Panorama
È di due morti e 13 feriti il bilancio del crollo di un ballatoio alle famose Vele di Scampia, L'incidente è avvenuto nella tarda serata di ieri alla Vela Celeste; tra i feriti ci sono numerosi bambini. Centinaia di persone hanno passato la notte in strada per la paura di altri cedimenti strutturali. I Vigili del Fuoco stanno effettuando verifiche sulla tenuta degli stabili.
Riprogettare le aree urbane con una rete digitale integrata che offre informazioni continue a chi ci vive e a chi le deve far funzionare. La trasformazione in «smart city» è già avviata. E un’impresa italiana sta lavorando su un caso vicino e importante anche per il nostro Paese: Monastir, in Tunisia.
Con l’urbanizzazione che continua a crescere, e la stima che entro il 2050 il 68 per cento della popolazione mondiale vivrà in città, il concetto di smart city, la città intelligente, emerge in tutta la sua importanza. Se uno volesse definirla, potrebbe dire che è un’area in cui le tecnologie informatiche vengono usate per creare un ambiente urbano più efficiente e sostenibile così da migliorare i servizi, la gestione delle risorse e la socializzazione.
Ma dal momento che più delle definizioni possono gli esempi, eccone uno che riguarda le future città della Tunisia e vede l’Italia coinvolta con le tecnologie per il rilevamento aereo ad alta risoluzione: visto l’aumento vertiginoso della sua popolazione e la necessità di pianificare l’uso delle risorse, la Tunisia ha deciso di costruire 22 nuove città che si affacceranno sul mare sfruttando territori disabitati o dove le costruzioni sono obsolete e poco sostenibili.
Facile intuire che le istituzioni europee hanno favorito questo progetto proprio perché luoghi più vivibili ed efficienti sono un ottimo antidoto contro l’emigrazione.
«Noi abbiamo vinto uno dei bandi del ministère de l’Equipement et de l’Habitat tunisino che riguardava la realizzazione della cartografia digitale di circa 70 mila ettari di territorio» racconta Paolo Pari, ingegnere e amministratore delegato di DigiSky. «L’abbiamo realizzata installando su aeroplani gli stessi sensori sviluppati per i satelliti, capaci di fornire una mappa stereoscopica digitale del territorio della risoluzione dell’ordine del centimetro. È una mappa che segnala i rilevi del terreno, la geologia del territorio, la presenza di linee di comunicazione e molto altro ancora. In poche parole, abbiamo fornito la base digitale sulla quale altri ingegneri hanno costruito al computer la simulazione delle nuove città intelligenti, incluse le ricostruzioni di Monastir, Nabeul, Hammamet, Djerba e parte di Tunisi. Mi si passi l’espressione: la nostra mappa davvero suggerisce agli ingegneri dove mettere il singolo mattone».
E qui, prima di descrivere i passi successivi della creazione di queste città intelligenti, va precisato che la tecnologia della torinese DigiSky, che ha tra i suoi fondatori l’astronauta Maurizio Cheli, si giova della collaborazione dell’Esa (European space agency). Questa azienda ha ora una flotta di quattro aerei che volano ad alcune centinaia di metri dal suolo con un sistema di sensori per la raccolta dati che migliorano le immagini dei satelliti.
Una smart city nasce sulla base di un fotogramma digitale ad alta risoluzione come quello fornito da Digisky. Al computer, vengono disegnati punto per punto edifici, giardini, ponti, asili, scuole, centri commerciali, piazze e altro ancora. La prima simulazione intelligente viene poi discussa ed eventualmente modificata.
Ci sono obiettivi minimi da raggiungere, quelli che rendono una smart city differente da un agglometrato urbano tradizionale. Prima di tutto, ogni cittadino dovrà avere tutto ciò che gli serve a poca distanza dalla sua abitazione. Occorrerà poi integrare la tecnologia dell’informazione e della comunicazione con i vari dispositivi fisici connessi alla rete per ottimizzare l’efficienza dei servizi.
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Dal Mondo
Parigi 2024, tra ritardi e treni cancellati riprende lentamente la circolazione ferroviaria
26 July 2024
A poche ore dall'apertura ufficiale dei Giochi Olimpici a Parigi, le ferrovie francesi sono state prese di mira da atti terroristici che hanno paralizzato l'intera rete. Tre incendi nei pressi dei binari, sulle linee Atlantica, Nord ed Est, hanno gravemente disturbato il traffico, bloccando quasi completamente la stazione di Montparnasse a Parigi.
L'attacco massiccio contro la rete dei treni ad alta velocità TGV, che provocherà interruzioni fino al termine del fine settimana secondo l'amministratore delegato della Sncf, Jean-Pierre Farandou colpisce circa un milione di persone. Mentre scriviamo due terzi dei treni sono stati soppressi sull'asse TGV Atlantique, sia in partenza che in arrivo alla stazione di Montparnasse, riferisce la Sncf. I treni per la Bretagna e i Paesi della Loira «passano attraverso la linea classica, aggiungendo due ore al tempo di viaggio», sottolinea Franck Dubourdieu, direttore della linea TGV Atlantique. Anche i treni diretti verso il Sud-Ovest viaggiano sulla linea ad alta velocità, ma subiscono ritardi. La procura di Parigi ha avviato un'indagine sugli attacchi incendiari che hanno colpito la rete ferroviaria francese ad alta velocità. L'inchiesta è affidata alla Giurisdizione nazionale per la lotta alla criminalità organizzata. La procura ha dichiarato «di essere competente per i reati che causano danni alla proprietà e minacciano gli interessi essenziali della nazione» e ha precisato che tali reati possono comportare una condanna fino a 15 anni di carcere e una multa di 225.000 euro. Inoltre, ha aggiunto che i reati di «degradazione e tentativo di degradazione con mezzi pericolosi in un contesto di gruppo organizzato possono portare a pene detentive di 20 anni e multe di 150.000 euro».
Chi è stato? Le ipotesi avanzate negli ultimi giorni da ambienti investigativi francesi (confermate stamattina da Le Parisien) su una possibile pista che porta al terrorismo ecologista dietro il sabotaggio ferroviario avvenuto il giorno dell'apertura delle Olimpiadi di Parigi, giungono a pochi giorni dal proclama del gruppo radicale Just Stop Oil, che ha annunciato «l'inizio di una rivolta globale contro i trasporti e l'inquinamento». Questo messaggio è stato diffuso attraverso un video nel Regno Unito, dopo un tentativo di blitz (che ha portato a nove arresti) anche all'aeroporto londinese di Heathrow, uno dei principali aereporti del traffico aereo europeo. Contestualmente, eco-terroristi tedeschi hanno condotto un'iniziativa simile all'aeroporto di Colonia-Bonn, come indicato nello stesso video dell'organizzazione affiliata Last Generation. L'annuncio era stato seguito da un'irruzione riuscita all'aeroporto di Francoforte, in Germania, bloccato per alcune ore, e da blitz in Stati Uniti e Canada contro il traffico stradale e aereo.
Just Stop Oil è una campagna che chiede il divieto totale degli idrocarburi, mentre Last Generation denuncia tutte le forme di inquinamento considerate cause dei cambiamenti climatici. Entrambe le organizzazioni rivendicano la disobbedienza alle leggi come una necessità per scuotere il mondo e denunciare governi e imprese di fronte all'emergenza climatica e ai rischi per il pianeta. Uno degli atti di sabotaggio è stato sventato questa notte nell'Yonne. I ferrovieri, impegnati in operazioni di manutenzione, hanno notato la presenza di persone non autorizzate e hanno immediatamente avvertito la gendarmeria, costringendo i trasgressori alla fuga. Gli autori del reato « hanno incendiato le grondaie dove passano i cavi in fibra ottica che trasmettono informazioni di sicurezza per i conducenti e controllano i motori degli interruttori. Si tratta di molti cavi che devono essere riparati uno per uno, ed è un'operazione manuale», ha spiegato i responsabili delle ferrovie aggiungendo che sono stati mobilitati centinaia di agenti per gestire la situazione.
Questa mattina come scrive Le Figaro, durante la conferenza stampa di lancio dei Giochi di Parigi al Club France, Amélie Oudéa-Castéra ha commentato gli atti di sabotaggio che hanno colpito la rete TGV della Sncf ieri sera. «Questa non sarà né la prima né l'ultima delle difficoltà che affronteremo», ha dichiarato il Ministro dello Sport e dei Giochi Olimpici e Paralimpici. L’impressione pero’ è che queste Olimpiadi siano partite molto male e di solito questo è un cattivo presagio.
Due visioni in opposizione di un settore della nostra economia che vale 70 miliardi l’anno di export. Da una parte, quella d’impronta «industriale» della nuova Unione Italiana Food, sostenuta da Confagricoltura. Dall’altra, chi vuole promuovere le esigenze e le ragioni dei piccoli imprenditori che si oppongono rifiutano la logica delle multinazionali. Ettore Prandini, presidente di Coldiretti ed esponente di questo fronte, ne parla con Panorama.
«Che sia una nuova «battaglia del grano»? Potrebbe essere, visto che coinvolge Paolo Barilla, la sua Unione Italiana Food, la Confagricoltura ormai avviati sulla strada che Mediterranea è un marchio e non un modo di produrre. Lo scontro è tra chi pensa che l’agricoltura sia fatta di commodity, di merci di massa, e sia ancella all’industria e chi invece difende il primato delle produzioni, il reddito di chi coltiva e insiste perché la dieta mediterranea sia un valore culturale. Primo alfiere di questo fronte è Ettore Prandini, presidente di Coldiretti.
Il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti vi accusa di boicottare Mediterranea, che lui propone come modello per sviluppare il mercato delle filiere italiane. Dove sta la ragione, Prandini?
«Mi soffermo sulle dichiarazioni di Paolo Barilla, presidente di Unione Italiana Food. Ha affermato che le industrie a questa associate acquistano il 70 per cento dei prodotti agricoli italiani. Non è vero. Basta considerare che filiere centrali come vino, olio, carni, formaggi non sono rappresentate da quella realtà. Non possiamo generare confusione nei cittadini, non possiamo ingannare i consumatori e far credere alle istituzioni ciò che non rappresenta la verità. Barilla, da presidente di Unione Italiana Food, ha voluto un’associazione che gioca sul’equivoco già nel nome: Mediterranea. Ci sono responsabilità chiare in questa vicenda. È stata fatta una scelta. Prima lanciando Unione Italiana Food, che mette insieme per lo più aziende di merendine, dolci, caramelle e medicinali: il regno dell’ultra-processato e della farmaceutica alimentare. Quelli che vedono il cibo come separato da natura e agricoltura, già questo ci pare una stridente contraddizione. Poi Unione Italiana Food finisce per funzionare da cavallo di Troia per gli imperi multinazionali. Così si svende una storia».
Giansanti afferma che Mediterranea aiuterà anche i piccoli produttori...
«Il presidente di Confagricoltura sostiene che questa alleanza con Unione Italiana Food incrementerà la crescita del nostro settore a beneficio, non solo delle multinazionali, ma di tutte le aziende fino alle più piccole. È un’altra contraddizione in termini. Le multinazionali sono il simbolo delle commodity, del prezzo globale. Si pensi a cosa succede nel nostro Paese: il settore cerealicolo è in forte difficoltà; le rese per superficie quest’anno avranno un calo del 50 per cento e il prezzo con minor prodotto dovrebbe aumentare. Invece succede il contrario, perché arriva grano d’importazione di cui è lecito dubitare in termini di qualità e dell’italianità, sia nel mondo agricolo sia nell’industria o nella cooperazione. È possibile immaginare che si possano coniugare i vantaggi che scaturiscono da Mediterranea per le multinazionali, con gli interessi che hanno le piccole imprese delle coltivazioni?»
Si torna così a un tema centrale nell’Unione europea: l’etichettatura d’origine. Ursula von der Leyen ve l’aveva promessa…
«Abbiamo incontrato la presidente della Commissione Ue pochi giorni fa e le abbiamo ripetuto che ci aspettiamo
un cambiamento di passo. Su due fronti: la tutela dei prodotti dei campi anche attraverso la smentita di quella folle equazione secondo cui agricoltura e ambiente sono rivali. Purtroppo temo che si tornerà alle vecchie logiche del «Farm to Fork»; se dovesse accadere l’Europa conoscerà la nostra opposizione ferma. Il secondo fronte è l’etichettatura d’origine che significa difesa del lavoro agricolo, della specificità e dell’identità. Si sentono forti richiami all’indice Nutri-score che piace ai soci di Unione Italiana Food. Noi difendiamo il prodotto italiano: se verranno confermati i dati significano 70 miliardi dall’esportazione dei prodotti di qualità. E poi c’è il tema delle risorse. Negli Stati Uniti stanziano 1.400 miliardi di dollari, la Cina è diventato il primo produttore al mondo. Noi europei con 386 miliardi in sette anni rischiamo la colonizzazione».
La battaglia su Mediterranea significa sbarrare la strada alcuni colossi multinazionali, come Nestlè, Mondelez, Lactalis e Unilever? Coldiretti contro il resto del mondo?
«Non solo Coldiretti. Insieme con noi ci sono tante associazioni, anche di consumatori. E poi ci sono il Segretariato permanente comunità emblematiche Unesco della Dieta mediterranea, il comune di Pollica, il Centro studi Dieta mediterranea Angelo Vassallo e il Museo vivente della Dieta mediterranea. La nascita di Mediterranea è un chiaro attacco al Sistema Italia, al made in Italy, è il tentativo di accaparrarsi una quota del valore, inestimabile, rappresentato dalla dieta mediterranea. Realtà che investono sul cibo da laboratorio, che subiscono multe milionarie per pratiche sleali e per ostacoli al commercio che c’entrano con la dieta mediterranea? Parliamo di Unilever, che ha appena annunciato 3.200 licenziamenti in Europa, Mondelez, condannata a pagare oltre 330 milioni di euro di multa per ostacoli al commercio; parliamo di Nestlè, che sostiene l’etichetta ingannevole che è il Nutri-score; e, ancora, Lactalis, multata in Italia per pratiche sleali proprio dopo la nostra denuncia. Con Mediterranea c’è una pianificazione finalizzata alla «disintermediazione» della rappresentanza agricola e in contrapposizione all’idea di costruire filiere italiane eque, giuste e trasparenti. Coldiretti festerggerà a breve i suoi primi 80 anni. Siamo figli e nipoti della riforma agraria voluta da Paolo Bonomi, fondatore della Coldiretti. Siamo quelli che hanno inventato i mercati contadini, la multifunzionalità. Quelli che combattono la carne artificiale e che hanno ottenuto una legge contro le pratiche sleali e che si battono per le etichette trasparenti. Da questa nostra storia nasce il nostro futuro. Unione Italiana Food e Confagricoltura nulla dicono contro l’«italian sounding» che utilizza nomi con assonanze del nostro Paese per commerciare i prodotti».
A suo giudizio, per quale motivo?
«Come ho detto arriveremo a 70 miliardi di euro di esportazione. Se non ci fosse l’imitazione di prodotto italiano quel fatturato estero raddoppierebbe a beneficio prima di tutto degli agricoltori. Barilla è accusata di ingannare i consumatori, marchiando i pacchi di pasta con lo slogan «Italy’s #1 Brand of Pasta» accompagnato dal tricolore. Si tratterebbe di una pratica sleale perché avrebbe indotto i consumatori americani a credere di acquistare una pasta fatta in Italia, mentre in realtà era prodotta con grano americano in stabilimenti degli Stati di New York e Iowa. Vedremo come finirà, ma essere accusati di italian sounding per un importante marchio nazionale è già un’onta. Il giudice ha dato via libera alla «class action», certificandola. Si apre una questione che, in ogni caso, danneggia il made in Italy».
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Un predicatore islamico di Bologna ha lanciato l’accusa di apostasia, punibile con la morte, nei confronti di Magdi Cristiano Allam. Un affronto alla nostra civiltà.
La settimana scorsa, su La Verità, Magdi Cristiano Allam si è rivolto al ministro degli Interni Matteo Piantedosi in un articolo in cui racconta come l’imam di Bologna lo abbia accusato di apostasia, di fatto rinnovando la condanna a morte che pende su di lui da quando scrisse il libro Viva Israele. Il fatto è molto grave, deve preoccuparci parecchio che un imam si permetta in totale contrasto con la legge italiana, che prevede la libertà di religione e di culto, di lanciare accuse di questo tipo. L’imam di Bologna, o sedicente tale, si chiama Zul-fiqar Khan, cittadino pachistano e imam, appunto, del Centro islamico Iqraa.
Questo imam è già noto per le sue affermazioni violente soprattutto contro gli ebrei, Israele e gli Stati Uniti ma anche nei confronti degli omossessuali e della nostra civiltà laica.
Nonostante alcuni parlamentari abbiano chiesto di intraprendere azioni nei suoi confronti, chiedendo l’espulsione immediata, si è permesso di riservare, come scrive Magdi Cristiano Allam: «Due sermoni e altrettanti video in quarantotto ore per condannarmi sostanzialmente come “nemico dell’islam” e “collaborazionista di Israele”». Continua Allam: «Nei suoi due video il sedicente imam ha sottolineato che sono un apostata, cioè un musulmano che ha abbandonato l’islam... tutti i musulmani sanno che l’apostata deve essere ucciso, conformemente a un detto e una prassi di Maometto». L’imam continua e appesantisce le accuse: «…non lasciamo spazio ai bugiardi, non lasciamo spazio che parlano male di Gesù Cristo, che parlano male di qualsiasi profeta ebreo e non ebreo… e questo Magdi Cristiano Allam dice che i musulmani vogliono che tutta l’Europa si sottometta all’islam».
Mi pare che questo imam abbia superato il limite della tollerabilità e della legittimità a rimanere nel nostro Paese ormai da tempo e ripetutamente; che questo imam sia un musulmano di quelli che in Italia parlano di «nemici dell’islam», «apostati», «traditori», «collaborazionisti di Israele». Questi islamici, come scrive lo stesso Allam: «Hanno proferito queste espressioni pur dicendosi appartenenti all’islam moderato, legati ideologicamente ai Fratelli musulmani e allo stesso Hamas di cui è parte integrante».
Ora, bisogna ricordare che secondo il Pew Research Center la percentuale di musulmani in Europa è aumentata dall’1,4 per cento del 1950 al 6 per cento del 2020. In termini numerici ciò significa, per esempio, che la popolazione musulmana è passata da circa 29 milioni di persone nel 1990 a circa 44 milioni nel 2010 e più di 50 milioni nel 2023, e si prevedono incrementi maggiori nel futuro. Sempre secondo questo centro di ricerca, si prevede che la popolazione musulmana in Europa potrebbe crescere fino a rappresentare l’11,2 per cento della popolazione totale del continente entro il 2050.
Naturalmente le fonti di questo incremento sono da attribuirsi alle migrazioni, alla giovane età e ai tassi di fertilità più alti della popolazione musulmana rispetto alla media europea. Scrive ancora la ricerca che in uno scenario di alta migrazione i musulmani potrebbero crescere a oltre 75 milioni, rappresentando circa il 14 per cento della popolazione europea. Sempre la stessa ricerca sottolinea che è stato osservato un aumento significativo dell’interesse nei confronti dei processi di conversione all’islam, soprattutto tra i giovani e sulle piattaforme sociali come TikTok, che la dice lunga sul livello di profondità, consapevolezza e scelta esistenziale di queste conversioni.
Detto tutto questo, non significa che bisogna bloccare l’islam ma che bisogna bloccare quegli irresponsabili che violano palesemente la legge italiana come il caso di questo «signore» imam di Bologna. E in tal senso non stiamo facendo quello che dobbiamo fare, alimentando così la possibilità che questi signori influenzino menti fragili, ma anche non fragili, e che si convincano che la legge religiosa può imporsi in modo legittimo anche quando è in aperto contrasto con la legge civile, i diritti fondamentali, il patrimonio occidentale dei diritti umani.
La comunità islamica dei cosiddetti musulmani moderati poco fa per additare come questi signori stiano palesemente violando le leggi del Paese che li ospita. Non basta che la comunità islamica sostenga, attraverso i suoi rappresentanti, che quelli non sono islamici. Se non sono islamici, perché la comunità musulmana non fa di tutto perché venga chiuso questo centro islamico a Bologna e sia indicato come apostata lui e non Magdi Cristiano Allam?
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Da una parte un flusso di visitatori pesantissimo che si concentra sulle città d’arte e i principali centri di richiamo. Dall’altra, lo spopolamento dei borghi e delle aree interne per cui la Regione ora corre frettolosamente ai ripari con contributi e bonus. Quello che manca, però, è una rete di servizi che blocchi davvero l’esodo di popolazione.
Le città scoppiano di turisti che le trasformano in parchi giochi part-time, mentre i borghi si svuotano e i piccoli paesi che nei secoli hanno costituito l’essenza stessa della Toscana diventano villaggi fantasma, abitati da una manciata di anziani. È il paradosso che vive la regione dell’«overtourism»: prima ha svenduto ai corteggiamenti del viaggiatore (poi del villeggiante) Firenze e Pisa, quindi Siena e l’intera Versilia, per diventare adesso - parafrasando James Joyce, che in quel caso si riferiva a Roma, in situazione non troppo diversa - «un uomo che si mantiene esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna».
Sospesa tra un flash al monumento e un improbabile tripe and lampredotto, questa terra è da sempre «un marchio doc»; ma pare che ne sia andata persa la sostanza che convinceva Guido Piovene, viaggiatore instancabile, a includerla «tra le regioni del mondo più famose per la loro bellezza».
Secondo i dati degli uffici regionali, sono stati oltre 14 milioni e 600 mila gli arrivi registrati nelle strutture ricettive toscane nel 2023 e quasi 46 milioni le presenze. Naturalmente Firenze è la destinazione per eccellenza, con un numero medio di 4,5 milioni di visitatori che frequentano il Duomo, uno dei suoi simboli. La città calamita turisti da tutto il mondo, con una presenza notevole dagli Stati Uniti, circa il 52 per cento del totale tra gli arrivi internazionali. Molti di quei visitatori, però, sceglie di fermarsi acquistando a prezzi da capogiro le ville della costa o del Chianti, di fatto creando «ghetti di lusso» che si animano solo in determinati periodi l’anno e che sono tabù per i locali. I quali, sempre più di frequente abbandonano quelle zone di richiamo per traslocare in città maggiormente a buon mercato. Ancora alcune cifre significative rendono le dimensioni del problema: in Toscana ci sono 3,7 milioni di abitanti. E solo in hotel e b&b sono arrivati nel corso di un anno il quadruplo dei residenti ufficiali. Per non parlare di turisti in generale, coloro cioè che non si fermano neanche una notte: 13 volte tanto. È come se in un solo anno l’intera Spagna si fosse riversata in una singola regione italiana.
Una marea di persone che ovviamente rappresentano un «energy drink» per l’economia locale - su scala nazionale parliamo di 90 miliardi di euro - ma che allo stesso tempo pone drammatici interrogativi.
Il primo lo solleva Sarah Gainsforth, autrice del saggio Airbnb città merce (DeriveApprodi), che nota come «le città non abbiano la capacità di carico infrastrutturale per sopportare questi numeri di ingressi a cominciare dalla gestione dei trasporti, dei rifiuti, dei servizi, che sono comunque pagati dai residenti. Il turismo consuma più risorse di quante ne produce. Le amministrazioni calcolano tutto questo?».
Evidentemente in Toscana non è così. Tanto che, rispetto a una Piazza del Campo o una Torre di Pisa che traboccano di stranieri, colpisce il deserto di Pitigliano - oggi completamente abbandonato - ma anche piccoli centri famosi come Montepulciano o San Gimignano che, dopo l’assalto estivo, «si spengono» in un lungo letargo invernale.
Le rilevazioni Istat più recenti (2022) non sono che una premessa di quello che accade oggi e rivelano come alla crescente denatalità si affianchi anche un accentramento verso le province di Firenze (27 per cento), Pisa (11,4) e Lucca (10,4) e soprattutto un saldo naturale fortemente negativo (-27.293), compensato solo da quello migratorio estero (+22.220). Anche in tal caso sono interessanti i dati di Firenze: la provincia con il più basso saldo naturale (-6.674) e con quello migratorio estero più alto (+6.794).
«I problemi del turismo di massa sono lampanti se consideriamo due fattori: la questione abitativa e l’aumento della povertà» aggiunge Gainsforth. «L’emergenza abitativa è sempre più grave per la diffusione degli “affitti brevi turistici”. Questo ha varie conseguenze: da una parte la desertificazione commerciale nel cuore delle città, dovuta anche alla crisi della domanda dei residenti; la scomparsa dei servizi pubblici (le scuole, per esempio, ma anche gli ospedali) nei centri turistici». Su tutti, il capoluogo toscano offre, ancora una volta, un caso da manuale. Solo nel periodo estivo del 2023 Firenze ha chiuso con +8,3 per cento di arrivi e +6,9 di presenze rispetto al 2022. In valori assoluti i pernottamenti nelle strutture ricettive hanno superato i 4,6 milioni, circa 299 mila in più dell’anno precedente. Se c’è spazio per i turisti, non si può dire lo stesso per i fiorentini. «In città ci sono 20 mila famiglie in emergenza abitativa» denunciano dal Sunia-Cgil di Firenze. A conti fatti, tenendo presente che in città sono attualmente 362.742 i residenti e che le famiglie sono 187.383, poco più di una su 10 si trova in condizione di necessità. E non potrebbe essere altrimenti poiché gli affitti sono spesso inarrivabili: per le ultime indagini, il canone «si mangia» quasi metà dello stipendio, il 46,5 per cento, undici punti in più della media nazionale. Non stupisce, allora, che negli ultimi 20 anni 148 mila residenti abbiano detto addio a Firenze. Il turismo incontrollato non genera in effetti ricchezza, ma povertà. E all’orizzonte non si vedono misure alternative. Al riguardo, l’esempio è recentissimo: il Tar ha bocciato la variante al regolamento urbanistico che introduceva il divieto di affitti brevi nella centralissima «area Unesco» di Firenze. Lamenta Carlo Marini, nato nello storico quartiere di San Frediano: «Sono scappato perché questo è un posto per chi ha tanti soldi e vuol stare con il naso all’insù. Bellissima città per i capolavori, ma fra traffico, lavori continui per nuovi alberghi e b&b, oggi è invivibile. Me ne vado all’estero perché tanto la Toscana è finita» conclude amaro.
Per intercettare chi fugge dalle aree urbane - fallimento palese di una politica che trascura la maggioranza dei suoi cittadini - la giunta regionale guidata da Eugenio Giani ha sperimentato un bando con cui paga fino al 50 per cento delle spese, per un massimo 30 mila euro - per chi si trasferisce in uno dei centri di montagna con meno di 5 mila abitanti prossimi all’abbandono. Comuni quali Capraia, Sambuca Pistoiese, Vagli Sotto, ma anche Minucciano e Castiglione di Garfagnana, Stazzema e San Romano. Luoghi bellissimi che toccano a mala pena le centinaia di abitanti. Si tratta di una misura che tuttavia non convince. «Mi ricorda il famoso proverbio che sottolinea il differente impatto tra regalare un pesce e insegnare a pescare» attacca il consigliere regionale della Lega, Marco Landi. «Riportata all’attualità, quanto è utile prevedere contributi per comprare una casa in uno dei 75 comuni compresi nel bando, se prima non si è intervenuti per rendere quei luoghi vivibili? Non discuto il loro fascino, quanto la qualità dei servizi disponibili: sanità, istruzione, trasporti. Posso anche regalare una casa; ma se l’ospedale più vicino si trova a un’ora di auto, se recarsi a scuola o al lavoro rischia di essere un viaggio della speranza, allora il bonus diventa inutile».
La questione è complessa, d’accordo. Purtroppo, però, non sarà sufficiente un provvedimento «spot» a ridare vita a borghi come Sassetta (473 abitanti in provincia di Livorno) o Fosciandora (559 in quella di Lucca). Che, fra l’altro, meritano un viaggio.
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In una intervista al Financial Times, Christian Malek di JP Morgan sostiene che il mondo avrebbe bisogno di un “reality check” sul passaggio dalle fossili alle rinnovabili “che può richiedere diverse generazioni per conseguire gli obiettivi di net zero”. Questo significa che la narrazione più gettonata, su una presunta accelerazione della transizione energetica fa parte più degli auspici che della realtà.
La rivista Energia, trimestrale fondato e diretto dall’ex ministro Alberto Clò, riporta i dati pubblicati dal Statistical Review of World Energy dai quali emerge che l’abbandono totale dei fossili e l’adozione totalizzante delle rinnovabili, potrebbe richiedere ben oltre un secolo. Nel frattempo, questo non lo dice il report ma è la logica deduzione, i Paesi che hanno puntato la prua verso le fonti green si saranno impoveriti, indebitati, diventando schiavi di chi in Asia continua a investire sui carburanti tradizionali.
Lo Statistical Review of World Energy fa aprire gli occhi, smontando gli scenari trionfalistici espressi dall’Agenzia dell’energia di Parigi, secondo cui la transizione energetica sta marciando a gonfie vele, grazie alla crescita delle rinnovabili a più cifre percentuali, così che la fine delle fossili può dirsi ormai prossima o ancora dalla COP 26 dove è stato lanciato lo slogan consigning coal to history.
Clò, esaminando il report, scrive che “i consumi mondiali di energia sono cresciuti nel 2023 del 2%, notevolmente al di sopra della crescita media annua dell’1,4% nel decennio 2013-2023. Si è verificata quindi un’accelerazione dei consumi, e non un loro rallentamento come capita di leggere, interamente dovuta al balzo del 4,3% nei paesi non avanzati contro un calo dell’1,6% in quelli avanzati”. Ne consegue che “l’energia resta quindi un propellente fondamentale per la crescita e il progresso delle popolazioni povere del mondo. A soddisfarla sono state soprattutto le fonti fossili con una quota nel 2023 sui consumi totali dell’81,5% in calo di appena 0,4 punti rispetto all’81,9% del 2022”. guardando alle emissioni, le fossili sono poi aumentate dell’1,6%.
La prima fonte consumata al mondo resta il petrolio che l’anno scorso ha consolidato la sua quota al 31,7%, mentre la seconda fonte, il tanto odiato carbone, è cresciuta in termini assoluti mantenendo sostanzialmente stabile la sua quota al 26,5%. Il risultato di questi andamenti “è l’aumento del 2,1% delle emissioni globali di carbonio riconducibili all’energia – saldo netto tra un calo del 3,2% nel mondo avanzato e di un aumento del 4,5% in quello emergente e povero – che ha portato all’8,3% il loro aumento nel decennio 2013-2023”.
Clò poi sostiene che bisognerebbe investire principalmente là dove le emissioni crescono, all’opposto di quel che avviene con l’85% degli investimenti cosiddetti green realizzati nel mondo avanzato con un’ampia quota in Europa nonostante le sue calanti emissioni contino per appena il 7% di quelle globali.
A conferma di questo scenario ci sono le dichiarazioni del ministro dell’Energia dell’Azerbaigian, Paese dai cui rubinetti dipende l’approvvigionamento di gas dell’Unione europea e soprattutto dell’Italia. Anche se la capitale Baku ospiterà la Conferenza Onu sul clima, la Cop 29 dall’11 al 22 novembre, il ministro non ha avuto alcuna remora a dire che “il gas resterà con noi per decenni”. Pure nel testo Cop28 di Dubai si parla di una transition away “in modo giusto, ordinato e equo”. Significa che non avverrà dall’oggi al domani.
C’è inoltre il tema, spesso sottovalutato, della massiccia costruzione di infrastrutture per la transizione energetica. “Una fase tutt’ora embrionale che durerà decenni e porterà ad un aumento temporaneo della domanda di combustibili fossili e quindi di emissioni di gas serra ma soprattutto di fabbisogni materiali” dice Clò.
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, per raggiungere le emissioni zero nette nel 2050 avremo bisogno di costruire globalmente almeno 80 milioni di chilometri di nuovi elettrodotti, cioè raddoppiare le reti oggi esistenti nel mondo. Un piano che richiede investimenti imponenti e tanto uso di energia fossile.
I luoghi pubblici hanno un’importanza collettiva a cui dedicare nomi condivisi da tutti... Ma le polemiche sull’intitolazione dello scalo di Malpensa a Berlusconi ci ricordano che nel Paese la toponomastica ha un senso sbiadito. Come la nostra identità.
Missione compiuta. Con il secondo mandato di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue, la politica del Vecchio continente è destinata a scarsissimi cambiamenti, tra follie del Green deal, incertezze su lavoro, difesa comune, immigrazione. Intanto il resto del mondo va avanti, veloce.