Anche se in ritardo, Ibra ha percorso sessanta chilometri in moto per raggiungere Sanremo. Era rimasto bloccato a causa di un incidente stradale che l'ha tenuto fermo per tre ore in macchina. Zlatan Ibrahimovic, arrivato in ritardo alla terza puntata del Festival, ha raccontato ad Amadeus: "A quel punto ho chiesto all'autista di farmi scendere, ho fermato un motociclista e gli ho chiesto di accompagnarmi a Sanremo. Per fortuna era milanista! Ho fatto 60 km in moto per salvare il mio Festival e alla fine ho scoperto che per il motociclista era la prima volta in autostrada".
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L'attaccante del PSG Ibrahimovic sta facendo stretching nel tunnel degli spogliatoi prima ...Denis Bergamini a Cosenza il 7 dicembre 2019.
A oltre 31 anni dalla misteriosa morte del calciatore del Cosenza, la verità sembra vicina. La Procura di Castrovillari ha notificato l'avviso di chiusura delle indagini preliminari all'ex fidanzata Isabella Internò, indagata per omicidio volontario pluriaggravato.
Pechino porta il siero a chi non ha accesso ad altre immunizzazioni. Una strategia geopolitica del Dragone per affermarsi come potenza globale della salute. E non solo.
«Anche il prossimo virus verrà dall’Asia»
<img type="lazy-image" data-runner-src="https://www.panorama.it/media-library/eyJhbGciOiJIUzI1NiIsInR5cCI6IkpXVCJ9.eyJpbWFnZSI6Imh0dHBzOi8vYXNzZXRzLnJibC5tcy8yNTcxNzE3Mi9vcmlnaW4uanBnIiwiZXhwaXJlc19hdCI6MTY2MTk4Mjc2OX0.yd46jXGJXZgpLWDowciMVROjI1ygbyZgc74cKlgAy0w/image.jpg?width=980" id="2e1d5" class="rm-shortcode" data-rm-shortcode-id="a3a1e9e55488a01f5a9f29ba99a00ec3" data-rm-shortcode-name="rebelmouse-image" alt="Olsterholm" data-width="2598" data-height="1732" />Il virologo Michael T. Olsterholm, sullo sfondo Wuhan dopo la fine del lockdown nel giugno 2020 (Getty Images).
<p>«A un certo punto esploderà una pandemia diverse volte più grave del Covid-19. Molto probabilmente si tratterà di un nuovo virus influenzale, con lo stesso potenziale della Spagnola, che uccise tra 20 e 50 milioni di persone. Ma questa volta avverrà in un mondo in cui la popolazione è triplicata e gli spostamenti sono molto più frequenti». A prevederlo è <strong>Michael T. Osterholm</strong>, uno dei massimi virologi statunitensi, epidemiologo all'Università del Minnesota, nuovo membro della task force contro il Covid-19 dell'amministrazione Biden; insieme a <strong>Mark Olshaker</strong>, saggista e documentarista, ha scritto il libro <em>Il peggior nemico</em>, edito in Italia da Aboca, che sta scalando le classifiche dei libri più venduti negli Usa. <strong>Panorama</strong> l'ha intervistato.</p><p><strong>Come è stata gestita secondo lei la pandemia negli Usa e, invece, in Europa?</strong><br>«Per molti versi le risposte sono state simili. In entrambi i luoghi ci è voluto tempo per sviluppare piani nazionali e apprendere abbastanza per affrontare la pandemia. La maggior parte dei Paesi europei ha ora piani anti-Covid e, negli Stati Uniti, puntiamo su un solido programma per la vaccinazione di massa».</p><p><strong>Nel libro lei e il coautore scrivete che l'Oms è un organismo che, così com'è, non funziona e non svolge il suo compito, mentre serve una sorta di Nato della salute. Nel concreto? </strong><br>«L'Oms non riesce a entrare in azione in caso di emergenza. Serve piuttosto un'ente simile alla Nato che abbia risorse e capacità di intraprendere rapidamente un'azione coraggiosa. Che capisca che quando una nazione è minacciata, è una minaccia per tutti e, quindi, tutti devono reagire di concerto. Se un'organizzazione del genere esistesse, risorse, ricerca e personale potrebbero affrontare un pericolo infettivo appena emerge. Certo in un ente simile vorremmo vederi inclusi anche i principali attori internazionali come la Cina, così da segnalare subito rischi di questo tipo».</p><p><strong>La prossima pandemia arriverà sempre dall'Estremo Oriente? </strong><br>«Diciamo che ci sono ottime probabilità, per l'elevatissima densità di popolazione e dei tanti casi di esseri umani, animali da fattoria e uccelli domestici che vivono praticamente insieme: la perfetta "ciotola genetica" per mescolare i virus. Certo, poi potrebbe emergere ovunque. L'Hiv, il virus dell'Aids, per esempio veniva dall'Africa. L'influenza H1N1 del 2009 dal Messico e quella del 1918 probabilmente ha avuto origine nel Kansas. Ma è più facile che il salto di specie avvenga laddove gli habitat naturali sono minacciati».</p><p><strong>È vero che più un virus è potente, meno è contagioso?</strong><br>«Non è una regola. Il contagio ha più a che fare con il modo in cui viene trasmesso, per esempio attraverso la respirazione, uno dei veicoli più semplici per la sua diffusione, o il contatto con fluidi corporei, come Ebola. I coronavirus di Sars e Mers non erano meno contagiosi del Covid-19, però erano patogeni non altamente infettivi prima che il malato sviluppasse i sintomi. Una delle grandi sfide di Sars-CoV-2 è che può essere contagioso prima che gli infetti si sentano male: così il contagio passa ad altre persone che rischiano di ammalarsi gravemente o morire, a seconda dell'età o della condizione fisica».</p><p><strong>Il virus della Sars oggi esiste ancora? </strong><br>«Diciamo che la Sars può certamente diffondersi di nuovo, motivo per cui la sorveglianza è importante. Ma ci auguriamo che gli sforzi per vaccinare contro il Covid-19 in tutto il mondo stimolino lo sviluppo di antidoti anche per altri coronavirus. La Mers, per esempio, viene trasmessa dai cammelli, ed è un diverso tipo di sfida vaccinale».</p><p><strong>A parte l'attuale pandemia, quello dei vaccini rappresenta un business per le aziende al pari dei farmaci? </strong><br>«No, non tutti i vaccini possono essere redditizi. Faccio un esempio: nel 2014 il fatturato di Big Pharma è stato di circa mille miliardi, nello stesso anno i cinque principali produttori di vaccini hanno guadagnato 13,4 miliardi di dollari, poco più del 2% del fatturato globale. Per contro, un vaccino contro l'herpes zoster, come quello Merck, rende molto. Certo, ora la pandemia potrebbe cambiare le carte in tavola, dallo sforzo dell'industria farmaceutica sono emersi cinque-sei sieri anti-Covid in meno di un anno. Dove questo settore non è tanto remunerativo, è per le malattie con un numero limitato di casi, o che colpiscono principalmente le nazioni a basso reddito che non possono pagare la tariffa corrente. Ma se, come è successo, un'epidemia di Ebola si diffonde in Africa, è nell'interesse delle nazioni più ricche sovvenzionare sviluppo <br>e distribuzione dei vaccini».</p><p><strong>Nel libro lei scrive che è fondamentale sconfiggere l'influenza. Ma in fondo non è un'infezione così temibile... </strong><br>«Questa è una convinzione sbagliata. Sulla base di tutti i dati scientifici e storici, noi scienziati sappiamo che l'influenza pandemica rappresenta la più grave minaccia per la civiltà. E in un tale focolaio, gli attuali vaccini influenzali sarebbero in gran parte inefficaci. Ci vuole un gigantesco sforzo internazionale per sviluppare un antidoto universale per tutti i ceppi dell'influenza. Non importa il costo, sarebbe minimo rispetto all'effetto di un'altra pandemia sull'economia e il benessere del pianeta. Se non siamo preparati a un simile evento, cambierà la storia del futuro, così come la peste nera ha alterato la storia europea nel XIV secolo».<br></p><p><strong>Molti temono che questi vaccini siano stati approvati troppo in fretta. Non potrebbero verificarsi effetti collaterali nel lungo termine?</strong><br>«Sebbene siano stati prodotti in tempi record e quelli a mRna siano di nuovo tipo, disponiamo di parecchi dati risalenti a molti anni fa sul metodo dell'Rna messaggero. E abbiamo grande fiducia in questi prodotti. Di sicuro, in una somministrazione su scala planetaria emergeranno inevitabili effetti collaterali. Ma quelli gravi sono davvero rari e in quasi tutti i casi possono essere affrontati in modo relativamente semplice. La possibilità di ammalarsi per aver ricevuto il vaccino Covid-19 sono infinitesimali rispetto al rischio di contrarre il virus in modo serio e morirne. Bisogna fare buona informazione per convincere le persone che questi vaccini sono efficaci e sicuri. I dati dicono che oltre il 50% degli americani ancora oggi non si farebbe immunizzare». </p><p><strong>È un grosso problema. Quanto sono pericolose le varianti?</strong><br>«Ci preoccupano estremamente, motivo per cui è fondamentale contenere la pandemia il più rapidamente possibile prima che il virus abbia altre possibilità di mutare. I sieri attuali potranno essere modificati per gestire ceppi virali emergenti, ma potrebbero essere necessari alcuni mesi per aggiornare e approvare un vaccino contro una mutazione virale. Sarebbe devastante se gli ospedali, e in particolare le unità di terapia intensiva, fossero invasi da nuovi casi».<br></p><p><strong>Vincenzo Caccioppoli</strong><br></p>La moneta unica doveva essere il primo passo per l'unificazione del continente e per dare un fortissimo impulso allo sviluppo. Ci stiamo accorgendo invece che è stata soprattutto un grosso regalo alla Germania. E ha bloccato la corsa alla ripresa economica
dei Paesi meno forti. Così ci ritroviamo con un'Italia schiacciata dalla pandemia, ultima in tutte le classifiche anche quest'anno, che
vede il nuovo premier Mario Draghi come un salvatore. Ma con un debito pubblico alle stelle e un potere d'acquisto sempre più ridotto è impossibile fare miracoli. Soprattutto per questo euro.
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Con la moneta unica abbiamo perso reddito, posti di lavoro e base industriale
<img type="lazy-image" data-runner-src="https://www.panorama.it/media-library/eyJhbGciOiJIUzI1NiIsInR5cCI6IkpXVCJ9.eyJpbWFnZSI6Imh0dHBzOi8vYXNzZXRzLnJibC5tcy8yNTcxNTE3MC9vcmlnaW4uanBnIiwiZXhwaXJlc19hdCI6MTY2MjQ3OTY3OX0.52kFkZMlb22iMRG6R1bZa_nTMFXWDTQ0VP19gME1Uuc/image.jpg?width=1245&coordinates=0%2C110%2C0%2C110&height=700" id="95160" class="rm-shortcode" data-rm-shortcode-id="c31f1f85517d0179717d0a2ff8c5e570" data-rm-shortcode-name="rebelmouse-image" data-width="1245" data-height="700" />(iStock).
<p><strong>Jerome Powell</strong>, governatore della Federal Reserve, la Banca centrale americana, non si sognerebbe mai di ribadire che il dollaro è irreversibile. Per il semplice fatto che il dollaro per un americano è un elemento costituente della sua identità, il dollaro esiste in quanto esistono gli Stati Uniti d'America. E l'euro? L'euro no, tant'è che il governatore della nostra ex Banca centrale<strong> Ignazio Visco</strong> ha sentito il bisogno di affermare: «Una moneta senza Stato può durare fino a un certo momento, poi c'è bisogno di uno Stato e di un'unione di bilancio». Continui richiami all'Europa, ma l'Europa non c'è. O meglio si fa viva quando deve approfittare di «svenditalia». </p><p>Sono oltre 800 i marchi italiani finiti da quando c'è l'euro in mano straniera, un trasferimento di capitali che si avvicina ai 200 miliardi: dalle banche conquistate dai francesi all'agroalimentare e alla moda che hanno attirato francesi, tedeschi e cinesi. I giapponesi si sono buttati nell'hi-tech, i cinesi ora vanno alla conquista anche del turismo, i tedeschi hanno fatto man bassa dell'industria. Così, abbiamo smontato interi comparti che erano il primato dell'Italia. L'ultima perla è la nascita di Stellantis dalla fusione (in realtà un'acquisizione di Fca, Fiat Chrysler Automobiles che è stata di fatto comprata dai francesi) con Psa. </p><p>Perfino il «principe degli svenditori» <strong>Romano Prodi</strong> ha inarcato il sopracciglio dicendo: «È completamente in mano francese, lo Stato doveva intervenire». Già lo Stato. Con <strong>Giuseppe Conte</strong> e il Pd è intervenuto firmando una garanzia da 6,5 miliardi di euro per <strong>John Elkann</strong>, che una volta sposato ai francesi ha distribuito ai familiari dell'Agnelli & c. 2,8 miliardi di dividendi straordinari. E ora i francesi dicono che vogliono produrre le automobili in Francia, un settore da cui l'Italia è di fatto uscita. <br></p><p>Ma è solo l'ultimo episodio: il declino industriale italiano è cronaca quotidiana, basta pensare all'ex Ilva. O guardare i dati della disoccupazione raddoppiata dal 2008 (il tasso era 6,7%) a oggi, con punte di disoccupazione giovanile del 35% e almeno 1,5 milioni di posti di lavoro in bilico per la pandemia. Sono 160 le crisi irrisolte dal precedente governo che <strong>Giancarlo Giorgetti</strong>, nuovo ministro dello Sviluppo economico, ha ereditato. </p><p>In quel catalogo ci sono ex campioni dell'industria italiana. Certo infettati mortalmente dal virus, ma forse accompagnati al declino dal «ce lo chiede l'Europa». Che peraltro neppure storicamente esiste, almeno per noi italiani. L'Europa erano le terre genericamente a Nord del Mediterraneo per <strong>Ecateo di Mileto</strong>, i romani non le chiamavano così e fino a <strong>Carlo Magno</strong> l'Europa di fatto non compariva. Anche oggi ha confini geografici incerti, culture diversissime. </p><p>Non si è data una costituzione condivisa per cercare di evitare la babele di 28 Stati, parla una lingua non sua (l'inglese, ora che la Brexit si è compiuta, è una lingua straniera), ha diversi bilanci, diverse tasse, diversi debiti. Già, i debiti sono quelli che condannano noi italiani, che dobbiamo dirci europei senza poterlo o saperlo essere. </p><p>Anzi, per agganciare il carro dell'euro ci siamo svenati. Lo dice uno studio tedesco pubblicato due anni fa dal Cep (think tank di politica economica di Friburgo) secondo cui in vent'anni ogni italiano ha perso 74 .000 euro e ogni tedesco ne ha guadagnati 23.000, colpa delle differenti competitività e del fatto che con l'euro non si svaluta più. Lo hanno molto contestato, ma c'è un grafico - contenuto della Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza firmato dall'ex ministro dell'Economia del Pd <strong>Roberto Gualtieri</strong> - che racconta un'amara verità: dal 2000 a oggi gli italiani hanno perso circa 1000 euro di reddito pro capite l'anno e ora ci ritroviamo in tasca 1.800 euro in meno della media europea e addirittura 4.000 euro meno della media dei Paesi che adottano l'euro. </p><p>Uno studio di <em>Bloomberg </em>ha illustrato che l'Italia dal 1985 al 2001 ha incrementato il suo Pil di 482 miliardi (+44%) e nei 15 anni successivi, vigente l'euro, lo ha accresciuto di appena 31 miliardi (un 2% risicato dice che in realtà ci siamo impoveriti); e lo stesso vale per il nostro export, contratto di un terzo a vantaggio della Germania, il Paese che dall'entrata in vigore dell'euro ha maggiormente incrementato il suo fatturato esterno. Ma la colpa, dicono i cultori della moneta unica, non è dell'euro, bensì dell'Italia che è in declino dagli anni Ottanta. Se si guarda l'indice di produttività si scopre che dal 1978 al 1998 ogni ora lavorata aveva un indice di produzione di Pil del 145 (10 punti sotto la Germania, 14 sotto la Francia). Nei 10 anni successivi l'indice si è ridotto a 105 per l'Italia, a 120,6 per la Francia e a 124,4 per la Germania. <br></p><p>Ma il vero fattore di perdita di competitività è stato che, mentre la Germania ha riformato la macchina statale, l'Italia è rimasta al palo e ha perso base produttiva, oltre a dover fare i conti col debito pubblico. È interessante mettere a confronto l'andamento della curva del debito con quella del Pil. La curva debito-Pil si incrocia per la prima volta nel 1992, direttore generale del Tesoro è <strong>Mario Draghi</strong>, al governo c'è <strong>Giuliano Amato</strong>, <strong>Romano Prodi</strong> dà il via alle grandi privatizzazioni. </p><p>Racconta <strong>Fabiano Fabiani</strong>, allora il capo di Finmeccanica: «Quando <strong>Draghi </strong>mi incontrava mi chiedeva: che hai venduto? L'imperativo era vendere tutto perché i Paesi europei - per far entrare l'Italia nell'unione monetaria - avevano chiesto di mettere sotto controllo la spesa pubblica e di cedere i pezzi buoni dell'Iri». E così è avvenuto. La curva ci racconta che dal '96 al '98, primo governo <strong>Prodi</strong>, il debito corre e il Pil frena. Succederà di nuovo con il governo <strong>Monti</strong> e dal 2013 in poi, con i tre governi a guida Pd (<strong>Enrico Letta</strong>,<strong> Matteo Renzi</strong>, <strong>Paolo Gentiloni</strong>), il debito esplode fino a 2.400 miliardi, il Pil si ferma a 1.780 miliardi. </p><p>È il segno del declino dell'Italia. Ma anche il segno che l'euro non è servito ad ammortizzare la crisi del 2008-2011, ancor più aggravato dalle politiche rigoriste, né che l'Italia ha recuperato competitività. Ma c'è un altro dato che va preso in considerazione nel tormentato rapporto tra gli italiani e l'euro. È la grande illusione dei mutui. I tassi bassi hanno fatto comprare casa fino al 2011, poi la grande crisi ha ridotto il valore degli immobili del 30%. Gli italiani si sono indebitati a tassi moderati ma hanno comprato a prezzi alti, si sono ritrovati con valori svalutati e una costante erosione del potere d'acquisto. </p>In vent'anni il reddito disponibile delle famiglie nell'area euro è aumentato dell'11,3% con punte del 21,2% in Francia, del 15,7 in Spagna, dell'11,8 in Germania. A rimetterci sono stati soltanto gli italiani: -3,8%. In vent'anni di euro, si è passati da una quota di debiti privati del 36% rispetto al reddito disponibile all'83% di un anno fa. A guadagnare dall'euro è stato solo lo Stato che ha piazzato il debito a tassi sempre più bassi. La spesa per interessi è passata dal 20% prima della moneta unica all'attuale quota del 9% sulla spesa pubblica. Ma anziché risparmiare, quello stesso Stato ha continuato a indebitarsi. Ed è questa la vera incognita sul futuro.