nikki Haley
(Ansa)
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Guai, errori e problemi che hanno affondato la candidatura di Nikki Haley

L'ex ambasciatrice all'Onu ha sospeso una campagna presidenziale di fatto mai decollata: una situazione dovuta a errori contingenti e soprattutto a nodi strutturali

Alla fine ha mollato. Travolta da Donald Trump al Super Tuesday, Nikki Haley ha annunciato ieri la sospensione della sua campagna elettorale. “Con ogni probabilità, Donald Trump sarà il candidato repubblicano quando la convention del nostro partito si riunirà a luglio. Mi congratulo con lui e gli auguro ogni bene. Auguro ogni bene a chiunque voglia diventare presidente dell'America”, ha detto l’ex ambasciatrice, che non ha però dato l’endorsement al rivale. “Spetta ora a Donald Trump guadagnare i voti di coloro che, nel nostro partito e al di fuori di esso, non lo hanno sostenuto. E spero che lo faccia”, ha aggiunto.

L’addio della Haley alla corsa non era qualcosa di troppo inatteso. Come già accennato, l’ex ambasciatrice aveva registrato una ben magra performance al Super Tuesday, limitandosi a conquistare appena uno Stato su quattordici: il Vermont. Quello stesso Vermont che metteva in palio soltanto diciassette delegati repubblicani e che, a livello di elezioni presidenziali, vota ininterrottamente per i dem dal 1992. È chiaro come questa vittoria fosse essenzialmente irrilevante, a maggior ragione alla luce del fatto che, sempre martedì, Trump ha staccato la Haley di quasi trenta punti in Virginia: uno Stato cruciale su cui l’ex ambasciatrice aveva scommesso molto.

Più in generale, fino al Super Tuesday, la Haley aveva vinto solo le primarie di Washington Dc, risultando sconfitta in tutti gli altri appuntamenti elettorali, tra cui le primarie del South Carolina: suo Stato d’origine, di cui fu anche governatrice dal 2011 al 2017. E proprio qui, arrivando circa venti punti dietro Trump, l’ex ambasciatrice aveva registrato la debacle forse più cocente, tanto da finire abbandonata dal potente network di finanziatori gravitante attorno al miliardario Charles Koch. La matematica dei delegati era poi diventata insostenibile per la Haley. Dopo il Super Tuesday, Trump era salito a quota 995 a fronte degli 89 dell’ex ambasciatrice: un distacco significativo, anche in considerazione del fatto che il quorum per la nomination repubblicana è fissato a 1.215. È chiaro come tutti questi fattori abbiano pesato sulla scelta della Haley di fare un passo indietro.

Ma per quale ragione la sua campagna non è mai realmente decollata? Certo, Trump ha sempre mantenuto la posizione di frontrunner, senza trascurare che, da quando ha subito la prima incriminazione il 30 marzo dell’anno scorso, ha visto crescere notevolmente i propri consensi tra gli elettori repubblicani (guadagnando circa trenta punti in meno di dodici mesi). Inoltre, la Haley è stata anche azzoppata dal fatto che la campagna di Joe Biden rilanciava le sue critiche allo stesso Trump. In tutto questo, l’ex ambasciatrice ha commesso vari errori. Si è concentrata molto sulla politica internazionale, quando è noto che gli elettori delle primarie – sia repubblicani sia dem – prediligono le questioni di politica interna. Un altro gravissimo errore fu da lei commesso a inizio gennaio, quando – a pochi giorni dal caucus dell’Iowa – se ne uscì dicendo che gli elettori del New Hampshire avrebbero “corretto” il voto di quelli dello stesso Iowa: parole che irritarono gli elettori locali e che probabilmente contribuirono a farle perdere l’opportunità di arrivare al secondo posto in Iowa. Un colpo, quello, che le fu fatale. Se avesse conquistato la medaglia d’argento a quel caucus, forse la Haley sarebbe riuscita a dare maggiore slancio alla sua campagna, ottenendo migliori risultati tanto in New Hampshire quanto in South Carolina. Ulteriore errore fu quello di snobbare completamente ed esplicitamente il Nevada col risultato di arrivare in loco al secondo posto dietro l’opzione “nessuno di questi candidati”: un’umiliazione cocente che le attirò la derisione sia di Trump che della campagna di Biden.

Eppure il problema della Haley non è stato solo quello degli errori (spesso difficilmente comprensibili) commessi a livello operativo e strategico durante la campagna. L’ex ambasciatrice scontava anche delle debolezze strutturali. Per comprenderlo, è necessario fare un passo indietro. Oggi, una certa vulgata dipinge la Haley come una repubblicana moderata e di establishment, che vorrebbe salvaguardare l’eredità reaganiana del Gop contro il populismo di Trump. Eppure le cose non stanno esattamente così. La Haley ha una storia politica piuttosto camaleontica. Nel 2016, si schierò contro Trump, appoggiando la candidatura presidenziale di Marco Rubio. Poi, una volta che il magnate divenne presidente, accettò di entrare nella sua amministrazione come ambasciatrice all’Onu: un incarico da cui annunciò le dimissioni a ottobre 2018, scommettendo probabilmente su una sconfitta del Gop alle elezioni di metà mandato di quell’anno. La Haley sperava infatti di usare un simile scenario per contendere a Trump la nomination repubblicana del 2020. Sfortunatamente per lei, il Gop andò meglio del previsto nel 2018 e pareggiò con i dem, mantenendo il controllo del Senato. Ciò bloccò le ambizioni della Haley che si riallineò all’allora presidente repubblicano, tanto che – durante le elezioni del 2020 – fece energicamente campagna a suo favore. La situazione cambiò nuovamente quando Trump perse le presidenziali. Prima la Haley lo criticò in relazione all’irruzione in Campidoglio. Poi, ad aprile 2021, gli tornò alleata, assicurando che non si sarebbe candidata alle primarie del 2024, se l’ex presidente avesse deciso di correre di nuovo. Eppure, a febbraio 2023, oltre due mesi dopo la ricandidatura del magnate, l’ex ambasciatrice scese in campo per contendergli la nomination repubblicana.

Ecco, è stato proprio questo camaleontismo il problema. Un nodo politico, non morale. Agendo in questo modo, la Haley si è alienata le simpatie non solo della base trumpista ma anche di quel pezzo di establishment repubblicano che, ormai sempre più minoritario, non ha affatto in simpatia l’ex presidente: non dimentichiamo che, negli ultimi anni, la Haley ha più volte fatto ricorso a una retorica antiestablishment non poi così distante da quella trumpiana. Il che ne fa una figura sostanzialmente differente da quella di un John McCain o di un Mitt Romney: repubblicani della vecchia guardia che hanno costantemente avversato Trump.

Insomma, l’ex ambasciatrice si è ritrovata di fatto isolata in seno al Gop. Una debolezza strutturale che ha avuto un impatto negativo sulla sua campagna. Molti dei voti che ha preso soprattutto dopo il ritiro di Ron DeSantis non sono tanto voti a lei in quanto tale: l’ex ambasciatrice si è mossa da catalizzatore di un mondo che voleva un’alternativa a Trump ma che non trovava altre opzioni. Questo non vuol dire che l’ormai ex candidata non avesse del tutto un suo seguito: vuol dire semmai che quel seguito era solo una parte (forse neppure maggioritaria) dei voti complessivi che otteneva. Senza poi trascurare il forte sospetto che, negli Stati in cui si tenevano primarie aperte, l’ex ambasciatrice abbia ricevuto voti anche dagli elettori dem. È stata Nbc News a rivelare che, pochi giorni prima delle primarie in South Carolina, il Super Pac della Haley aveva inviato email ai dem per convincerli a votarla.

E qui veniamo a un tema cruciale. Secondo alcuni analisti, i voti della Haley certificherebbero la debolezza di Trump, oltre al fatto che in vari Stati chiave circa il 30% degli elettori repubblicani sarebbe pronto a voltare le spalle all’ex presidente il prossimo novembre. Si tratta tuttavia di un’analisi speciosa. Al netto di eventuali e non improbabili infiltrazioni dem, gli elettori della Haley non sono un blocco omogeneo. Tra di essi vi sono certamente dei repubblicani antitrumpisti che non voteranno mai per l’ex presidente, ma – al contempo – vi sono anche repubblicani per cui la fedeltà al Gop viene prima dell’antipatia verso Trump. Nonostante Biden stia già cercando di corteggiare la base dell’ex ambasciatrice, è arduo immaginare che quella base a novembre dirotti in massa (o anche solo in maggioranza) il proprio voto sul Partito democratico.

E adesso che cosa c’è da attendersi per il futuro? Almeno per ora, sembra improbabile che la Haley correrà da indipendente: durante l’annuncio del suo addio, si è infatti definita una “repubblicana conservatrice”. Sono allora possibili tre scenari. Primo: darà prima o poi l’endorsement a Trump e negozierà un eventuale ingresso nel ticket presidenziale come candidata vice. Secondo: si limiterà a tirare i remi in barca, scommettendo su una sconfitta dell’ex presidente a novembre per ripresentarsi nel 2028. Terzo: avvierà una fronda per mettere internamente i bastoni tra le ruote al suo rivale. Vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi. Per ora, l’unica cosa certa è che la candidatura della Haley è stata fraintesa da molti.

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Stefano Graziosi