Panorama
L'editoriale del direttore
«Ma che giustizia è quella che a 25 anni da un delitto non è in grado di stabilire se qualcuno è colpevole o innocente? Come si può parlare di giustizia se a dieci anni dalla condanna definitiva per omicidio di una giovane, e dunque dopo che un «colpevole» ha trascorso 3.368 giorni dietro le sbarre, i magistrati riaprono il caso e indagano per lo stesso assassinio un’altra persona? Credo che tutti, nei giorni scorsi, si siano posti queste domande...»
Le magnifiche prede
Dopo anni di relativa calma, è ripartito il risiko del credito. Mediobanca, Banco Bpm e Popolare di Sondrio sono finite nel mirino di Monte dei Paschi di Siena, UniCredit e Bper. Una guerra per banche con l’obiettivo più grande: Generali.
Milano sotto inchiesta
Il terremoto scatenato dalla Procura (con arresti e dimissioni) per le concessioni urbanistiche del Comune. E poi la sgangherata vicenda di Davide Lacerenza e del suo locale, tra prostituzione, droga e champagne. Così si compie la parabola dell’ex città-vetrina. Come del suo sindaco «smart»...
Mala estetica
Si sono fidate. È stato questo il tragico errore delle ultime vittime degli interventi «di bellezza» praticati da sedicenti medici. E sono solo gli episodi più eclatanti di una tendenza in crescita.
Dina, l’irriverente
Voce originale e potente del panorama artistico contemporaneo, eccentrica e visionaria, Dina Goldstein è regista, scenografa e costumista, oltre che fotografa delle immagini che rappresenta. Scatti forti, sgargianti e provocatori che, con un’ironia portata all’estremo, invitano a riflettere su temi attuali e sui vizi della nostra società. A lei e alla sua arte irriverente Milano dedica la mostra Dina Goldstein - Un’artista tra fiaba e realtà, una monografica dei suoi progetti più celebri allestita alla Fabbrica Eos (viale Pasubio 8/A, fino al 23 marzo) e curata da Patrizia Madau.
Vite di donne tra Hitchcock e Almodóvar
Osservano le persone dalla loro abitazione alla ricerca di uno spunto per un libro. Fino a che un vicino sexy si trasforma in stupratore. Noémie Merlant, attrice e regista, parla con Panorama del suo ultimo film Donne al balcone, che inizia come commedia ma finisce in thriller mozzafiato. E fa una piccante anticipazione: «Interpreterò il remake di Emmanuelle».
TUTTE LE NEWS
Dovrebbero essere gli italiani a scioperare contro la magistratura. Perché non sopportiamo più i loro errori (marchiani) e i privilegi (palesi) di una casta che pensa di essere sempre al di sopra della giustizia che non è in grado di cambiare.
Ma che giustizia è quella che a 25 anni da un delitto non è in grado di stabilire se qualcuno è colpevole o innocente? Come si può parlare di giustizia se a dieci anni dalla condanna definitiva per omicidio di una giovane, e dunque dopo che un «colpevole» ha trascorso 3.368 giorni dietro le sbarre, i magistrati riaprono il caso e indagano per lo stesso assassinio un’altra persona? Credo che tutti, nei giorni scorsi, si siano posti queste domande. La decisione della Cassazione di annullare la sentenza di assoluzione dell’ex comandante della caserma dei carabinieri di Arce, della moglie e del figlio, accusati a vario titolo di aver ucciso e occultato il corpo di Serena Mollicone, una ragazza di 18 anni sparita per giorni e poi ritrovata cadavere ai margini di una strada, ha infatti riaperto il caso. Per individuare i responsabili non sono bastati gli esami del Dna su centinaia di persone, l’arresto di un presunto testimone (un carrozziere che passò un anno e sette mesi in carcere prima di essere scagionato), la riesumazione del cadavere, due autopsie, accertamenti tecnici a più riprese sulla salma, sul nastro adesivo con cui venne legata la giovane, sulla vernice e la colla delle porte della caserma dei carabinieri.
Dopo due assoluzioni, in primo e secondo grado, i giudici della suprema Corte hanno deciso di celebrare di nuovo il processo e di far tornare a sedere sul banco degli imputati il maresciallo che svolse le indagini, la moglie e il figlio, il quale conosceva molto bene Serena Mollicone. Dimenticavo: a vario titolo, nel corso dell’inchiesta sono stati indagati diversi militari dell’Arma, che avrebbero saputo del delitto e avrebbero taciuto. Uno solo parlò, raccontando di aver visto entrare in caserma una ragazza con le stesse sembianze della vittima. Ma poi, quello stesso carabiniere, forse per le pressioni subite ritrattò, salvo poi confermare di nuovo e infine suicidarsi. Certo, la vicenda è intricata. Probabilmente ci sono stati depistaggi e forse addirittura sono sparite delle prove. Ma può la giustizia continuare a rimpallare accuse e assoluzioni senza riuscire a sciogliere il mistero di chi ha ucciso una ragazza di 18 anni che forse in quella caserma era entrata per denunciare il figlio del comandante, sospettato di spacciare droga? Venticinque anni e un’infinità di indagini non sono sufficienti a stabilire se ci sono elementi per assolvere o condannare?
Forse ancor più grave è quello che ci siamo abituati a chiamare «il delitto di Garlasco». Una ragazza, Chiara Poggi, viene uccisa nella villetta in cui abita con i genitori, i quali sono in vacanza con il fratello. Le indagini prendono subito una brutta piega, perché forse non tutti gli accertamenti vengono eseguiti. Si sospetta di tanti, ma in particolare del fidanzato, che però era a casa sua davanti al computer, a preparare la tesi. Un assassino dovrebbe per forza essersi sporcato di sangue le scarpe, ma Alberto Stasi, il ragazzo legato a Chiara, le scarpe le ha pulite e questo diventa un argomento a carico, perché si pensa che abbia gettato le sneaker macchiate, peraltro introvabili. C’è un primo processo e il gip assolve l’imputato. In appello, altra assoluzione. Ma poi arriva la Cassazione che annulla tutto e si ricomincia. Questa volta il giudizio è ribaltato: colpevole, e la sentenza quando arriva davanti ai giudici della suprema Corte è confermata.
Il 15 dicembre del 2015 per Alberto Stasi, che continua a proclamarsi innocente, si spalancano le porte del carcere. Ma l’11 marzo del 2025, quando l’ex fidanzato di Chiara ha quasi finito di scontare la sua pena, la procura si convince che le indagini siano state mal condotte e riapre il caso indagando per concorso in omicidio un’altra persona, in seguito ad alcuni frammenti di Dna trovati sotto le unghie della vittima. Si tratta di una nuova prova, scovata da inquirenti che non si sono arresi? No, è una prova vecchia, che però all’epoca fu sottovalutata. Così, 18 anni dopo il delitto di Chiara, c’è un colpevole apparentemente certo perché una sentenza definitiva lo ha definito tale, un colpevole presunto perché per ora a suo carico ci sono solo indagini, e un fallimento della giustizia, che dopo dieci anni si pente e ritiene di aver messo in carcere il colpevole sbagliato.
Pensate che quelli di Arce e di Garlasco siano casi limite? No. Qualche settimana fa ho pubblicato le statistiche degli errori giudiziari e, a scorrerle, si capisce che non si tratta di eccezioni. Da Beniamino Zuncheddu a Giuseppe Gullotta, da Stefano Binda a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, la storia di inchieste finite male, con l’arresto di innocenti e non dei veri colpevoli è lunga. Ma anche senza andare indietro nel tempo, prendete altri due casi di cronaca assai recenti. È possibile che dopo tre anni di indagini si scopra che Liliana Resinovich non si è suicidata, chiudendosi da sola in un sacco e occultandosi in un bosco, ma sia stata picchiata e uccisa? Ma chi le ha fatte le indagini? E poi c’è il caso di Luca Canfora, sceneggiatore che ha lavorato all’ultimo film di Paolo Sorrentino (Panorama ne ha parlato mesi fa): il cadavere è stato rinvenuto in mare, a Capri, e la sua morte è stata archiviata come suicidio. Si sarebbe lanciato dalla scogliera, ma il corpo non presenta le fratture che ci si aspetterebbe in una persona che è caduta sulla roccia. E allora? Si riesuma il cadavere, riaprendo le indagini.
Pm e giudici sono preoccupati per la separazione delle carriere e minacciano scioperi e proteste in tutta Italia: sostengono che, dividendo il percorso della magistratura requirente da quella giudicante, si vogliono mettere le procure sotto il controllo della politica. Non starò a ricordare che cosa penso della separazione delle toghe e della riforma del ministro Carlo Nordio. Propongo solo una cosa: e se a scioperare contro lo sfacelo della giustizia che ho appena tratteggiato fossero gli italiani? Se fossimo noi a dire che non sopportiamo più gli errori (marchiani) e i privilegi (palesi) di una casta che pensa di essere sempre al di sopra della giustizia e non è in grado di cambiare? Pensateci. Il mondo dell’industria, della scuola, della sanità e della politica è cambiato. La sola cosa che negli ultimi trent’anni non è cambiata, è la magistratura. Non vi sembra l’ora di voltare pagina?
La nostra esistenza ha tante dimensioni: corporale, naturale, lavorativa, affettiva, sociale, intellettuale, spirituale. E va fatto un «check up»: per non trascurarne nessuna.
A causa di un incidente annuale, di natura personale e universale, chiamato compleanno, ho avuto di recente brevi conversazioni e scambi di messaggi sulla vita che passa e il suo senso. È un incidente inevitabile, il compleanno, ma non compierlo è decisamente peggio, come ben sappiamo. Più gli anni passano e più s’impreca con gratitudine... Pur nella sua banale contabilità è un’occasione nella fuga dei giorni e degli anni per ripensare la vita e il suo destino. Ogni uomo dispone di sette vite ma non sono quelle proverbiali che si attribuiscono ai gatti e che vengono una dopo l’altra. Le vite a cui mi riferisco sono simultanee e insieme formano la nostra esistenza; sono i sette raggi che formano la ruota dell’esistenza. Le sette vite davanti a noi sono nell’ordine: la vita corporale, la vita naturale, la vita lavorativa, la vita affettiva, la vita sociale, la vita intellettuale, la vita spirituale. La vita corporale è la vita biologica per antonomasia. La vita come bisogno, come salute, come fame, sete, sesso, sensi. Vita necessaria ma non sufficiente se siamo uomini e non bruti. Strettamente connessa alla vita corporale ma con uno sguardo fuori di sé è la vita naturale, immessi nel mondo, a partire da ciò che ci circonda. La natura come terra, cielo, mare, campagna, pietre, piante, animali e sole, vento, pioggia. La natura è il nostro habitat e il nostro limite, l’ordine primario in cui siamo inseriti; la natura è tutto quel che non nasce da noi ma di cui pure abbiamo bisogno. La vita lavorativa è invece la vita attiva in cui ci procacciamo da vivere, che ci nobilita nello sforzo, ci rende utili agli altri e plasma le circostanze. La vita lavorativa è la vita come dovere e come diritto, che ci impegna a dare per ricevere,è la vita come fatica e nei casi migliori come piacere di realizzarsi.
Connessa alla vita lavorativa è la vita sociale, ossia la relazione con gli altri, a partire dai compaesani o concittadini, ovvero i conterranei, i compatrioti, e per altri versi i contemporanei. La vita di relazione è da un verso la dimensione interpersonale di scambio in cui la sfera privata interagisce con la sfera pubblica; e dall’altro dimensione comunitaria, quando cioè la società non è semplicemente uno stare insieme, avere spazi e interessi comuni, ma è anche un sentirsi parte di uno stesso gruppo, partecipare a un’identità comune, un’origine e un orizzonte condiviso; se la società è un ambito neutro e freddo, la comunità è un insieme caldo, riferito a comuni valori o principi; sfera naturale, selettiva ed elettiva di appartenenza.La vita affettiva segna il passaggio decisivo verso la cura degli altri; è lo slancio che nasce dal sentimento e ci proietta fuori di noi, a partire da chi avvertiamo come più vicino e dunque più caro: i genitori, i figli, i fratelli, in generale i famigliari, la persona amata, gli amici. Una vita priva di affetti è una vita dimezzata, svuotata di energie e di emozioni. Nella vita affettiva l’amore si fa legame, attenzione e premura verso persone di cui senti la gioia della presenza e il piacere della loro prossimità; o di cui avverti il vuoto, la mancanza, quando sono assenti o perduti.
La vita intellettuale è propriamente la vita interiore, o la vita della mente; non attiene solo a chi svolge un’attività di studio ma in varia misura e profondità a tutti gli esseri pensanti. La vita della mente è la vita interiore, dei pensieri e della memoria, dei ricordi e delle aspettative, che fa tesoro delle esperienze e delle eredità; è la vita della coscienza, la vita che riflette, intuisce, crede, si orienta sulla base di principi, valori, modelli, senso critico. Infine, connessa alle due vite precedenti, è la vita spirituale che è poi il faro dell’esistenza, il punto di osservazione più alto che scruta lontano, illumina nel buio, indica la rotta e consente i ritorni. La vita spirituale è la vita dell’anima, il punto di raccolta di sentimento e pensiero in una sintesi superiore che si affaccia oltre la morte; è il punto supremo della nostra vita e al tempo stesso il ponte per trascenderla, cioè per andare oltre la dimensione personale dell’esistenza.
Le sette vite insieme costituiscono l’intera nostra vita; nessuna singola dimensione basta alla vita: ciascuna ha bisogno dell’altra, anzi ognuna ha bisogno di tutte le altre vite per compiersi e per sviluppare organicamente la vita armoniosa. Ci sono sfere di vita necessarie, altre importanti o significative; ma nessuna da sola è sufficiente. Se a una vita manca qualcuna delle sette vite è monca, carente; quando la mancanza riguarda le dimensioni più alte è una vita insensata, che cade nel vuoto.Una parte crescente di queste sette vite rischia di atrofizzarsi per il disuso o il vivere ottuso. È il pericolo estremo della nostra vita e coincide con la disumanizzazione o la sostituzione dell’umano. Necessario è tener vivi dentro di noi la percezione della realtà, il senso di appartenenza alla natura, il senso attivo della relazione col mondo a partire da chi ci è più vicino; i legami affettivi e lavorativi, sociali e comunitari, il senso della civiltà, dell’umanità e della responsabilità; la vita del cuore e della mente. Insomma possiamo cercare di mettere a frutto quel banale anniversario che è il compleanno per compiere un check up (o forse un check in) alla nostra vita nei suoi sette raggi, verificando che siano tutti attivi, non inerti. E unire l’origine al destino, compiendo il cerchio dell’esistenza
L’organo cruciale che decide carriere e destini dei magistrati è interessato dal progetto di revisione complessiva a cui lavora il Guardasigilli Carlo Nordio. L’esperto del settore Maurizio Catino esprime forti dubbi sulla possibilità di un rinnovamento. Ecco perché
La seguente riflessione del giurista e padre fondatore della Costituzione, Pietro Calamandrei, andrebbe posta nei tribunali accanto alla nota «La legge è uguale per tutti». Disse il grande fiorentino: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Quasi una nemesi per le toghe indignate dalla riforma messa in piedi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio - separazione delle carriere, due Csm eletti per sorteggio - che hanno affidato, durante il loro inusitato sciopero con la Costituzione innalzata come vessillo di lotta, ad Antonio Albanese, alias Cetto Laqualunque parodia del politico cinico e baro oltreché protervo e ignorante, la lettura di brani tratti dagli scritti di questo insigne uomo di legge, resistente, fondatore del Partito d’Azione. Tra le carte di Calamandrei però non hanno scovato quest’altro passaggio che spiega perché in un recente sondaggio di Tecnè - è del 4 febbraio scorso - il 50 per cento degli italiani dice di non avere fiducia nei magistrati. E nel confronto Giorgia Meloni-Cesare Parodi, il neopresidente dell’Associazione nazionale magistrati, il 42 per cento sta col governo, il 39 per cento con le toghe.
«Al giudice» sentenziava Calamandrei «occorre più coraggio a essere giusto apparendo ingiusto, che a essere ingiusto apparendo giusto». Un’altra sondaggista, Alessandra Ghisleri, ha spiegato un mese fa che gli italiani di fronte a casi - per citarne due - come quelli del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, in galera da innocente per 32 anni, e dell’ex senatore Stefano Esposito - inquisito per sette anni, intercettato cinquecento volte, poi archiviato - pensano di non potersi difendere. Bisogna affidarsi ai numeri: dal 1991 al 2022 ci sono stati 30 mila errori giudiziari, ogni anno finiscono in carcere mille innocenti. Nel 2024 lo Stato ha pagato quasi 30 milioni di euro per ingiusta detenzione - come ha scritto Antonio Rossitto sullo scorso numero di Panorama - in trent’anni circa un miliardo. Ma che succede ai magistrati che sbagliano? Dal 2017 al 2024 su 89 azioni per ingiuste detenzioni ci sono stati solo otto casi di censura, un solo trasferimento come unica è l’azione di rivalsa dei danni pagati dallo Stato contro una toga colta in fallo. Stando così le cose la faccenda diventa fenomeno sociale.
Non a caso l’ha indagata il professor Maurizio Catino, ordinario di Sociologia dell’organizzazione all’Università di Milano-Bicocca, che l’ha riassunta nel suo saggio Trovare il colpevole, la costruzione del capo espiatorio nelle organizzazioni (Edizioni Il Mulino). «Non è un legal thriller, parte da uno sconquasso giudiziario: il caso Palamara. Con la mia collega dell’università di Bologna Cristina Dallara» spiega il professore, «abbiamo studiato norme e prassi nel Consiglio superiore della magistratura, che per noi sono le regole dell’apprendimento imperfetto. Mi sono interrogato se il fenomeno del magistrato che decideva le carriere fosse un’anomalia o segnalasse una prassi. Su questo “affaire” c’è stato un esercizio corale di grande ipocrisia e si è creata per lui la figura del capro espiatorio organizzativo».
Viene da obiettare che Luca Palamara era però presidente dell’Anm e autorevolissimo componente del Csm, dunque tanto capro espiatorio non pare.
«Giusto, se però intendiamo la definizione classica: cioè l’innocente che viene sacrificato» riflette Catino. «Diversamente io lo definisco “organizzativo” perché Palamara ha la responsabilità del sistema, è un capro espiatorio colpevole, ma il sistema lo è con lui o attraverso di lui. E viene da domandarsi se Palamara sia la causa o l’effetto di quello che è stato chiamato lo scandalo di Palazzo Bachelet (qui, a Roma, nel già Palazzo dei Marescialli, ha sede appunto il Csm, ndr)». Prosegue il docente della Bicocca: «È un fenomeno noto a chi studia le organizzazioni complesse - si tratta del formarsi della prassi extralegale che tende a sostituirsi alla prassi legale quando questa si “ossifica”, si sclerotizza. Nella magistratura è successo così. Le correnti dell’Associazione nazionale magistrati hanno finito per diventare il luogo di cooptazione di chi deve ricoprire incarichi direttivi. Agli albori le correnti erano espressione di culture giuridiche differenti che si confrontano, l’Anm - che non ha alcuna veste istituzionale - era il luogo di rappresentanza di queste istanze. Quando i criteri di selezione “legale” sono diventati farraginosi questa organizzazione della categoria è diventata l’ufficio di collocamento. Palamara era il terminale efficientissimo del sistema. La cosa grave è che anche dopo quello scandalo il sistema non è stato capace di emendarsi».
Il professor Catino fissa il quando, il come e il perché dell’affermazione del sistema extralegale.
«Tutto parte Dalla riforma iniziata da Roberto Castelli con il governo guidato da Silvio Berlusconi nel 2006 e proseguita da Clemente Mastella, nel 2007 con l’esecutivo di Romano Prodi. Una riforma che è costata a Mastella un ruvido trattamento giudiziario. L’idea era di introdurre un criterio di selezione meritocratica per gli avanzamenti di carriera che fino a quel momento erano basati sul mero criterio di anzianità. Si ricorderà un famoso articolo di Leonardo Sciascia contro la nomina di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala perché avveniva senza il criterio dell’anzianità. Sciascia non ce l’aveva con Borsellino, ma voleva segnalare l’arretratezza di quel sistema. Mastella mette in capo alla V commissione del Csm che è composta da solo sei magistrati la selezione dei curricula. Un’opera impossibile per la mole di dati da verificare. Così le correnti diventano il luogo di selezione e la Commissione assume una mera funzione notarile. Per gran parte delle nomine si procede a pacchetto: cioè si spartiscono i posti tra le correnti, ma ci sono dieci Procure tra cui Milano, Roma e le due Procure che controllano i magistrati di queste sedi e cioè Brescia e Perugia che si fanno di concerto con degli stakeholder: politici, rappresentanti dell’economia, perfino la segreteria del Quirinale viene discretamente consultata. Lo scandalo Palamara assume così una sua fisiologia che è indice della patologia del sistema».
E l’indipendenza della magistratura?
«Parliamoci chiaro: se io devo decidere sull’Ilva di Taranto o su una grande banca ho un forte impatto sulla società. Dunque essere un magistrato in sintonia con la società civile di per sé non è sbagliato. È sbagliato che non lo si faccia alla luce del sole, che non sia una prassi trasparente a queste nomine. Semmai è la politica che ha arretrato davanti alla magistratura. Questa ritirata ha reso il sistema correntizio e dunque l’Anm titolare del potere sui giudici; nel Csm il compromesso con i membri laci alla fine i togati lo devono trovare così per assicurare protezione ai magistrati che quasi mai vengono sanzionati».
La riforma Nordio è avversata anche per questo?
«Il progetto di riordino non tocca le carriere dei magistrati, le separa, ma le nomine si faranno sempre nello stesso modo. Anche i due Csm sorteggiati non risolvono il problema. Bisognerebbe introdurre criteri di selezione diversi che la cultura solo giuridica e dunque affezionata alla iper-normazione del Csm non consente».
La conclusione?
«Una sola» sospira il professor Catino, «il sistema giudiziario, almeno sotto questo profilo, è inemendabile».
TUTTE LE NEWS DI POLITICA
Pensate alla torbida faida di casa Agnelli: madri contro figli, figli contro madri, mamma Margherita che accusa il figlio Jaki di evasione, il figlio Jaki che accusa mamma Margherita di maltrattamenti, una danza cinica e spietata attorno all’eredità, quadri spariti, tesori nei paradisi fiscali, gioielli preziosi che sfuggono all’erario, compresi un paio di orecchini che da soli valgono 78 milioni di euro (si capisce: se uno eredita un paio di orecchini da 78 milioni di euro, qual è la prima cosa che pensa? Come non pagare le tasse...). E tutto questo sfoggio di avidità mentre le fabbriche italiane della ex Fiat si spengono lasciando gli operai in mezzo alla strada.
Oppure pensate ai Del Vecchio: da tre anni non riescono a mettersi d’accordo sull’eredità del vecchio Leonardo. E si detestano a tal punto che, secondo le inchieste, uno di loro avrebbe fatto ricorso agli spioni illegali per controllare i fratelli (con corredo di polpette avvelenate e membri della famiglia accusati ingiustamente di frequentare criminali sessuali). Oppure pensate ai De Benedetti con padre e figli che si scontrano fra di loro all’arma bianca in una specie di guerra dei Roses della carta stampata, che nel frattempo è diventata carta straccia. Oppure pensate ai Benetton, alla famiglia che insegnava al mondo etica e solidarietà, ed è precipitata nell’infamia, con quelle feste a Cortina celebrate senza ritegno dopo la tragedia del ponte Morandi, mangiando e bevendo su 43 cadaveri ancora caldi. Pensate a loro che, come dicono i manager nelle telefonate che stanno agli atti dell’inchiesta: «Non capiscono un cazzo, sono indegni, vogliono solo i soldi. E pensano ai cazzi loro».
Pensate a tutto questo e siete entrati dentro Dynasty: il libro che racconta il crollo delle nostre élite economiche. Un viaggio tra ori e orrori, fra parenti e serpenti, il dietro le quinte dei poteri marci (copyright Dagospia). La prima inchiesta sul disfacimento delle grandi famiglie del capitalismo italiano.
Negli anni Ottanta, quando ho iniziato questo mestiere, quelle famiglie erano al massimo del loro splendore: si celebrava allora l’epopea dell’Avvocato, dell’Ingegnere, delCavaliere e del Contadino, con copertine patinate e interi filoni editoriali a loro dedicati, a cominciare dal libro simbolo di quella stagione Dinastie di Enzo Biagi. Li chiamavano i condottieri. Ma dove ci hanno condotto questi condottieri? Fateci caso: oggi quelle dinastie si stanno sgretolando davanti ai nostri occhi.
Nel momento del passaggio generazionale, se si esclude il caso del Cavaliere (ed è un paradosso: in vita è stato il più attaccato sul piano morale e personale ma è stato l’unico in grado di gestire senza scandalo l’eredità), tutte le altre casate delle nobiltà economica italiana sono precipitate in un abisso di liti e vizi, ripicche e colpi bassi, pubbliche vergogne e private avidità, che hanno devastato la loro storia e il nostro Paese.
Tramonto al caviale
Sono ancora tutti ricchissimi. Ma non è più una ricchezza che rende prospero il Paese, che lo aiuta a crescere, a diventare grande. Al contrario: è una ricchezza che si accumula sulle macerie dell’Italia, sulle fabbriche in crisi, sui negozi in dismissione, sugli operai in cassa integrazione. La produzione di auto dell’ex Fiat è scesa ai livelli del 1956. Le rivendite Benetton muoiono una dopo l’altra. Dell’impero De Benedetti sono rimaste solo le cliniche e poco altro. Le famiglie che dovevano far volare il Paese hanno fatto volare solo le loro liti e le loro vergogne. I loro guadagni e gli yacht alle Cayman. L’unico gruppo che continua a crescere è quello targato Del Vecchio. Ma solo perché è gestito dai manager mentregli eredi da tre anni spendono tutte le energie a farsi la guerra tra di loro senza aver ancora accettato l’eredità.
L’Italia è sul viale del tramonto, loro sul caviale del tramonto. Non sono mai stati così pieni di soldi e così poveri di dignità. Ed è terribile che questo degrado morale venga messo tutto in piazza. La piccineria esibita, spiattellata in pubblico, nei tribunali, sui giornali. Padri e nonni dei rampolli d’oro avevano vizi, ma per lo meno non li esibivano così. L’avvocato Agnelli riusciva a tenere gli scandali sotto silenzio, invece dei festini coca&trans di Lapo si sa ogni dettaglio così come delle liti fra Margherita e Jaki.
Quando Leonardo Del Vecchio è diventato il primo contribuente italiano nessuno sapeva chi fosse: era così sconosciuto che alla Rai sbagliarono il nome. Suo figlio Leonardo Maria, invece, non ha ancora combinato nulla ma è tutti i giorni sui giornali con il suo shopping compulsivo che l’ha portato negli ultimi mesi a comprare di tutto, dal Twiga e Billionaire di Briatore ai ristoranti del centro di Milano, dai Bagni Franco in Versilia alla Terme di Fiuggi, dalle quote della società della famiglia di Gianluca Vacchi a quelle della società dei figli di Sergio Leone, per non dire della bibita di Fedez. E forte dei suoi cinque miliardi di patrimonio personale non disdegna red carpet, showbiz e le foto sui social con le modelle più affascinanti, salvo poi finire indagato perché avrebbe fatto spiare pure loro...
«Porte girevoli» nei vari settori
Anche i De Benedetti hanno buttato tutto in piazza. Il padre che accusa i figli di non essere capaci a fare gli editori («Azienda sconquassata e mal gestita, un bel disastro»), i figli che rispondono al padre con sdegno. E tutto a mezzo stampa. Prima l’Ingegnere lascia i suoi amati giornali agli eredi, poi cerca di riprenderseli. Perché non sa farne a meno. Perché come tutti gli squali del capitalismo familiare è troppo egocentrico per pensare a un futuro senza di sé. E così scoppiala guerra ereditaria, con fiumi di inchiostri e veleni, con i rapporti che si gelano mentre l’impero si squaglia perdendo un pezzo dopo l’altro. Che cosa rimane oggi della potenza del condottiero che negli anni Ottanta scuoteva la Borsa e l’Europa? Dentro la Cir, come si chiama la società che da sempre controlla i patrimoni di famiglia, sono rimaste solo due attività: le strutture sanitarie della Kos e la componentistica per auto della Sogefi, o quel che resta dopo le ultime cessioni. Nient’altro, a parte la cassa piena. L’Ingegnere è entrato e uscito da ogni settore industriale senza mai costruire nulla di importante. Auto, informatica, telefonia mobile, energia, alimentare. Non c’è settore in cui non si sia cimentato. E non c’è settore da cui non se ne sia andato. A volte con le ossa rotte. A volte con le tasche piene. In ogni caso lasciando ben poco all’Italia, a parte l’esibizione della sua ricchezza. Che, ovviamente, si è goduto da cittadino svizzero.
Giuseppe Turani, uno dei giornalisti che fu a lui più vicino, lo ha definito: «Il capitalista inutile». Nel 1978 a Cupertino l’Ingegnere incontrò Steve Jobs che gli propose di partecipare all’avventura di Apple ma lui rifiutò. «Che cosa vuole questo cappellone?», pensò. Preferì entrare nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Il suo primogenito Rodolfo, invece, ha puntato sull’energia: «Sorgenia, un caso di successo», andava in giro dicendo. Peccato che Sorgenia sotto la sua gestione abbia accumulato 1,8 miliardi di euro di debiti. Se la sono portata via le banche. «Tutta colpa di Rodolfo», si è lamentato l’Ingegnere, attaccandolo direttamente.
Con l’altro figlio, Marco, il più simile al padre, per aspetto e carattere, con la stessa passione per gli yacht, gli scontri sono stati ancora più frequenti. Da sempre. L’unico figlio con cui l’Ingegnere ha mantenuto sempre buoni rapporti è il terzo, Edoardo. Ma solo perché fa il medico in Svizzera e gli cura gli acciacchi.
«Non fatelo presidente»
E Alessandro Benetton? È il nuovo capo assoluto dell’impero di Treviso, dove ormai la fabbrica delle maglie accumula solo perdite su perdite. Un miliardo e 300 milioni bruciati in dieci anni. «Se anziché chiamarsi Benetton si chiamasse Pincopalla quell’azienda sarebbe chiusa da un pezzo», mi raccontano. Non è un segreto. Lo sanno tutti. La famiglia ha cavalcato le privatizzazioni, ha succhiato soldi dalle autostrade, e ora continua a guadagnare altre attività, le più disparate. Ma dov’è finito il genio dei maglioni? E la produzione? E l’innovazione?
Dopo la morte di Gilberto e la sgangherata uscita di scena di Luciano, comanda Alessandro: si presenta come imprenditore di successo, amante dell’eleganza e dello sport, sessantenne giovanile, padre attento, uomo da copertine chic. Ma basta sollevare un po’ la coltre patinata per scoprire un’immagine assai diversa. Agli atti dell’inchiesta della Procura di Genova ci sono le telefonate dei manager del gruppo che lo descrivono come uno «che fa solo casino», «vittima della sete di pubblicità», uno «vuole i soldi» e che non va d’accordo con il resto della famiglia. «Non fate Alessandro presidente» avrebbe detto prima di morire lo zio Gilberto ai suoi manager: così emerge da un’intercettazione inedita che viene pubblicata in Dynasty. Come inedita è l’altra intercettazione in cui i manager del gruppo si lamentano degli eredi Benetton perché, nel pieno della bufera Morandi, con 43 morti appena sepolti, hanno una grande preoccupazione: non essere costretti a cambiare palestra. Più del dolore potè lo spinning.
Tesoretti e paradisi fiscali
È evidente che il passaggio generazionale sia fallito. Questi eredi non sono all’altezza dei loro padri. E così infangano non solo il presente, mapure il passato. Non distruggono solo sé stessi, ma anche coloro che li hanno preceduti. Prendete Gianni Agnelli. Quando morì, il 24 gennaio 2003, fu celebrato come un santo. «L’Avvocato della gente», titolavano i giornali «Da oggi siamo più soli». L’editoriale su La Stampa lo definiva: «L’uomo buono» che «ha dato da mangiare a tutti». Ora, invece, anche l’Avvocato è stato gettato nella polvere. Letteralmente. Nell’ultimo libro di Jennifer Clark si associa esplicitamente l’incidente del 1952 all’uso della cocaina. E dalle inchieste saltano fuori tesoretti all’estero, fondi nei paradisi fiscali e quadri nascosti nei caveau. Tanto da far venire il dubbio: la passione dell’arte era davvero solo passione per l’arte?
Lo stesso si può dire per sua moglie, donna Marella. Quando scompare a 92 anni viene celebrata come l’ultima regina d’Italia. Anche «regina degli elfi». «Principessa regale». Ma adesso, dalle beghe giudiziarie emerge il quadro di una persona un po’ diversa. Una persona che riceveva un assegno da 600 mila euro al mese («la mia pansione», con la a, la chiamava). Una persona che pur avendo ereditato case e yacht per 101,5 milioni di euro e quadri per 63,9 milioni di euro, si lamentava: «Mi hanno ridotto in mutande». Soprattutto una persona che avrebbe evaso il fisco perché, secondo la Procura, si dichiarava residente in Svizzera mentre trascorrevabuona parte del suo tempo fra Torino e Marrakesh dove nel frattempo aveva comprato un’altra villa. Perché, come è noto, tutti quelli che sono ridotti in mutande si comprano una villa a Marrakesh...
Più che rampolli, una sciagura
È così che finiscono le dinastie. E iniziano le Dinasty. Così finiscono le storie di successi. E iniziano le storie di intrighi. Così finiscono le storie dei condottieri. E iniziano le storie degli ereditieri. Ed è questa storia, tragica e a volte comica, per lo più inedita, che oggi è necessario raccontare.Chiedendosi: si può evitare tutto ciò? Uno dei manager più importanti della recente storia italiana, che ho incontrato per scrivere questo libro, mi ha confidato che negli Stati Uniti le banche, quando un imprenditore compie 70 anni, cominciano a chiedergli i piani per la successione. In Italia, invece, il tema del passaggio generazionale è rimasto lì, addormentato, abbandonato per anni, lasciato alla singola iniziativa, ognuno faccia come crede, o come può. E troppo spesso la genialità dei grandi imprenditori fa a pugni con la necessità di prevedere il futuro. Nessuno di loro riesce a pensare l’azienda senza di sé. Sono troppo egocentrici per immaginare che un giorno non ci saranno più.
Così arrivano i rampolli e combinano disastri. Però, ecco, dev’essere chiaro che questi rampolli non sono vittime. È insopportabile infatti leggere fra le righe devote dei grandi mezzi di comunicazione, ancora inginocchiati di fronte al potere del denaro, il coro della giustificazione. «Bisogna capirli, poverini: non è facile essere figlio di genitori importanti» Ma vi pare? Non è facile nascere con cinque miliardi di patrimonio personale? Non è facile vivere da re? Avere a disposizione mezzi infiniti per studiare, viaggiare, conoscere e crescere? Davvero qualcuno pensa che nascere in casa Agnelli o Benetton sia una sfiga? E che sia meglio nascere figlio di un cassintegrato di Pomigliano d’Arco? E perché? Perché il figlio del cassintegrato non può buttare tremila euro a sera per i festini coca&trans come Lapo?
No, credetemi: nelle Dynasty non ci sono vittime. A parte gli italiani, ovviamente. n
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I dannati (e i privilegiati) della guerra in Ucraina
L'editoriale del direttore
C’è una notizia piccola che, nei giorni scorsi, dopo le polemiche seguite allo scontro in diretta fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky, è passata in secondo piano. L’Ucraina ha vietato ad attori, atleti e giornalisti di lasciare il Paese, abolendo le autorizzazioni alle trasferte rilasciate dai ministeri. La decisione, con effetto retroattivo, ha annullato i lasciapassare di chi è già all’estero. Tutti a casa, dunque, tutti obbligati a rientrare per combattere il nemico. La misura adottata dalle autorità mentre si discute di un possibile cessate-il-fuoco dimostra due cose, entrambe piuttosto illuminanti per capire quale sia la situazione a Kiev e dintorni. La prima segnala l’umore della popolazione ucraina dopo tre anni di guerra: chi può scappa e chi è riuscito a fuggire si guarda bene dal ritornare.
Il provvedimento per sospendere le lettere che consentivano di uscire dal Paese, e che derogavano alle norme imposte dalla legge marziale, serve a mettere un freno a quello che ormai è divenuto una specie di esodo, se non di massa di certo cospicuo. Con una scusa, professionale o sportiva, molti a quanto pare se la svignavano, evitando di finire in trincea. Di recente sembra sia accaduto con diversi atleti, come per esempio i due karateki che alle bombe russe hanno preferito il clima italico.
Secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il 17 per cento della popolazione ucraina è espatriata: in totale fanno sette milioni di persone, molte delle quali sono fuggite in Germania e Polonia, ma anche in America e in Canada. Dai 40 milioni di abitanti che contava prima dell’invasione russa, oggi l’Ucraina è scesa a circa 33 milioni e coloro che se ne sono andati non sono soltanto donne e bambini, ma anche molti uomini (i maschi rappresentano il 41 per cento del totale e, se si tolgono i minori, restano almeno due milioni di persone).
Ma oltre a segnalare la stanchezza della popolazione dopo più di mille giorni di conflitto, l’editto di Zelensky contro l’espatrio dimostra anche che in trincea scarseggiano i soldati. Decimate da ondate di missili che continuano a cadere a pioggia e da decine di migliaia di diserzioni, le truppe ucraine faticano a contenere gli assalti, come ha detto J.D. Vance durante l’incontro-match alla Casa Bianca. Probabilmente è vero ciò che riferiscono le cronache, ovvero che i militari di Mosca continuano a morire come mosche, ma il numero di vittime non ferma l’avanzata di Vladimir Putin e ogni giorno le forze di Kiev sono costrette ad arretrare un poco. Oltre alle armi, che Zelensky chiede come un disco rotto dal giorno in cui i russi invasero il Paese e che ora Trump ha sospeso, servono uomini, altrimenti non solo non si riconquista un metro di terreno, ma lo si perde.
Del resto, quella delle forze in campo è sempre stata la questione principale della guerra. Anche se nel primo anno si sono attribuiti effetti miracolistici a missili e carri armati, a fare la differenza tra i due eserciti a confronto è sempre stato il numero degli effettivi sul terreno e dopo mille giorni di distruzione e sangue ne abbiamo la prova. Per sostituire i soldati caduti, Zelensky ha provato ad abbassare l’età della leva, ma a quanto pare non è stato sufficiente. Per riuscire a convincere gli ucraini a imbracciare un fucile e combattere, il parlamento ha inasprito le leggi, varando una mobilitazione militare che consente l’arruolamento e l’addestramento forzato.
Tra le norme approvate, alcune negano l’accesso ai servizi pubblici (come l’assistenza sanitaria) a chi non si sia registrato presso i centri di reclutamento, altre permettono anche la revoca della patente di guida. Ma visto che neppure il giro di vite è servito, ecco cancellata la possibilità di congedarsi dopo tre anni di guerra; mentre ai residenti maschili all’estero, per costringerli a rientrare all’interno dei confini nazionali, è stato negato il rinnovo del passaporto.
Ora arriva il divieto di espatrio. Fra tante misure, però, ce n’è una che stride ed è che i soli esentati dalle regole di arruolamento sono i parlamentari. Tutti gli altri a combattere, loro a casa. Si dice che se non fosse stata garantita l’esenzione, gli onorevoli non avrebbero votato a favore delle norme di reclutamento. Può darsi che sia vero, però questo dimostra che tra privilegiati (dalla politica) e disertori (in grado di pagarsi la fuga all’estero), alla fine in trincea sono finiti solo i poveri cristi, usati come carne da cannone in nome della libertà. Di quelli rimasti a casa.
La protesta in favore di sale di proiezione-simbolo mobilita l’«intellighenzia» di settore, accompagnata dai soliti firmatari di appelli. La stessa indignazione (preferibilmente indirizzata a destra) non scatta però quando spariscono tante edicole.
Dura ormai da un mese la mobilitazione delle Anime Belle, Attori e Pd, per «salvare trenta sale cinematografiche di Roma che rischiano di diventare ipermercati, per giunta in mani straniere. Il colpevole, naturalmente, è il rozzo governo di centrodestra, in particolare la sua versione laziale, anche se le sale sono chiuse da molti anni. E giù il tappeto rosso di firme che si stendono come sempre in queste battaglie nobili, generose, per la cultura e la salvezza del cinema. Da Paolo Sorrentino a Matteo Garrone, da Paola Cortellesi a Marco Bellocchio e Valerio Mastandrea, da Elio Germano a Pierfrancesco Favino. Poi la mobilitazione romanesca è diventata mondiale ed è arrivato un altro elenco guidato da Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e compagnia hollywoodiana al seguito. Solo per citarne alcuni: Fanny Ardant, Alfonso Cuarón, Willem Dafoe, John Landis, Isabella Rossellini, Paul Schrader, John Turturro, David Cronenberg, Spike Lee, e via dicendo.
Sempre gli stessi, contro Trump o per il cinema America de noantri. Ma che bravi. Alle anime belle non viene il dubbio che quelle sale cinematografiche siano chiuse da anni per fallimento nella gestione e negli incassi; pochi spettatori, forse troppi dipendenti, comunque impossibilità di tenerle in vita. Passo da anni davanti al cinema America a Trastevere, e avverto un senso di squallore, sporcizia e desolazione. Ma anche sale più importanti, come il Metropolitan in via del Corso... A volte provarono con esperimenti autogestiti ed è stato un altro fallimento. Verrebbe da dire alle Anime Belle, molte delle quali anche facoltose: e se provaste voi a prenderli in carico, a rilanciarli magari costituendo cooperative tra attori, registi e cineasti? Ma solo per rimetterli in sesto ci vogliono capitali importanti, con la prospettiva di un altro buco nell’acqua. E allora chi deve farlo? Ma lo Stato, il Comune, la Regione, il Denaro Pubblico. Soluzione sovietica, corrotta dall’italico assistenzialismo. E visto che da anni non si trova la quadra, per loro è meglio tenerli chiusi piuttosto che cambiare loro destinazione d’uso.
Anch’io detesto il pullulare di supermercati, jeanserie, minchionerie di vario genere che hanno preso il posto di botteghe, sale e altri esercizi. Anzi, quando penso all’impoverimento culturale e alla colonizzazione dell’ignoranza consumista, ho un quadro più completo della miseria romana, e della miseria italiana, oltre le sale cinematografiche. Se vi fate un giro per la Capitale, ricordando un passato neanche troppo remoto, vi accorgerete che tanti teatri a Roma sono chiusi da anni o vivono tra il coma e l’agonia da diverso tempo; i tre quarti delle librerie che c’erano fino agli anni Novanta non ci sono più; i tre quarti delle edicole che c’erano non ci sono più. È deprimente vedere cosa c’è al posto di librerie e luoghi di cultura: mangerie, birrerie, vestierie, telefonie, sciocchezzerie, spaccio di cannabis, kebab...E se allargate lo sguardo oltre la cultura, per esempio, al contesto religioso, vi accorgete di quante chiese e parrocchie sono oggi chiuse, quasi chiuse, deserte. Quanti conventi sono vuoti. O si parla, col vostro assordante silenzio, di riconvertire quei luoghi di culto in ristorazioni, b&b, centri sociali, nella migliore delle ipotesi luoghi di ricovero e accoglienza.
La causa di tutte queste chiusure non sono le giunte di destra, il governo Meloni, la barbarie dei fascisti al potere, o i fantomatici assalti nazisti a sale, librerie, chiese e teatri. Ma la ragione evidente è la mancanza di utenti, di frequentatori, di credenti, di lettori, di spettatori dal vivo. In una parola il mercato, o in casi più elevati la comunità, gli affini. La ragione culturale retrostante è il dominio di un modello anti-culturale e globale fondato sui consumi, le merci e la tecnologia. La stessa forza che sradica, distrugge, spegne ogni conato di appartenenza, cultura, valori, fede e che voi in ambito ideologico salutate come emancipazione, liberazione, progresso. Pensavate che liberandosi delle antiche fedi e superstizioni delle società patriarcali, avremmo avuto una più larga fruizione della cultura, del pensiero, dei libri e del senso critico. Invece è accaduto che se spegni l’una poi si spegne anche l’altra, senza il mito non regge la storia, senza religione si spegne poi anche la filosofia, senza la fede si può fare a meno anche della cultura, della storia, della scienza perfino, salvo per l’utilità che produce trasformandosi in tecnologia.
Non è il cinema la vittima o il nemico del Male Consumista, ma la civiltà, che comprende tutto, tradizioni, fede, cultura, libri, memoria storica, senso del bello, amore per l’arte... E non possono essere assurdi decreti regionali, manifesti di intellettuali e cineasti, comizi e mobilitazioni del valoroso popolo cinematografaro, a cambiare la situazione. È un discorso più radicale a cui si può rispondere solo col realismo pratico quotidiano e con un cambio di pensiero e di paradigma nelle cose grandi e lungimiranti. Entrambi estranei ai vostri indignati documenti e relative firme, che non cambiano niente, ma servono solo a mostrare la vostra superiorità etica, morale sui mostri che non la pensano come voi; per assolvervi da ogni possibile corresponsabilità e per scaricare ogni problema del nostro tempo sui barbari populisti che a causa di quella deprecabile anomalia che è la sovranità popolare, vanno al governo per via elettorale. Ma questo è un film che vi girate nelle vostre teste.
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Ci è voluta una dose abnorme di insipienza politica e sociale per demolire, man mano, una delle istituzioni più importanti della sanità italiana. Una volta si chiamava medico condotto, poi, medico di base e di famiglia. Cosa è successo distruggendo questa figura o riducendola ai minimi termini? Si è eliminato il primo e più importante referente per le questioni della salute delle famiglie, dei singoli, delle fasce più deboli della popolazione e, prima di tutto, degli anziani. Per decenni, quello che si chiamò medico condotto ha accompagnato i cittadini italiani nel loro percorso, più o meno problematico, dal punto di vista della salute. Si trattava di un dottore che dipendeva dai Comuni italiani e che prestava assistenza gratuita ai poveri e, dietro pagamento, agli altri cittadini. Fu sostituito dalla Legge numero 833 del 23 dicembre 1978 con il cosiddetto «medico di famiglia».
Doveva essere un’evoluzione di quella figura e, in effetti, poteva esserlo, perché doveva rappresentare l’organizzazione e la gestione della «presa in carico» delle persone in modo coordinato e integrato, prestando le cure primarie e facendo da interfaccia tra il paziente e le strutture che offrivano le cure più specialistiche richieste dal medico di base stesso. Ho ricordi personali meravigliosi del medico condotto della nostra famiglia, poi medico di base, che conosceva alla perfezione la storia clinica di ognuno di noi e che, in caso di necessità, ci veniva spesso a visitare a casa.
E poi ricordo anche le telefonate che faceva direttamente ai vari primari dell’ospedale di Lucca con i quali intratteneva, come ogni altro medico di base, rapporti diretti senza pastoie burocratiche, ma basati su una comune professionalità e umanità che distingueva quel periodo della storia della sanità italiana. Mi riferisco agli anni Sessanta e Settanta in particolare.
Ebbene, l’età dell’oro di quella che oggi si chiama medicina territoriale è stata frantumata a favore di una burocratizzazione di tutto il sistema, fino alla scomparsa del rapporto personale tra medico e paziente. Un disastro che si perpetua da troppi anni, del quale ci siamo occupati tante volte e di cui continueremo a occuparci convinti che se non si ripristina questo sistema i pazienti, soprattutto quelli più deboli, si troveranno sempre più soli davanti a una burocrazia che non sono in grado di affrontare perché troppo complessa e anche troppo digitalizzata. Non si può chiedere a un paziente di settanta od ottanta anni di mettersi al pc per chiedere aiuto per la propria salute. E non si può chiedere al medesimo paziente di passare ore al telefono per prenotare una visita specialistica. Tutto questo contraddice il dettato della Costituzione riguardo il diritto alla salute che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dalle possibilità economiche dei singoli cittadini.
Sembra che qualcosa si stia muovendo. Intanto dobbiamo ricordare che nei prossimi anni, su 37 mila medici di famiglia circa 10 mila andranno in pensione. Dunque, la riforma non è più rinviabile perché gli esiti di questo calo sarebbero disastrosi. Speriamo che la riforma della Medicina di base proposta dal ministero della Salute che fa capo al ministro Schillaci (che ancora è una bozza) veda la luce quanto prima. Comunque, potrebbe significare un passo in avanti. Certo, non sarà perfetta, perché contiene molti punti discutibili. Per esempio, la figura attuale del medico di base, che in questo momento è un libero professionista (in osservanza dell’art. 8 della Legge 502 del 1992), verrebbe a essere sostituita da quella di un medico dipendente dello Stato. I nuovi medici verrebbero dunque a essere assunti, mentre quelli più anziani potrebbero scegliere la forma del loro contratto.
Ci sono dei punti importantissimi, tra gli altri, che sono i seguenti: i medici dovrebbero garantire l’attività presso gli studi e presso le nuove cosiddette Case della comunità con orario dalle 8 alle 20 e la possibilità di realizzare, senza dover ricorrere all’ospedale, diversi esami strumentali e molte analisi; dovrebbero inoltre, questi medici, assicurare la presenza per almeno 25 ore settimanali e garantire - fatto fondamentale - visite domiciliari per chi non può recarsi in ambulatorio.
Questo di certo alleggerirebbe l’intasamento che oggi si verifica costantemente e in modo diuturno nel Pronto soccorso che, di fatto, è diventato il sostituto del medico di base. Una follia. La riforma si può discutere, emendare e migliorare, ma speriamo che sia fatta al più presto. Almeno si imbocca di nuovo la strada che porta nella direzione giusta. n
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L’ultimo comandamento di Ursula Von der Leyen è per l’appunto questo: “Una potenza di fuoco da 800 miliardi” per armare l’Europa contro la minaccia russa. Dove si debba andare a prendere questa montagna di denaro, in un continente già prostrato dalla crisi economica, occupazionale e demografica, fa parte di un piano scritto sulle nuvole. Parte di questi soldi andrebbero presi a debito, un’ulteriore zavorra sulla pelle delle future generazioni. Circa 94 sarebbero poi dirottati dal fondo per la coesione, che in teoria servirebbe a favorire la crescita dei paesi più poveri d’Europa. Ma oggi, la crescita è un optional: ci sono altre priorità. Non più la transizione ecologica, con la quale si baloccavano i membri del Politburo di Bruxelles mentre il mondo s’imbastardiva a loro insaputa. Non più l’emergenza sanitaria, non più gli eurodeliri legati ai vincoli di bilancio, che per anni hanno soffocato la crescita sull’onda dell’ideologia “zero debito”.
Adesso, l’imperativo è militare: Von der Leyen, forte di alcun consenso elettorale, preme sull’acceleratore del carro armato, e ancora una volta opinioni dissenzienti non sono ammesse. Come se dall’oggi al domani, con un piano scritto in poche ore, nella penombra dei palazzi della Mitteleuropa, il Vecchio Continente potesse dotarsi di forze armate comuni in grado di difenderne i confini. Proprio così: i confini. Quelli che sono stati snobbati per anni, quando l’Italia, il più delle volte, era la sola a chiedere una forza comune in grado di pattugliarli.
Oggi, ammesso che tale “force de frappe” da 800 miliardi possa davvero essere allestita, si aggiungono interrogativi non banali: con quali aziende della difesa dovremmo costruire l’esercito europeo? E chi lo guiderà? Chi farà in modo che i contingenti sparino nella stessa direzione? Il punto è che, mentre nelle sacre stanze comunitarie ci si incaponiva sullo zerovirgola di questo o quel bilancio, l’unità politica europea – che presiede, da sempre, a quella militare – è sempre rimasta un miraggio. Calpestato dai protagonismi sprezzanti delle Merkel, dei Sarkozy, dei Macron: tutta gente per cui l’Europa unita e tale solo se al comando ci sono loro.
E pensare che il motto che ha inaugurato, a casa nostra, la guerra in Ucraina, fu “pace o condizionatore”. Oggi ci si prepara alla guerra, e in ogni caso la bolletta del condizionatore è destinata a schizzare all’insù. Con un sospetto sempre più solido: quando i provvedimenti vengono fatti ingurgitare in fretta e furia sul tamburo dell’allarme permanente, di norma qualcuno ci guadagna. Di norma, sempre i soliti.