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Scuola superiore di 5 giorni, no al sabato in classe. È ora

L’argomento è dibattuto e coinvolge punti di vista diversissimi, idee di scuola simili e opposte, interessi personali e stereotipi. Eppure una soluzione va trovata, uscendo dalla condizione presente di totale provvisorietà in cui ogni scuola può organizzarsi come meglio crede, senza che ci sia una soluzione nazionale condivisa

La bontà della scuola non dipende dal suo sistema organizzativo. Diciamolo subito: il modello attuale che prevede i sei giorni, aprendo alla possibilità di farne cinque, non rappresenta un esempio di funzionamento impeccabile e i dati INVALSI valgano come indicazione di una crisi educativa e didattica in pieno svolgimento e in costante peggioramento. Così, le scuole che via via si organizzano sui cinque giorni di frequenza settimanale non abdicano alla qualità, proprio perché la qualità non dipende da un’ora in più o in meno, da un giorno in più o in meno, da una lezione di 60 o di 55 minuti. O 50, ma questo è un altro tema rovente. Sarebbe troppo facile se le cose stessero così, ma in realtà per una scuola di qualità serve ben altro! In primis docenti colti, competenti, motivati, poi una società che consideri la scuola un pilastro del presente e del futuro e che sia disposta a valutare - anche in sede elettorale - chi ha una visione di prospettiva del ruolo della scuola, chi è disposto a investire tempo, energie e denaro per renderla migliore, per farla bella. Ancora, serve anche una comunità desiderosa di accogliere quanto richiede la scuola come una fatica necessaria, comprendendo in questo sforzo anche il lavoro supplementare, o un giudizio indigesto, nel realismo e nella fiducia che dovrebbe vigere tra tutti coloro che ne sono coinvolti, vale a dire docenti, genitori e alunni.

La scuola fa parte della vita e non può essere un elemento che genera disagio. Già di per sé la scuola prevede impegno, per cui fatica; prove di verifica, per cui successi e certo insuccessi; momenti di crisi anche nel percorso più sereno e positivo immaginabile. Se è così, la razionalità porta a fare scuola da lunedì a venerdì, in ogni scuola di ordine e grado.

Il sabato a scuola ha 100 anni, così come la scuola italiana nella sua forma attuale. La settimana su sei giorni era stata pensata per una scuola superiore molto differente da quella del ventunesimo secolo: era una scuola per pochi, molto selettiva e frequentata al mattino per poche ore per consentire agli studenti di dedicarsi allo studio per tutto il pomeriggio. Attività extrascolastiche? Studiare. La società in cui era immersa la scuola della riforma Gentile, senza toccare il tema del fascismo, era assai differente per possibilità, per indipendenza, per stimoli, per tempo impiegato e tempo libero, per assetti familiari. Oggi le cose vanno diversamente e la scuola, che è un organo della società, non può arroccarsi su una posizione che riguarda la sua organizzazione oraria per far sentire la sua presenza. Se la scuola termina il sabato a mezzogiorno, resta pochissimo tempo per la famiglia, per fare un esempio, e proprio la famiglia necessita di cure particolari in questi anni in cui è sempre più difficile costruire un dialogo casalingo e ritagliare del tempo per stare insieme. Salvo poi optare per far saltare qualche giorno di scuola per un viaggio insieme o per un fine settimana di stacco, passando inevitabilmente un messaggio fuorviante che assegna alla scuola un ruolo secondario e contundente nell’organizzazione del tempo. Lo stesso accade per gli studenti impegnati in attività sportive, le cui partite sono nel fine settimana, oppure per tutti gli open day e test universitari, per lo più calendarizzati sempre di sabato mattina.

Il tema è caldo, perché supera la materia contesa – il sabato libero – e divide in due fazioni classiche: da una parte c’è chi sostiene che la scuola debba restare baluardo in difesa di cultura e rigore, facendo prevalere forze conservatrici che rendono la scuola non riformabile, se non per fare un passo indietro, perché un tempo sì che le cose andavano a meraviglia. Dall’altra parte, invece, c’è il partito di chi non ne può più della scuola e la vorrebbe smaterializzata, agile, non un problema per la quotidianità, ma una sorta di palestra per imparare i saperi essenziali per cavarsela e andare avanti nella vita.

Sono due posizioni assai diverse, anche per dignità, ma serve guardare oltre rispetto a entrambe.

La frequenza di sabato divide anche opinione pubblica e addetti ai lavori al di là delle ideologie. Nella società civile c’è chi sostiene che non si possa studiare seriamente compattando in cinque giorni ciò che gli studenti oggi fanno (male) in sei, così come risulterebbe ingestibile il carico di lavoro quotidiano, dall’altra parte c’è chi sostiene che ormai molte scuole sono passate alla didattica in cinque giorni e che, anche dinanzi a forti opposizioni, nessuna sia tornata indietro, sintomo che il cambio, anche nello scetticismo, alla prova dei fatti funziona. Anche i docenti sono divisi. La maggior parte di essi pare essere contraria alla riduzione in cinque giorni, o comunque assai scettica. Ne è prova il fatto che, poiché a oggi ogni istituto può organizzarsi come meglio crede, in molte scuole i collegi docenti su questo punto sono stati molto accesi e, dove la riforma è passata, sono volate anche parole grosse.

Occorre superare ogni questione ideologica, perché la scuola su cinque giorni è una novità non certo risolutiva per la scuola, ma probabilmente capace di rendere proprio la scuola più alleata del tempo familiare. E proprio per spegnere questioni interne agli istituti che sembrano sempre insanabili e in cui prevale sempre una maggioranza assai risicata, per l’una o l’altra posizione, è il momento di una presa di posizione ministeriale. Che forma si vuole dare alla scuola? Quella dell’organizzazione settimanale è una piccola questione che potrebbe essere anche l’inizio di una riforma più ampia che possa comprendere la revisione del monte ore, la durata delle lezioni, il giorno di inizio e fine dell’anno scolastico. E’ il momento di decidere.

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Marcello Bramati