possa conservare ed esprimere le proprie opinioni mantenendosi rispettoso dell’ambito dei diritti di ognuno e dei relativi doveri. Se no è il caos. E l’anno passato, non lo dimentichiamo, questo caos lo abbiamo sfiorato e, in alcuni momenti, ci siamo passati come al circo si passa attraverso l’anello di fuoco, purtroppo ne hanno fatto le spese le forze dell’ordine.
È della settimana scorsa la notizia di una perizia corposa ordinata dai pm di Milano sul caso Ramy Elgaml. In sostanza, essa sostiene che l’inseguimento fu fatto seguendo le regole d’ingaggio. La morte di un giovane, comunque essa avvenga, e da qualsiasi motivo sia provocata, è una tragedia. Ma questo non avrebbe dovuto consentire, anche ad alcune forze politiche, di mettere in dubbio, quando le indagini erano ancora in corso, come lo sono, il comportamento in generale delle forze dell’ordine a partire da un eventuale non provato errore in quel caso. Chi soffia sul fuoco magari non si brucia, ma dà certamente forza e vigore ad un incendio che può fare molto male agli altri. n
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Com’è austera via Napo Torriani di sera. Alberghi anonimi, ristoranti a buon mercato, negozi di cianfrusaglie cinesi, centri benessere. La Milano più caricaturale, dunque autentica, si trovava ogni notte nel mezzo del cammin di questa via, che parte dalla Stazione centrale e arriva in piazza Cincinnato, il console romano che scelse una vita onesta e disinteressata. Davidone Lacerenza, il «king» delle notti meneghine, optò invece per un’esistenza mascalzonesca e profittevole. La Gintoneria era il suo regno: champagne da sciabolare, Ferrari rossa a vista, i vitelloni che «fanno ballare la fresca». L’hanno arrestato per una sfilza di reati, riassumibili nel grido di battaglia: coca e mignotte, tutta la notte. Assieme a lui, è finita ai domiciliari pure Stefania Nobile, figliola dell’indimenticata teleimbonitrice Wanna, già compagna di vita e poi d’affari del real Davidone, ex venditore di frutta diventato sovrano dei social e del divertimento.
Due giorni dopo, viene arrestato Giovanni Oggioni, un ex dirigente del Comune di Milano. Non si fa certo ritrarre con il frustino tra i denti, per riecheggiare le escort chiamate cavalli, come l’autoproclamato re. Tutt’altro. È un distinto 73enne: loden scuro, cravatte severe, modi garbati. Avrebbe agevolato pratiche urbanistiche per costruire palazzoni senza autorizzazione. Sarebbe arrivato, accusano i magistrati, persino a scrivere la «Salva Milano», legge che doveva anestetizzare le inchieste sugli abusi edilizi. Storiaccia. Ha convinto il sindaco, Beppe Sala, a far dimettere l’assessore all’Urbanistica, Guido Bardelli, scelto appena qualche mese fa.
Certo: i pregiati champagne, usati anche per lavare i cerchioni del «Ferro», non hanno nulla a che vedere con le disinvolte Scia, abusate certificazioni edilizie. Eppure, le due inchieste rivelerebbero la stessa ossessione: i soldi, i danè, la fresca. A Milano si contano in «kappa». È l’unità di misura nella defunta capitale morale. Chi non la maneggia, è perduto. La città che tutti incantava fa ormai notizia solo per le sue brutture: roboanti arresti, sconsiderati grattacieli, costi esorbitanti, violenze seriali, degrado diffuso, ronde anti maranza.
La nuova Mani pulite, trent’anni dopo, riparte da quei palazzoni tirati su con una semplice comunicazione di inizio lavori, al posto della concessione edilizia. Si può innalzare una torre di 27 metri dentro un cortile: come in piazza Aspromonte. O un grattacielo di 82 metri al posto di un palazzotto di tre piani: vedi via Stresa. E torri al posto di due capannoni: via Crescenzago insegna. Fioccano quindi gli indagati: costruttori, architetti, funzionari comunali. Tutti indispettiti dagli zelanti ecomanettari. Impediscono lo sviluppo. Armeggiano norme desuete. Giù le mani dai samaritani che vogliono riqualificare Milano. Le case sono le più care d’Italia? Cinquemila euro al metro quadro in periferia? È il prezzo del progresso. I miserabili emigrino pure nell’hinterland. Ma non s’azzardino a prendere l’auto, per raggiungere il capoluogo lombardo. Altrimenti, si preparino a pagare le gabelle turboecologiste volute da Sala. Per abbattere l’inquinamento, invece, cosa c’è di meglio che cementificare?
Le intercettazioni sull’urbanistica alla meneghina, dopo un anno passato a ripetere che quelle dei pm erano solo ubbie investigative, sono eloquentissime: «Che cazzo, è una roba che grida vendetta! Obiettivamente, cioè, com’è possibile?» si sfoga al telefono l’architetto Marco Engel, che guida la sezione lombarda dell’Istituto nazionale di urbanistica. Due casette trasformate in grattacieli, con vista sul parco. «Abbiamo distorto la norma in maniera che un intervento di questa dimensione possa essere di ristrutturazione con scia» dice all’ex presidente della commissione Paesaggio del comune, Marco Prusicki. «Abbiamo sbagliato. È chiaro che se un magistrato vede una roba così dice: “Ma non è possibile”. Come fai a spiegarglielo? O meglio: come fai a convincerlo?». Impossibile, appunto. Engel aggiunge: «È successo solo a Milano. Io ho provato a chiedere in giro a quelli che conosco... Nessuno si sarebbe fidato, neanche con il permesso di costruire, a lasciar fare le torri di Crescenzago». Insomma, imperava il «chi se ne fotte». Eppure, Sala e compagni hanno fatto credere a tutti che la legge «Salva Milano» fosse buona e giusta. Un baluardo che avrebbe fermato gli antistorici pm.
Non ci sono solo i palazzoni tirati su in deroga alle leggi. Due mesi fa, la procura ha chiesto gli arresti domiciliari anche per la più venerata delle archistar: Stefano Boeri, padre del Bosco Verticale, simbolo della nuova Milano. È accusato, assieme al collega Cino Zucchi, di turbativa d’asta e falso nell’inchiesta sul concorso per il progetto della Biblioteca europea di informazione e cultura. Insomma, avrebbero favorito gli amici degli amici. Il gip ha negato gli arresti, ma gli ha vietato per un anno di giudicare nei concorsi pubblici, vista la «spregiudicatezza» e l’«indifferenza» per le regole che avrebbero dimostrato.
L’argomento, comunque, non sembra assillare il sindaco. L’unica sua ossessione, piuttosto, è la crociata verde: Area c, ciclabili, divieto di fumo all’aperto. Altro che criminalità. Eppure, gli stremati milanesi l’hanno ormai rinominato «Salah»: lassista bendisposto verso immigrazione e moschee. L’ultimo indice della criminalità, stilato sul numero di denunce, regala ancora una volta l’inarrivabile primato: città meno sicura d’Italia. A partire da furti e rapine. E gli stranieri, rivelano i dati ufficiali, sono responsabili proprio dell’80 per cento di quei reati. «C’è un’evidente campagna politico-mediatica contro Milano» si difende Sala. Colpa dei talk show retequattristi, che fanno vedere unicamente il marcio. Del resto, il sindaco coi calzini arcobaleno non ha mai nascosto la sua audace teoria: è solo «percezione». Persino dopo le aggressioni di capodanno in piazza Duomo, dove alcune donne sono state molestate da stranieri, promette vagamente: «La sicurezza è un diritto». Salvo poi aggiungere: «Non si può attribuire tutto al tema immigrazione, la destra soffia sul fuoco da sempre».
L’opposizione chiede alla giunta di dimettersi per gli arresti sull’urbanistica? Lui, ancora una volta, svelena ideologicamente: «Mi batterò con tutte le mie forze perché Milano non vada in mano a questa destra con connotazioni fasciste». Sala, purtroppo, non potrà ricandidarsi. È già al secondo mandato. Potrebbe però puntare, nel 2028, alla Lombardia. Solo che lo detestano persino i suoi, a partire dalla segretaria del Pd, Elly Schlein. Fa niente. L’autostima resta notevole: «Ho tanti interessi nella vita. Dopo 11 anni di politica, però, ti viene naturale pensare che continui a dare qualcosa di più». Tra le massime aspirazioni hobbistiche, invece, c’è quella di diventare «il mago del gin tonic» casalingo.
Torniamo in via Torriani, allora. La Gintoneria è oscurata da tende nere. Dalle vetrate s’intravede solo qualche calice vuoto. Da qui, sono passati tutti: vippame, giornalisti, politici. Chi sarà il prossimo sputtanato? «Trema la Milano bene» scrivono fiduciosi siti e quotidiani. Con il bene, in quest’universo capovolto, s’intende ormai solo una certa disponibilità economica. Quanto a valori e attitudini, meglio soprassedere. Qualche anno fa, lo scandalo furono le feste a Terrazza Sentimento, il superattico con vista sul Duomo di Alberto Maria Genovese, l’imprenditore milionario poi condannato per violenza sessuale. Anche quella volta: bamba, champagne e festini.
La fidanzata di Lacerenza, imbolsito 59enne, è poco più che maggiorenne. Ha un altisonante doppio cognome da sciuretta: «Davide non è Pablo Escobar» giura. Anche gli amici dissipatori e le pulzelle disinibite lo difendono: «Succede lo stesso in ogni locale». Coca e mignotte, tutta la notte. Così, riemerge dal passato pure Fabrizio Corona. L’ex re dei paparazzi, nonostante i dieci anni in carcere, resta una leggenda cittadina.
Dopo aver infierito sui patemi degli ex Ferragnez, premiati da Sala con la massima onorificenza milanese «nel segno di un autentico spirito ambrosiano», s’è fiondato sulle disgrazie di Davidone, randellato a colpi di esclusive. La più scoppiettante è un blitz ai domiciliari. Fabrizio, da sotto la finestra, gli chiede: «Ma perché facevi quelle robe lì?». E Davidone, lo sventurato, giustamente rispose: «Vieni qui a farmi la morale?».
Dovrebbero essere gli italiani a scioperare contro la magistratura. Perché non sopportiamo più i loro errori (marchiani) e i privilegi (palesi) di una casta che pensa di essere sempre al di sopra della giustizia che non è in grado di cambiare.
Ma che giustizia è quella che a 25 anni da un delitto non è in grado di stabilire se qualcuno è colpevole o innocente? Come si può parlare di giustizia se a dieci anni dalla condanna definitiva per omicidio di una giovane, e dunque dopo che un «colpevole» ha trascorso 3.368 giorni dietro le sbarre, i magistrati riaprono il caso e indagano per lo stesso assassinio un’altra persona? Credo che tutti, nei giorni scorsi, si siano posti queste domande. La decisione della Cassazione di annullare la sentenza di assoluzione dell’ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce, della moglie e del figlio, accusati a vario titolo di aver ucciso e occultato il corpo di Serena Mollicone, una ragazza di 18 anni sparita per giorni e poi ritrovata cadavere ai margini di una strada, ha infatti riaperto il caso. Per individuare i responsabili non sono bastati gli esami del Dna su centinaia di persone, l’arresto di un presunto testimone (un carrozziere che passò un anno e sette mesi in carcere prima di essere scagionato), la riesumazione del cadavere, due autopsie, accertamenti tecnici a più riprese sulla salma, sul nastro adesivo con cui venne legata la giovane, sulla vernice e la colla delle porte della caserma dei carabinieri.
Dopo due assoluzioni, in primo e secondo grado, i giudici della suprema Corte hanno deciso di celebrare di nuovo il processo e di far tornare a sedere sul banco degli imputati il maresciallo che svolse le indagini, la moglie e il figlio, il quale conosceva molto bene Serena Mollicone. Dimenticavo: a vario titolo, nel corso dell’inchiesta sono stati indagati diversi militari dell’Arma, che avrebbero saputo del delitto e avrebbero taciuto. Uno solo parlò, raccontando di aver visto entrare in caserma una ragazza con le stesse sembianze della vittima. Ma poi, quello stesso carabiniere, forse per le pressioni subite ritrattò, salvo poi confermare di nuovo e infine suicidarsi. Certo, la vicenda è intricata. Probabilmente ci sono stati depistaggi e forse addirittura sono sparite delle prove. Ma può la giustizia continuare a rimpallare accuse e assoluzioni senza riuscire a sciogliere il mistero di chi ha ucciso una ragazza di 18 anni che forse in quella caserma era entrata per denunciare il figlio del comandante, sospettato di spacciare droga? Venticinque anni e un’infinità di indagini non sono sufficienti a stabilire se ci sono elementi per assolvere o condannare?
Forse ancor più grave è quello che ci siamo abituati a chiamare «il delitto di Garlasco». Una ragazza, Chiara Poggi, viene uccisa nella villetta in cui abita con i genitori, i quali sono in vacanza con il fratello. Le indagini prendono subito una brutta piega, perché forse non tutti gli accertamenti vengono eseguiti. Si sospetta di tanti, ma in particolare del fidanzato, che però era a casa sua davanti al computer, a preparare la tesi. Un assassino dovrebbe per forza essersi sporcato di sangue le scarpe, ma Alberto Stasi, il ragazzo legato a Chiara, le scarpe le ha pulite e questo diventa un argomento a carico, perché si pensa che abbia gettato le sneaker macchiate, peraltro introvabili. C’è un primo processo e il gip assolve l’imputato. In appello, altra assoluzione. Ma poi arriva la Cassazione che annulla tutto e si ricomincia. Questa volta il giudizio è ribaltato: colpevole, e la sentenza quando arriva davanti ai giudici della suprema Corte è confermata.
Il 15 dicembre del 2015 per Alberto Stasi, che continua a proclamarsi innocente, si spalancano le porte del carcere. Ma l’11 marzo del 2025, quando l’ex fidanzato di Chiara ha quasi finito di scontare la sua pena, la procura si convince che le indagini siano state mal condotte e riapre il caso indagando per concorso in omicidio un’altra persona, in seguito ad alcuni frammenti di Dna trovati sotto le unghie della vittima. Si tratta di una nuova prova, scovata da inquirenti che non si sono arresi? No, è una prova vecchia, che però all’epoca fu sottovalutata. Così, 18 anni dopo il delitto di Chiara, c’è un colpevole apparentemente certo perché una sentenza definitiva lo ha definito tale, un colpevole presunto perché per ora a suo carico ci sono solo indagini, e un fallimento della giustizia, che dopo dieci anni si pente e ritiene di aver messo in carcere il colpevole sbagliato.
Pensate che quelli di Arce e di Garlasco siano casi limite? No. Qualche settimana fa ho pubblicato le statistiche degli errori giudiziari e, a scorrerle, si capisce che non si tratta di eccezioni. Da Beniamino Zuncheddu a Giuseppe Gullotta, da Stefano Binda a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, la storia di inchieste finite male, con l’arresto di innocenti e non dei veri colpevoli è lunga. Ma anche senza andare indietro nel tempo, prendete altri due casi di cronaca assai recenti. È possibile che dopo tre anni di indagini si scopra che Liliana Resinovich non si è suicidata, chiudendosi da sola in un sacco e occultandosi in un bosco, ma sia stata picchiata e uccisa? Ma chi le ha fatte le indagini? E poi c’è il caso di Luca Canfora, sceneggiatore che ha lavorato all’ultimo film di Paolo Sorrentino (Panorama ne ha parlato mesi fa): il cadavere è stato rinvenuto in mare, a Capri, e la sua morte è stata archiviata come suicidio. Si sarebbe lanciato dalla scogliera, ma il corpo non presenta le fratture che ci si aspetterebbe in una persona che è caduta sulla roccia. E allora? Si riesuma il cadavere, riaprendo le indagini.
Pm e giudici sono preoccupati per la separazione delle carriere e minacciano scioperi e proteste in tutta Italia: sostengono che, dividendo il percorso della magistratura requirente da quella giudicante, si vogliono mettere le procure sotto il controllo della politica. Non starò a ricordare che cosa penso della separazione delle toghe e della riforma del ministro Carlo Nordio. Propongo solo una cosa: e se a scioperare contro lo sfacelo della giustizia che ho appena tratteggiato fossero gli italiani? Se fossimo noi a dire che non sopportiamo più gli errori (marchiani) e i privilegi (palesi) di una casta che pensa di essere sempre al di sopra della giustizia e non è in grado di cambiare? Pensateci. Il mondo dell’industria, della scuola, della sanità e della politica è cambiato. La sola cosa che negli ultimi trent’anni non è cambiata, è la magistratura. Non vi sembra l’ora di voltare pagina?
La nostra esistenza ha tante dimensioni: corporale, naturale, lavorativa, affettiva, sociale, intellettuale, spirituale. E va fatto un «check up»: per non trascurarne nessuna.
A causa di un incidente annuale, di natura personale e universale, chiamato compleanno, ho avuto di recente brevi conversazioni e scambi di messaggi sulla vita che passa e il suo senso. È un incidente inevitabile, il compleanno, ma non compierlo è decisamente peggio, come ben sappiamo. Più gli anni passano e più s’impreca con gratitudine... Pur nella sua banale contabilità è un’occasione nella fuga dei giorni e degli anni per ripensare la vita e il suo destino. Ogni uomo dispone di sette vite ma non sono quelle proverbiali che si attribuiscono ai gatti e che vengono una dopo l’altra. Le vite a cui mi riferisco sono simultanee e insieme formano la nostra esistenza; sono i sette raggi che formano la ruota dell’esistenza. Le sette vite davanti a noi sono nell’ordine: la vita corporale, la vita naturale, la vita lavorativa, la vita affettiva, la vita sociale, la vita intellettuale, la vita spirituale. La vita corporale è la vita biologica per antonomasia. La vita come bisogno, come salute, come fame, sete, sesso, sensi. Vita necessaria ma non sufficiente se siamo uomini e non bruti. Strettamente connessa alla vita corporale ma con uno sguardo fuori di sé è la vita naturale, immessi nel mondo, a partire da ciò che ci circonda. La natura come terra, cielo, mare, campagna, pietre, piante, animali e sole, vento, pioggia. La natura è il nostro habitat e il nostro limite, l’ordine primario in cui siamo inseriti; la natura è tutto quel che non nasce da noi ma di cui pure abbiamo bisogno. La vita lavorativa è invece la vita attiva in cui ci procacciamo da vivere, che ci nobilita nello sforzo, ci rende utili agli altri e plasma le circostanze. La vita lavorativa è la vita come dovere e come diritto, che ci impegna a dare per ricevere,è la vita come fatica e nei casi migliori come piacere di realizzarsi.
Connessa alla vita lavorativa è la vita sociale, ossia la relazione con gli altri, a partire dai compaesani o concittadini, ovvero i conterranei, i compatrioti, e per altri versi i contemporanei. La vita di relazione è da un verso la dimensione interpersonale di scambio in cui la sfera privata interagisce con la sfera pubblica; e dall’altro dimensione comunitaria, quando cioè la società non è semplicemente uno stare insieme, avere spazi e interessi comuni, ma è anche un sentirsi parte di uno stesso gruppo, partecipare a un’identità comune, un’origine e un orizzonte condiviso; se la società è un ambito neutro e freddo, la comunità è un insieme caldo, riferito a comuni valori o principi; sfera naturale, selettiva ed elettiva di appartenenza.La vita affettiva segna il passaggio decisivo verso la cura degli altri; è lo slancio che nasce dal sentimento e ci proietta fuori di noi, a partire da chi avvertiamo come più vicino e dunque più caro: i genitori, i figli, i fratelli, in generale i famigliari, la persona amata, gli amici. Una vita priva di affetti è una vita dimezzata, svuotata di energie e di emozioni. Nella vita affettiva l’amore si fa legame, attenzione e premura verso persone di cui senti la gioia della presenza e il piacere della loro prossimità; o di cui avverti il vuoto, la mancanza, quando sono assenti o perduti.
La vita intellettuale è propriamente la vita interiore, o la vita della mente; non attiene solo a chi svolge un’attività di studio ma in varia misura e profondità a tutti gli esseri pensanti. La vita della mente è la vita interiore, dei pensieri e della memoria, dei ricordi e delle aspettative, che fa tesoro delle esperienze e delle eredità; è la vita della coscienza, la vita che riflette, intuisce, crede, si orienta sulla base di principi, valori, modelli, senso critico. Infine, connessa alle due vite precedenti, è la vita spirituale che è poi il faro dell’esistenza, il punto di osservazione più alto che scruta lontano, illumina nel buio, indica la rotta e consente i ritorni. La vita spirituale è la vita dell’anima, il punto di raccolta di sentimento e pensiero in una sintesi superiore che si affaccia oltre la morte; è il punto supremo della nostra vita e al tempo stesso il ponte per trascenderla, cioè per andare oltre la dimensione personale dell’esistenza.
Le sette vite insieme costituiscono l’intera nostra vita; nessuna singola dimensione basta alla vita: ciascuna ha bisogno dell’altra, anzi ognuna ha bisogno di tutte le altre vite per compiersi e per sviluppare organicamente la vita armoniosa. Ci sono sfere di vita necessarie, altre importanti o significative; ma nessuna da sola è sufficiente. Se a una vita manca qualcuna delle sette vite è monca, carente; quando la mancanza riguarda le dimensioni più alte è una vita insensata, che cade nel vuoto.Una parte crescente di queste sette vite rischia di atrofizzarsi per il disuso o il vivere ottuso. È il pericolo estremo della nostra vita e coincide con la disumanizzazione o la sostituzione dell’umano. Necessario è tener vivi dentro di noi la percezione della realtà, il senso di appartenenza alla natura, il senso attivo della relazione col mondo a partire da chi ci è più vicino; i legami affettivi e lavorativi, sociali e comunitari, il senso della civiltà, dell’umanità e della responsabilità; la vita del cuore e della mente. Insomma possiamo cercare di mettere a frutto quel banale anniversario che è il compleanno per compiere un check up (o forse un check in) alla nostra vita nei suoi sette raggi, verificando che siano tutti attivi, non inerti. E unire l’origine al destino, compiendo il cerchio dell’esistenza
L’organo cruciale che decide carriere e destini dei magistrati è interessato dal progetto di revisione complessiva a cui lavora il Guardasigilli Carlo Nordio. L’esperto del settore Maurizio Catino esprime forti dubbi sulla possibilità di un rinnovamento. Ecco perché
La seguente riflessione del giurista e padre fondatore della Costituzione, Pietro Calamandrei, andrebbe posta nei tribunali accanto alla nota «La legge è uguale per tutti». Disse il grande fiorentino: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Quasi una nemesi per le toghe indignate dalla riforma messa in piedi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio - separazione delle carriere, due Csm eletti per sorteggio - che hanno affidato, durante il loro inusitato sciopero con la Costituzione innalzata come vessillo di lotta, ad Antonio Albanese, alias Cetto Laqualunque parodia del politico cinico e baro oltreché protervo e ignorante, la lettura di brani tratti dagli scritti di questo insigne uomo di legge, resistente, fondatore del Partito d’Azione. Tra le carte di Calamandrei però non hanno scovato quest’altro passaggio che spiega perché in un recente sondaggio di Tecnè - è del 4 febbraio scorso - il 50 per cento degli italiani dice di non avere fiducia nei magistrati. E nel confronto Giorgia Meloni-Cesare Parodi, il neopresidente dell’Associazione nazionale magistrati, il 42 per cento sta col governo, il 39 per cento con le toghe.
«Al giudice» sentenziava Calamandrei «occorre più coraggio a essere giusto apparendo ingiusto, che a essere ingiusto apparendo giusto». Un’altra sondaggista, Alessandra Ghisleri, ha spiegato un mese fa che gli italiani di fronte a casi - per citarne due - come quelli del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, in galera da innocente per 32 anni, e dell’ex senatore Stefano Esposito - inquisito per sette anni, intercettato cinquecento volte, poi archiviato - pensano di non potersi difendere. Bisogna affidarsi ai numeri: dal 1991 al 2022 ci sono stati 30 mila errori giudiziari, ogni anno finiscono in carcere mille innocenti. Nel 2024 lo Stato ha pagato quasi 30 milioni di euro per ingiusta detenzione - come ha scritto Antonio Rossitto sullo scorso numero di Panorama - in trent’anni circa un miliardo. Ma che succede ai magistrati che sbagliano? Dal 2017 al 2024 su 89 azioni per ingiuste detenzioni ci sono stati solo otto casi di censura, un solo trasferimento come unica è l’azione di rivalsa dei danni pagati dallo Stato contro una toga colta in fallo. Stando così le cose la faccenda diventa fenomeno sociale.
Non a caso l’ha indagata il professor Maurizio Catino, ordinario di Sociologia dell’organizzazione all’Università di Milano-Bicocca, che l’ha riassunta nel suo saggio Trovare il colpevole, la costruzione del capo espiatorio nelle organizzazioni (Edizioni Il Mulino). «Non è un legal thriller, parte da uno sconquasso giudiziario: il caso Palamara. Con la mia collega dell’università di Bologna Cristina Dallara» spiega il professore, «abbiamo studiato norme e prassi nel Consiglio superiore della magistratura, che per noi sono le regole dell’apprendimento imperfetto. Mi sono interrogato se il fenomeno del magistrato che decideva le carriere fosse un’anomalia o segnalasse una prassi. Su questo “affaire” c’è stato un esercizio corale di grande ipocrisia e si è creata per lui la figura del capro espiatorio organizzativo».
Viene da obiettare che Luca Palamara era però presidente dell’Anm e autorevolissimo componente del Csm, dunque tanto capro espiatorio non pare.
«Giusto, se però intendiamo la definizione classica: cioè l’innocente che viene sacrificato» riflette Catino. «Diversamente io lo definisco “organizzativo” perché Palamara ha la responsabilità del sistema, è un capro espiatorio colpevole, ma il sistema lo è con lui o attraverso di lui. E viene da domandarsi se Palamara sia la causa o l’effetto di quello che è stato chiamato lo scandalo di Palazzo Bachelet (qui, a Roma, nel già Palazzo dei Marescialli, ha sede appunto il Csm, ndr)». Prosegue il docente della Bicocca: «È un fenomeno noto a chi studia le organizzazioni complesse - si tratta del formarsi della prassi extralegale che tende a sostituirsi alla prassi legale quando questa si “ossifica”, si sclerotizza. Nella magistratura è successo così. Le correnti dell’Associazione nazionale magistrati hanno finito per diventare il luogo di cooptazione di chi deve ricoprire incarichi direttivi. Agli albori le correnti erano espressione di culture giuridiche differenti che si confrontano, l’Anm - che non ha alcuna veste istituzionale - era il luogo di rappresentanza di queste istanze. Quando i criteri di selezione “legale” sono diventati farraginosi questa organizzazione della categoria è diventata l’ufficio di collocamento. Palamara era il terminale efficientissimo del sistema. La cosa grave è che anche dopo quello scandalo il sistema non è stato capace di emendarsi».
Il professor Catino fissa il quando, il come e il perché dell’affermazione del sistema extralegale.
«Tutto parte Dalla riforma iniziata da Roberto Castelli con il governo guidato da Silvio Berlusconi nel 2006 e proseguita da Clemente Mastella, nel 2007 con l’esecutivo di Romano Prodi. Una riforma che è costata a Mastella un ruvido trattamento giudiziario. L’idea era di introdurre un criterio di selezione meritocratica per gli avanzamenti di carriera che fino a quel momento erano basati sul mero criterio di anzianità. Si ricorderà un famoso articolo di Leonardo Sciascia contro la nomina di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala perché avveniva senza il criterio dell’anzianità. Sciascia non ce l’aveva con Borsellino, ma voleva segnalare l’arretratezza di quel sistema. Mastella mette in capo alla V commissione del Csm che è composta da solo sei magistrati la selezione dei curricula. Un’opera impossibile per la mole di dati da verificare. Così le correnti diventano il luogo di selezione e la Commissione assume una mera funzione notarile. Per gran parte delle nomine si procede a pacchetto: cioè si spartiscono i posti tra le correnti, ma ci sono dieci Procure tra cui Milano, Roma e le due Procure che controllano i magistrati di queste sedi e cioè Brescia e Perugia che si fanno di concerto con degli stakeholder: politici, rappresentanti dell’economia, perfino la segreteria del Quirinale viene discretamente consultata. Lo scandalo Palamara assume così una sua fisiologia che è indice della patologia del sistema».
E l’indipendenza della magistratura?
«Parliamoci chiaro: se io devo decidere sull’Ilva di Taranto o su una grande banca ho un forte impatto sulla società. Dunque essere un magistrato in sintonia con la società civile di per sé non è sbagliato. È sbagliato che non lo si faccia alla luce del sole, che non sia una prassi trasparente a queste nomine. Semmai è la politica che ha arretrato davanti alla magistratura. Questa ritirata ha reso il sistema correntizio e dunque l’Anm titolare del potere sui giudici; nel Csm il compromesso con i membri laci alla fine i togati lo devono trovare così per assicurare protezione ai magistrati che quasi mai vengono sanzionati».
La riforma Nordio è avversata anche per questo?
«Il progetto di riordino non tocca le carriere dei magistrati, le separa, ma le nomine si faranno sempre nello stesso modo. Anche i due Csm sorteggiati non risolvono il problema. Bisognerebbe introdurre criteri di selezione diversi che la cultura solo giuridica e dunque affezionata alla iper-normazione del Csm non consente».
La conclusione?
«Una sola» sospira il professor Catino, «il sistema giudiziario, almeno sotto questo profilo, è inemendabile».
TUTTE LE NEWS DI POLITICA
Pensate alla torbida faida di casa Agnelli: madri contro figli, figli contro madri, mamma Margherita che accusa il figlio Jaki di evasione, il figlio Jaki che accusa mamma Margherita di maltrattamenti, una danza cinica e spietata attorno all’eredità, quadri spariti, tesori nei paradisi fiscali, gioielli preziosi che sfuggono all’erario, compresi un paio di orecchini che da soli valgono 78 milioni di euro (si capisce: se uno eredita un paio di orecchini da 78 milioni di euro, qual è la prima cosa che pensa? Come non pagare le tasse...). E tutto questo sfoggio di avidità mentre le fabbriche italiane della ex Fiat si spengono lasciando gli operai in mezzo alla strada.
Oppure pensate ai Del Vecchio: da tre anni non riescono a mettersi d’accordo sull’eredità del vecchio Leonardo. E si detestano a tal punto che, secondo le inchieste, uno di loro avrebbe fatto ricorso agli spioni illegali per controllare i fratelli (con corredo di polpette avvelenate e membri della famiglia accusati ingiustamente di frequentare criminali sessuali). Oppure pensate ai De Benedetti con padre e figli che si scontrano fra di loro all’arma bianca in una specie di guerra dei Roses della carta stampata, che nel frattempo è diventata carta straccia. Oppure pensate ai Benetton, alla famiglia che insegnava al mondo etica e solidarietà, ed è precipitata nell’infamia, con quelle feste a Cortina celebrate senza ritegno dopo la tragedia del ponte Morandi, mangiando e bevendo su 43 cadaveri ancora caldi. Pensate a loro che, come dicono i manager nelle telefonate che stanno agli atti dell’inchiesta: «Non capiscono un cazzo, sono indegni, vogliono solo i soldi. E pensano ai cazzi loro».
Pensate a tutto questo e siete entrati dentro Dynasty: il libro che racconta il crollo delle nostre élite economiche. Un viaggio tra ori e orrori, fra parenti e serpenti, il dietro le quinte dei poteri marci (copyright Dagospia). La prima inchiesta sul disfacimento delle grandi famiglie del capitalismo italiano.
Negli anni Ottanta, quando ho iniziato questo mestiere, quelle famiglie erano al massimo del loro splendore: si celebrava allora l’epopea dell’Avvocato, dell’Ingegnere, delCavaliere e del Contadino, con copertine patinate e interi filoni editoriali a loro dedicati, a cominciare dal libro simbolo di quella stagione Dinastie di Enzo Biagi. Li chiamavano i condottieri. Ma dove ci hanno condotto questi condottieri? Fateci caso: oggi quelle dinastie si stanno sgretolando davanti ai nostri occhi.
Nel momento del passaggio generazionale, se si esclude il caso del Cavaliere (ed è un paradosso: in vita è stato il più attaccato sul piano morale e personale ma è stato l’unico in grado di gestire senza scandalo l’eredità), tutte le altre casate delle nobiltà economica italiana sono precipitate in un abisso di liti e vizi, ripicche e colpi bassi, pubbliche vergogne e private avidità, che hanno devastato la loro storia e il nostro Paese.
Tramonto al caviale
Sono ancora tutti ricchissimi. Ma non è più una ricchezza che rende prospero il Paese, che lo aiuta a crescere, a diventare grande. Al contrario: è una ricchezza che si accumula sulle macerie dell’Italia, sulle fabbriche in crisi, sui negozi in dismissione, sugli operai in cassa integrazione. La produzione di auto dell’ex Fiat è scesa ai livelli del 1956. Le rivendite Benetton muoiono una dopo l’altra. Dell’impero De Benedetti sono rimaste solo le cliniche e poco altro. Le famiglie che dovevano far volare il Paese hanno fatto volare solo le loro liti e le loro vergogne. I loro guadagni e gli yacht alle Cayman. L’unico gruppo che continua a crescere è quello targato Del Vecchio. Ma solo perché è gestito dai manager mentregli eredi da tre anni spendono tutte le energie a farsi la guerra tra di loro senza aver ancora accettato l’eredità.
L’Italia è sul viale del tramonto, loro sul caviale del tramonto. Non sono mai stati così pieni di soldi e così poveri di dignità. Ed è terribile che questo degrado morale venga messo tutto in piazza. La piccineria esibita, spiattellata in pubblico, nei tribunali, sui giornali. Padri e nonni dei rampolli d’oro avevano vizi, ma per lo meno non li esibivano così. L’avvocato Agnelli riusciva a tenere gli scandali sotto silenzio, invece dei festini coca&trans di Lapo si sa ogni dettaglio così come delle liti fra Margherita e Jaki.
Quando Leonardo Del Vecchio è diventato il primo contribuente italiano nessuno sapeva chi fosse: era così sconosciuto che alla Rai sbagliarono il nome. Suo figlio Leonardo Maria, invece, non ha ancora combinato nulla ma è tutti i giorni sui giornali con il suo shopping compulsivo che l’ha portato negli ultimi mesi a comprare di tutto, dal Twiga e Billionaire di Briatore ai ristoranti del centro di Milano, dai Bagni Franco in Versilia alla Terme di Fiuggi, dalle quote della società della famiglia di Gianluca Vacchi a quelle della società dei figli di Sergio Leone, per non dire della bibita di Fedez. E forte dei suoi cinque miliardi di patrimonio personale non disdegna red carpet, showbiz e le foto sui social con le modelle più affascinanti, salvo poi finire indagato perché avrebbe fatto spiare pure loro...
«Porte girevoli» nei vari settori
Anche i De Benedetti hanno buttato tutto in piazza. Il padre che accusa i figli di non essere capaci a fare gli editori («Azienda sconquassata e mal gestita, un bel disastro»), i figli che rispondono al padre con sdegno. E tutto a mezzo stampa. Prima l’Ingegnere lascia i suoi amati giornali agli eredi, poi cerca di riprenderseli. Perché non sa farne a meno. Perché come tutti gli squali del capitalismo familiare è troppo egocentrico per pensare a un futuro senza di sé. E così scoppiala guerra ereditaria, con fiumi di inchiostri e veleni, con i rapporti che si gelano mentre l’impero si squaglia perdendo un pezzo dopo l’altro. Che cosa rimane oggi della potenza del condottiero che negli anni Ottanta scuoteva la Borsa e l’Europa? Dentro la Cir, come si chiama la società che da sempre controlla i patrimoni di famiglia, sono rimaste solo due attività: le strutture sanitarie della Kos e la componentistica per auto della Sogefi, o quel che resta dopo le ultime cessioni. Nient’altro, a parte la cassa piena. L’Ingegnere è entrato e uscito da ogni settore industriale senza mai costruire nulla di importante. Auto, informatica, telefonia mobile, energia, alimentare. Non c’è settore in cui non si sia cimentato. E non c’è settore da cui non se ne sia andato. A volte con le ossa rotte. A volte con le tasche piene. In ogni caso lasciando ben poco all’Italia, a parte l’esibizione della sua ricchezza. Che, ovviamente, si è goduto da cittadino svizzero.
Giuseppe Turani, uno dei giornalisti che fu a lui più vicino, lo ha definito: «Il capitalista inutile». Nel 1978 a Cupertino l’Ingegnere incontrò Steve Jobs che gli propose di partecipare all’avventura di Apple ma lui rifiutò. «Che cosa vuole questo cappellone?», pensò. Preferì entrare nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Il suo primogenito Rodolfo, invece, ha puntato sull’energia: «Sorgenia, un caso di successo», andava in giro dicendo. Peccato che Sorgenia sotto la sua gestione abbia accumulato 1,8 miliardi di euro di debiti. Se la sono portata via le banche. «Tutta colpa di Rodolfo», si è lamentato l’Ingegnere, attaccandolo direttamente.
Con l’altro figlio, Marco, il più simile al padre, per aspetto e carattere, con la stessa passione per gli yacht, gli scontri sono stati ancora più frequenti. Da sempre. L’unico figlio con cui l’Ingegnere ha mantenuto sempre buoni rapporti è il terzo, Edoardo. Ma solo perché fa il medico in Svizzera e gli cura gli acciacchi.
«Non fatelo presidente»
E Alessandro Benetton? È il nuovo capo assoluto dell’impero di Treviso, dove ormai la fabbrica delle maglie accumula solo perdite su perdite. Un miliardo e 300 milioni bruciati in dieci anni. «Se anziché chiamarsi Benetton si chiamasse Pincopalla quell’azienda sarebbe chiusa da un pezzo», mi raccontano. Non è un segreto. Lo sanno tutti. La famiglia ha cavalcato le privatizzazioni, ha succhiato soldi dalle autostrade, e ora continua a guadagnare altre attività, le più disparate. Ma dov’è finito il genio dei maglioni? E la produzione? E l’innovazione?
Dopo la morte di Gilberto e la sgangherata uscita di scena di Luciano, comanda Alessandro: si presenta come imprenditore di successo, amante dell’eleganza e dello sport, sessantenne giovanile, padre attento, uomo da copertine chic. Ma basta sollevare un po’ la coltre patinata per scoprire un’immagine assai diversa. Agli atti dell’inchiesta della Procura di Genova ci sono le telefonate dei manager del gruppo che lo descrivono come uno «che fa solo casino», «vittima della sete di pubblicità», uno «vuole i soldi» e che non va d’accordo con il resto della famiglia. «Non fate Alessandro presidente» avrebbe detto prima di morire lo zio Gilberto ai suoi manager: così emerge da un’intercettazione inedita che viene pubblicata in Dynasty. Come inedita è l’altra intercettazione in cui i manager del gruppo si lamentano degli eredi Benetton perché, nel pieno della bufera Morandi, con 43 morti appena sepolti, hanno una grande preoccupazione: non essere costretti a cambiare palestra. Più del dolore potè lo spinning.
Tesoretti e paradisi fiscali
È evidente che il passaggio generazionale sia fallito. Questi eredi non sono all’altezza dei loro padri. E così infangano non solo il presente, mapure il passato. Non distruggono solo sé stessi, ma anche coloro che li hanno preceduti. Prendete Gianni Agnelli. Quando morì, il 24 gennaio 2003, fu celebrato come un santo. «L’Avvocato della gente», titolavano i giornali «Da oggi siamo più soli». L’editoriale su La Stampa lo definiva: «L’uomo buono» che «ha dato da mangiare a tutti». Ora, invece, anche l’Avvocato è stato gettato nella polvere. Letteralmente. Nell’ultimo libro di Jennifer Clark si associa esplicitamente l’incidente del 1952 all’uso della cocaina. E dalle inchieste saltano fuori tesoretti all’estero, fondi nei paradisi fiscali e quadri nascosti nei caveau. Tanto da far venire il dubbio: la passione dell’arte era davvero solo passione per l’arte?
Lo stesso si può dire per sua moglie, donna Marella. Quando scompare a 92 anni viene celebrata come l’ultima regina d’Italia. Anche «regina degli elfi». «Principessa regale». Ma adesso, dalle beghe giudiziarie emerge il quadro di una persona un po’ diversa. Una persona che riceveva un assegno da 600 mila euro al mese («la mia pansione», con la a, la chiamava). Una persona che pur avendo ereditato case e yacht per 101,5 milioni di euro e quadri per 63,9 milioni di euro, si lamentava: «Mi hanno ridotto in mutande». Soprattutto una persona che avrebbe evaso il fisco perché, secondo la Procura, si dichiarava residente in Svizzera mentre trascorrevabuona parte del suo tempo fra Torino e Marrakesh dove nel frattempo aveva comprato un’altra villa. Perché, come è noto, tutti quelli che sono ridotti in mutande si comprano una villa a Marrakesh...
Più che rampolli, una sciagura
È così che finiscono le dinastie. E iniziano le Dinasty. Così finiscono le storie di successi. E iniziano le storie di intrighi. Così finiscono le storie dei condottieri. E iniziano le storie degli ereditieri. Ed è questa storia, tragica e a volte comica, per lo più inedita, che oggi è necessario raccontare.Chiedendosi: si può evitare tutto ciò? Uno dei manager più importanti della recente storia italiana, che ho incontrato per scrivere questo libro, mi ha confidato che negli Stati Uniti le banche, quando un imprenditore compie 70 anni, cominciano a chiedergli i piani per la successione. In Italia, invece, il tema del passaggio generazionale è rimasto lì, addormentato, abbandonato per anni, lasciato alla singola iniziativa, ognuno faccia come crede, o come può. E troppo spesso la genialità dei grandi imprenditori fa a pugni con la necessità di prevedere il futuro. Nessuno di loro riesce a pensare l’azienda senza di sé. Sono troppo egocentrici per immaginare che un giorno non ci saranno più.
Così arrivano i rampolli e combinano disastri. Però, ecco, dev’essere chiaro che questi rampolli non sono vittime. È insopportabile infatti leggere fra le righe devote dei grandi mezzi di comunicazione, ancora inginocchiati di fronte al potere del denaro, il coro della giustificazione. «Bisogna capirli, poverini: non è facile essere figlio di genitori importanti» Ma vi pare? Non è facile nascere con cinque miliardi di patrimonio personale? Non è facile vivere da re? Avere a disposizione mezzi infiniti per studiare, viaggiare, conoscere e crescere? Davvero qualcuno pensa che nascere in casa Agnelli o Benetton sia una sfiga? E che sia meglio nascere figlio di un cassintegrato di Pomigliano d’Arco? E perché? Perché il figlio del cassintegrato non può buttare tremila euro a sera per i festini coca&trans come Lapo?
No, credetemi: nelle Dynasty non ci sono vittime. A parte gli italiani, ovviamente. n
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I dannati (e i privilegiati) della guerra in Ucraina
L'editoriale del direttore
C’è una notizia piccola che, nei giorni scorsi, dopo le polemiche seguite allo scontro in diretta fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, è passata in secondo piano. L’Ucraina ha vietato ad attori, atleti e giornalisti di lasciare il Paese, abolendo le autorizzazioni alle trasferte rilasciate dai ministeri. La decisione, con effetto retroattivo, ha annullato i lasciapassare di chi è già all’estero. Tutti a casa, dunque, tutti obbligati a rientrare per combattere il nemico. La misura adottata dalle autorità mentre si discute di un possibile cessate-il-fuoco dimostra due cose, entrambe piuttosto illuminanti per capire quale sia la situazione a Kiev e dintorni. La prima segnala l’umore della popolazione ucraina dopo tre anni di guerra: chi può scappa e chi è riuscito a fuggire si guarda bene dal ritornare.
Il provvedimento per sospendere le lettere che consentivano di uscire dal Paese, e che derogavano alle norme imposte dalla legge marziale, serve a mettere un freno a quello che ormai è divenuto una specie di esodo, se non di massa di certo cospicuo. Con una scusa, professionale o sportiva, molti a quanto pare se la svignavano, evitando di finire in trincea. Di recente sembra sia accaduto con diversi atleti, come per esempio i due karateki che alle bombe russe hanno preferito il clima italico.
Secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il 17 per cento della popolazione ucraina è espatriata: in totale fanno sette milioni di persone, molte delle quali sono fuggite in Germania e Polonia, ma anche in America e in Canada. Dai 40 milioni di abitanti che contava prima dell’invasione russa, oggi l’Ucraina è scesa a circa 33 milioni e coloro che se ne sono andati non sono soltanto donne e bambini, ma anche molti uomini (i maschi rappresentano il 41 per cento del totale e, se si tolgono i minori, restano almeno due milioni di persone).
Ma oltre a segnalare la stanchezza della popolazione dopo più di mille giorni di conflitto, l’editto di Zelensky contro l’espatrio dimostra anche che in trincea scarseggiano i soldati. Decimate da ondate di missili che continuano a cadere a pioggia e da decine di migliaia di diserzioni, le truppe ucraine faticano a contenere gli assalti, come ha detto J.D. Vance durante l’incontro-match alla Casa Bianca. Probabilmente è vero ciò che riferiscono le cronache, ovvero che i militari di Mosca continuano a morire come mosche, ma il numero di vittime non ferma l’avanzata di Vladimir Putin e ogni giorno le forze di Kiev sono costrette ad arretrare un poco. Oltre alle armi, che Zelensky chiede come un disco rotto dal giorno in cui i russi invasero il Paese e che ora Trump ha sospeso, servono uomini, altrimenti non solo non si riconquista un metro di terreno, ma lo si perde.
Del resto, quella delle forze in campo è sempre stata la questione principale della guerra. Anche se nel primo anno si sono attribuiti effetti miracolistici a missili e carri armati, a fare la differenza tra i due eserciti a confronto è sempre stato il numero degli effettivi sul terreno e dopo mille giorni di distruzione e sangue ne abbiamo la prova. Per sostituire i soldati caduti, Zelensky ha provato ad abbassare l’età della leva, ma a quanto pare non è stato sufficiente. Per riuscire a convincere gli ucraini a imbracciare un fucile e combattere, il parlamento ha inasprito le leggi, varando una mobilitazione militare che consente l’arruolamento e l’addestramento forzato.
Tra le norme approvate, alcune negano l’accesso ai servizi pubblici (come l’assistenza sanitaria) a chi non si sia registrato presso i centri di reclutamento, altre permettono anche la revoca della patente di guida. Ma visto che neppure il giro di vite è servito, ecco cancellata la possibilità di congedarsi dopo tre anni di guerra; mentre ai residenti maschili all’estero, per costringerli a rientrare all’interno dei confini nazionali, è stato negato il rinnovo del passaporto.
Ora arriva il divieto di espatrio. Fra tante misure, però, ce n’è una che stride ed è che i soli esentati dalle regole di arruolamento sono i parlamentari. Tutti gli altri a combattere, loro a casa. Si dice che se non fosse stata garantita l’esenzione, gli onorevoli non avrebbero votato a favore delle norme di reclutamento. Può darsi che sia vero, però questo dimostra che tra privilegiati (dalla politica) e disertori (in grado di pagarsi la fuga all’estero), alla fine in trincea sono finiti solo i poveri cristi, usati come carne da cannone in nome della libertà. Di quelli rimasti a casa.