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(Ansa)
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La sentenza del Colorado contro Trump è uno schiaffo allo Stato di diritto

Con una maggioranza di quattro a tre, la Corte Suprema del Colorado impedisce all'ex presidente di partecipare alle primarie dello Stato. Si tratta tuttavia di una sentenza tecnicamente fragile, oltre che controversa: ecco perché

Ha comprensibilmente scatenato un putiferio la controversa sentenza della Corte Suprema del Colorado, che – con una maggioranza di quattro a tre – ha stabilito che Donald Trump non potrà partecipare alle primarie presidenziali repubblicane di questo Stato. In particolare, il pronunciamento accusa esplicitamente l’ex presidente di golpismo insurrezionale e invoca la clausola del Quattordicesimo emendamento, che vieta a chi abbia partecipato ad attività sediziose di ricoprire cariche pubbliche. “Il presidente Trump non si è limitato a incitare all’insurrezione”, si legge nell’opinione di maggioranza, emessa martedì. “Anche quando l’assedio al Campidoglio era in pieno svolgimento, ha continuato a sostenerlo chiedendo ripetutamente che il vicepresidente Pence si rifiutasse di adempiere al suo dovere costituzionale ed esortando i senatori a fermare il conteggio dei voti elettorali. Queste azioni costituivano una partecipazione palese, volontaria e diretta all’insurrezione”. Trump, che ha accusato la sentenza di essere antidemocratica, ha adesso tempo fino al 4 gennaio per chiedere una sua revisione da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti.

Neanche a dirlo, c’è chi già esulta per la decisione arrivata dal Colorado. Sia chiaro: Trump può fare a meno di questo Stato che, dal 2008, vota convintamente per i candidati dem alle presidenziali statunitensi. Inoltre, il Partito repubblicano dello stesso Colorado sta puntando ad aggirare la sentenza, ripristinando il vecchio sistema dei caucus, per sostituirlo a quello delle primarie (ricordiamo infatti che il caucus è un’assemblea ristretta degli attivisti di partito e che non richiede dunque la supervisione statale in senso stretto). Il punto è che il pronunciamento di martedì potrebbe teoricamente innescare un effetto domino in grado di coinvolgere aree elettoralmente cruciali. Eppure, a ben vedere, ci sarebbe da chiedersi se questa decisione risulti tecnicamente solida. Eh sì, perché emergono alcuni aspetti assai controversi. Al di là del fatto che tutti i sette giudici della Corte Suprema del Colorado sono stati nominati da governatori dem, è proprio la base legale della sentenza a rivelarsi problematica. Cerchiamo di entrare maggiormente nel dettaglio.

Innanzitutto, i vari tentativi legali di interdire Trump sulla base del Quattordicesimo emendamento erano finora naufragati. A ottobre, la Corte Suprema degli Stati Uniti si era rifiutata di prenderne in considerazione uno, mentre a inizio novembre la Corte Suprema del Minnesota ne aveva respinto un altro. Sempre a novembre, un giudice del Michigan aveva cassato un ulteriore ricorso, imperniato sul Quattordicesimo emendamento, stabilendo che avrebbe dovuto essere il Congresso a decidere sull’eleggibilità di Trump. Lo stesso Washington Post, non certo un quotidiano vicino ai repubblicani, aveva definito “folle” il tentativo di bloccare la candidatura dell’ex presidente tramite questo escamotage legale. Tutti questi elementi certificano che l’interdizione tramite il Quattordicesimo emendamento risulta una strategia legale assai dubbia.

In secondo luogo, vari giuristi ritengono che, per scattare, la clausola d’interdizione richiederebbe prima un’apposita legge approvata dal Congresso: un passaggio, questo, che non è stato effettuato. In terzo luogo, si registrano forti dubbi sul fatto che i singoli Stati possano applicare tale clausola. È questa, per esempio, la tesi del noto avvocato Alan Dershowitz che, pur essendo un elettore dem, difese Trump durante il primo processo di impeachment nel 2020. “La Corte Suprema degli Stati Uniti dovrebbe ribaltare la decisione della corte del Colorado. Gli Stati non hanno il potere di interdire un candidato presidenziale ai sensi del Quattordicesimo emendamento”, ha dichiarato Dershowitz al quotidiano La Verità. In terzo luogo, è interessante quanto scritto nell’opinione di dissenso dal giudice Brian Boatright. “In assenza di una condanna correlata all'insurrezione, direi che una richiesta di interdire un candidato ai sensi della sezione tre del Quattordicesimo emendamento non costituisce un legittimo fondamento di azione secondo il codice elettorale del Colorado”, ha affermato il togato.

Ecco, Boatright ha centrato esattamente il punto. Trump non è stato condannato in via definitiva per insurrezione. Anzi, se è per questo, non è stato neppure incriminato con un tale capo di imputazione. Il procuratore speciale, Jack Smith, non ha infatti accusato l’ex presidente dei due reati che, nel codice statunitense, identificano il golpismo insurrezionale: stiamo parlando di “insurrezione” e “seditious consipracy”. Inoltre, anche lo avesse fatto, il processo relativo al presunto tentativo di ribaltamento delle elezioni del 2020 non inizierà prima del 4 marzo. In altre parole, la sentenza del Colorado avrebbe avuto senso se Trump fosse stato giudicato colpevole di insurrezione in un’aula di tribunale attraverso tutti i gradi di giudizio. Peccato però che, allo stato attuale, il processo di primo grado non sia neanche cominciato. Senza poi trascurare che, lo ripetiamo, il procuratore speciale non lo ha incriminato né per “insurrezione” né per “seditious conspiracy”. Questo rende la sentenza del Colorado particolarmente fragile e controversa, esponendola alla non certo remota possibilità di essere cassata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Un’eventualità, questa, che viene considerata piuttosto concreta da The Hill.

Attenzione: qui non c’entra nulla essere pro o contro Trump. Qui c’entra il rispetto dello Stato di diritto. La sentenza di martedì è indegna di una democrazia liberale. Dei giudici si sono arrogati infatti un potere di cui di fatto non dispongono, imboccando una strada che ricorda - in modo inquietante - la Russia e il Venezuela. E pensare che molti che hanno esultato per tale sentenza sono magari gli stessi che si professano garantisti e che dicono di voler “salvare la democrazia”. Il sospetto è invece che si tratti di persone disposte a tutto, pur di fermare un candidato che odiano ma che – piaccia o meno – resta forte nei sondaggi. Della serie: se non puoi batterlo nelle urne, abbattilo per via giudiziaria. Vi ricorda qualcosa?

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Stefano Graziosi