Haley
(Ansa)
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Un camaleonte di nome Nikki Haley

Sconfitta sonoramente in Iowa e New Hampshire, l'ex ambasciatrice all'Onu tiene il punto e non si ritira dalle primarie. Ma è davvero l'astro nascente del Partito repubblicano di cui molti parlano?

Lei dice di crederci ancora. E infatti ha rilanciato, promettendo battaglia elettorale in South Carolina. Sono tuttavia dubbi sempre più pesanti quelli che aleggiano sulla candidatura presidenziale di Nikki Haley. L’ex ambasciatrice all’Onu è rimasta ormai da sola a contendere la nomination a Donald Trump. Il punto è che finora non ha affatto brillato in termini di performance elettorali. Al caucus dell’Iowa ha rimediato un misero terzo posto, arrivando dietro il governatore della Florida, Ron DeSantis. In New Hampshire non è andata assai meglio. La Haley ha raggiunto, sì, la ragguardevole cifra del 43% dei consensi. Tuttavia Trump ha sfondato la soglia del 50% complessivo e ha staccato la rivale di oltre dieci punti.

Certo: c’è chi dice che la Haley abbia ancora delle possibilità in South Carolina, dove fu governatrice dal 2011 al 2017. Va tuttavia tenuto presente che l’elettorato repubblicano di questo Stato è tendenzialmente più vicino al trumpismo rispetto a quello del New Hampshire. Inoltre l’ex presidente ha già ottenuto gli endorsement di Henry McMaster e di Tim Scott, che sono rispettivamente governatore e senatore del cosiddetto Palmetto State. Con i suoi due risultati deludenti alle spalle, difficilmente la Haley potrà risalire la china in South Carolina tra un mese.

Ma chi è esattamente Nikki Haley? È realmente la repubblicana centrista che oggi dipingono gran parte dei media? E' davvero colei che potrebbe salvare, come dice qualcuno, il Gop dal populismo? In realtà, la situazione è più complessa. Alle spalle, la diretta interessata vanta una carriera di tutto rispetto: dopo l’incarico come governatrice, è entrata nell’amministrazione Trump in qualità di ambasciatrice statunitense all’Onu. A livello politico, non è mai stata esente da un certo camaleontismo. Durante le primarie repubblicane del 2016, si schierò col senatore Marco Rubio in netta opposizione a Trump. Una mossa, la sua, che si rivelò fondamentalmente un fiasco, visto che l’avventura elettorale dello stesso Rubio finì col naufragare. L’anno dopo, entrò nell’amministrazione Trump, per poi annunciare le dimissioni a ottobre 2018. La Haley riteneva che alle Midterm di quell’anno i repubblicani sarebbero andati piuttosto male. E pensò quindi strategicamente a un passo indietro con l’obiettivo di lanciare una sfida interna a Trump nel 2020.

Anche in questo caso le andò male. Il Gop di fatto “pareggiò” alle elezioni di metà mandato e l’allora presidente repubblicano mantenne salda la sua leadership. La Haley gli tornò allora leale e, durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2020, si spese moltissimo a suo favore, probabilmente sperando di ottenere un ruolo di peso durante un eventuale secondo mandato dell’allora presidente. Ma le andò male di nuovo. Trump perse infatti le elezioni. E a quel punto il rapporto tra i due tornò altalenante. Dapprima la Haley lo criticò per l’irruzione in Campidoglio del 6 gennaio 2021. Poi, nell’aprile di quello stesso anno, disse che non si sarebbe candidata alle presidenziali del 2024, se l’ex presidente fosse sceso in campo. Finì tuttavia per cambiare idea, candidandosi ufficialmente a febbraio del 2023.

Insomma, un certo camaleontismo è innegabile. E traspare anche sui singoli temi. Un tempo ferreamente antiabortista, l’ex ambasciatrice ha addolcito le sue posizioni in materia di interruzione di gravidanza dopo le ultime elezioni di metà mandato. La Haley si è infatti convinta che il Gop sia andato meno bene del previsto in quella tornata elettorale proprio a causa di un atteggiamento giudicato troppo rigido su tale questione. Come che sia, il camaleontismo dell’ex ambasciatrice si è sovente accompagnato a uno scarso fiuto politico-elettorale. D’altronde lo abbiamo visto: la Haley ha spesso compiuto delle scelte politiche, sbagliando completamente i tempi. Il che l’ha resa relativamente isolata tra le alte sfere del Gop: a fidarsi poco di lei sono infatti storicamente tanto i trumpisti quanto l’establishment. Consapevole di tale problema, l’ex ambasciatrice ha provato a usare a proprio vantaggio questa debolezza, presentandosi come l’avversaria del sistema. Una narrazione, la sua, che tuttavia ha convinto pochi.

Eh sì, perché – nonostante sia partita in sordina – la candidatura della Haley ha man mano attratto la simpatia di importanti finanziatori. In particolare, l’ex ambasciatrice è riuscita a sfruttare abilmente gli errori di DeSantis che, entrato in gara come astro nascente del Gop, ha visto la sua stella progressivamente eclissarsi. È così che la Haley si è pian piano ritagliata il ruolo di unica reale oppositrice a Trump, conseguendo il sostegno del network gravitante attorno al miliardario Charles Koch. Non solo. L’ex ambasciatrice gode anche della simpatia dell’alta burocrazia del Pentagono, che apprezza le sue idee proattive in politica estera. Eppure, nonostante questi appoggi significativi, la campagna della Haley stenta ancora a decollare. Un grosso problema per lei è d’altronde sempre stato quello della sua scarsa attrattività per gli elettori della working class: una quota elettorale che costituisce ormai il perno del nuovo Partito repubblicano e a cui l’ex ambasciatrice ha avuto oggettivamente finora ben poco da dire.

Ma il nodo non è soltanto questo. Probabilmente la Haley sconta anche un problema di scarsa autenticità: il suo rapporto contraddittorio con Trump, i suoi cambi repentini di posizione politica, una strategia comunicativa forse troppo preimpostata. È come se a volte l’ex ambasciatrice facesse fatica a uscire da alcuni schemi preconfezionati. Sembra, in altre parole, prigioniera di una candidatura in stile anni ’90, che è ormai fuori tempo e fuori luogo. La sensazione è che, alla fin fine, la Haley sia più a suo agio in un ruolo politico-istituzionale che come contendente per la nomination. Ha finito (inspiegabilmente?) col cucirsi addosso una maschera da Dick Cheney, non capendo che è una delle ragioni che le alienano la simpatia della base repubblicana (e probabilmente anche di quella democratica). Sì, perché uno dei luoghi comuni più in voga oggi è che, in un eventuale duello elettorale con Joe Biden, l’ex ambasciatrice risulterebbe strafavorita. Magari sarà anche vero. Resta però il fatto che, a livello nazionale, solo il 12% degli elettori repubblicani la sostiene. E a qualcuno non viene neanche lontanamente l’idea che, forse, fuori dal Gop è tanto amata proprio perché si ritiene più facilmente battibile in sede di General Election.

E allora la domanda è lecita. Perché la Haley continua a restare in campo, se non ha speranze? Una prima ipotesi è che voglia ottenere da Trump la nomina a candidata vice. I due hanno negato questo scenario, ma si tratta di un’opzione che è al momento decisamente sul tavolo. L’ex presidente potrebbe selezionare la Haley proprio per federare le varie anime del partito, come fece nel 1980 Ronald Reagan con il suo rivale interno, George H. W. Bush. Ricordiamo d’altronde che, nella politica americana, i ticket eterogenei sono quelli maggiormente vincenti.

La seconda ipotesi è che la Haley stia scommettendo sull’eventualità che, nei prossimi mesi, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiari Trump incandidabile. Se questa è l’intenzione, l’ex ambasciatrice punterebbe a presentarsi come l’unica sostituta disponibile di un candidato improvvisamente non più “inevitabile”. Temiamo però che, in caso, la Haley sarebbe destinata a un altro dei suoi flop. Sì, perché è altamente probabile che l’ex presidente possa blindare matematicamente la nomination già verso metà marzo, quando, cioè, la Corte Suprema difficilmente si sarà già pronunciata. Ora, mettiamo caso che, dopo aver conquistato la nomination, arrivi l’incandidabilità per Trump. Siamo sicuri che, in questa ipotesi, il Gop si affiderebbe automaticamente alla Haley? Probabilmente no. La palla passerebbe alla Convention nazionale estiva, dove Trump avrebbe la maggioranza dei delegati dalla sua. Difficile che l’ex presidente deciderebbe di non usare il proprio peso per farli convogliare su un nome a lui gradito: un nome che, a quel punto, potrebbe non essere quello di qualcuno candidatosi alle attuali primarie.

La Haley è appena entrata in una fase molto delicata della sua avventura politica. Certo: la storia americana ha dimostrato che da grandi fallimenti possono successivamente nascere vittorie presidenziali (si pensi a Reagan nel 1980 o a Richard Nixon nel 1968). Ma ha anche insegnato che l’ostinazione senza una strategia porta a naufragare nell’oblio. Qualcuno di voi, per caso, si ricorda di John Kasich?

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Stefano Graziosi