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(Ansa)
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L'Ue tra Nato, con le minacce di Trump, e l'esercito Europeo che però nessuno vuole pagare

Le frasi pericolose di Trump nascondono una verità: la difesa militare ha un costo, salato, sostenuto negli ultimi decenni dagli Usa. fare senza di loro ci costerebbe moltissimo

Trump minaccia, l’Europa (per ora) non risponde. «Incoraggio la Russia a invadere i Paesi della Nato che non spendono il 2% e annuncio che noi come americani nel caso non interverremo» l’ha buttata là l’ex presidente Usa, durante un comizio per le primarie repubblicane, usando uno dei suoi cavalli di battaglia.

Convinto che la sua retorica non avrebbe provocato scandalo in Europa (l’intenzione era quella di blandire il suo pubblico eminentemente americano), è andato avanti con la sua provocazione iperbolica fino a che dal quartier generale dell’Alleanza Atlantica non gli hanno fatto notare che la cosa «mette a rischio i soldati americani ed europei», come ha subito rimarcato il segretario Jens Stoltenberg. «Questa ipotesi rischia di mette in dubbio la stessa egemonia americana in Europa», aggiungono voci di corridoio del Pentagono.

Così, come un Javier Milei qualunque, il candidato repubblicano ha in parte ritrattato le sue dichiarazioni incendiarie e si è di nuovo concentrato sui processi penali che lo attendono da qui alle elezioni di novembre. Intanto, però, il sasso nello stagno è stato gettato, e la questione ha riaperto in Europa il dibattito sull’opportunità o meno da parte dell’Ue di costruire un’alternativa seria alla Nato, ovvero il tanto decantato esercito europeo.

Anche perché i Paesi scandinavi, ovvero quelli più vicini alla minaccia russa, non gradiscono le provocazioni reiterate da parte del Cremlino, che dispone di missili di lunga gittata nell’enclave russa di Kaliningrad, a poche centinaia di chilometri dalla Scandinavia e da alcune delle principali capitali europee, come Varsavia e Berlino.

Ed esempio, non ha gradito il ministro della difesa danese, Troels Lund Poulsen, convinto che entro tre o cinque anni la Russia potrebbe davvero «mettere alla prova» la solidarietà della Nato attaccando uno dei suoi membri più deboli, tentando di spaccarla per dimostrare che non tutti i membri sono poi così disposti a correre in difesa di un alleato. A lui hanno fatto eco i colleghi dei Paesi baltici, convinti che saranno la prima linea del fronte in un’ipotetica aggressione russa. Non solo: un documento segreto dell’esercito tedesco ha messo nero su bianco la possibilità di un attacco all’Europa da parte della Russia entro il 2025, e suggerisce dunque di prepararsi a tale eventualità.

Forse è proprio per questo che Berlino quest’anno aggancerà, superandola, la quota del 2% richiesta dalla Nato per farne parte, entrando nel club dei Paesi «virtuosi» che spendono per il patto atlantista già quanto dovuto, e in alcuni casi ancor più: come la Polonia (3,9%) che spende addirittura più degli Stati Uniti (3,49%), seguiti da Grecia (3,01%), Estonia (2,73%), Lituania (2,54%), Finlandia (2,45%), Romania (2,44%), Ungheria (2,43%), Lettonia (2,27%), Regno Unito (2,07%) e Slovacchia (2,03%). Tutti gli altri, invece - Italia compresa - sono molto al di sotto di quello standard. «Morosi» secondo Trump che, a volerlo prendere sul serio, non difenderebbe Roma o Parigi, se attaccate.

Vladimir Putin intanto gode della querelle e, pur negando un allargamento della minaccia all’Europa, non perde occasione per evocare indirettamente il fantasma di uno scontro in seno al vecchio continente. Il presidente della Federazione Russa - che con ogni evidenza tifa per la rielezione di Trump - spera di riuscire a vedere la fine della Nato mentre è ancora in carica (ci resterà fino al 2036, in teoria), e agisce nell’ombra all’insegna di quel divide et impera tipico degli imperialisti.

Ciò che tuttavia né Putin né Trump hanno ben considerato, è che forse per la prima volta l’Unione Europea medita davvero di creare un percorso concreto per dotarsi di un sistema di difesa che affranchi i Paesi membri dallo strapotere americano, e che ha già preso forma a livello embrionale nel 2020 col progetto PESCO «Mobilità militare», che oggi è uno dei pilastri della politica di difesa dell’Ue, perché fornisce un quadro per la cooperazione in materia di difesa tra 25 Stati membri partecipanti, che hanno assunto tra loro impegni vincolanti in tal senso. PESCO prevede: capacità di difesa congiunte, investimenti coordinati, prontezza a livello operativo, interoperabilità e resilienza delle rispettive forze armate e, non ultima, collaborazione a progetti e sviluppo di armamenti.

È stato il golden boy Mario Draghi a evocare per primo e con maggiore convinzione questo scenario: «È necessario procedere spediti sul cammino della difesa comune per acquisire una vera autonomia strategica, che sia complementare all’Alleanza Atlantica» ha dichiarato nel marzo del 2022, in un discorso al Parlamento italiano che ha fatto scuola. «La minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo fatto finora. Possiamo scegliere se farlo a livello nazionale, oppure europeo. Il mio auspicio è che tutti i Paesi scelgano di adottare sempre più un approccio comune. Un investimento nella difesa europea è anche un impegno a essere alleati».

A lui si aggiunge oggi l’altro ex ragazzo prodigio italiano, Matteo Renzi, che in proposito afferma: «Serve adesso l’esercito europeo, ora o mai più. Perché se davanti a questo nuovo disordine globale noi continuiamo a fischiettare facendo finta di nulla, l’Europa diventerà solo un bel ricordo. Col suo modo di fare spiccio e grossolano Trump ha in realtà posto gli europei davanti a un bivio: giocare da protagonisti o restare alla finestra».

Ecco dunque il punto: nessuno in Occidente, né in Europa né in America, dubita più del fatto che gli investimenti nella difesa debbano crescere, date le minacce ibride e trasversali della nostra epoca (dalla Russia allo Yemen). Ma il punto è dove e come investire. Se, cioè, destinare più fondi alla Nato come chiede Trump o se affrancarsi del tutto, come prefigura Bruxelles. In ognuno dei due casi, la spesa militare europea dei prossimi anni sarà ingente, assai più alta rispetto al 2% del Pil nazionale. E questo non può non essere tenuto in conto nella valutazione di una difesa alternativa alla Nato.

Va detto per inciso che Donald Trump, di là dagli eccessi verbali, ha ragione di lamentarsi di chi effettivamente oggi non rispetta gli obblighi pattuiti nei confronti un’Alleanza che ha protetto e salvaguardato lo spazio comune europeo per oltre settant’anni, anche grazie allo scudo nucleare Usa.

Ma, cantava Bob Dylan, i tempi stanno cambiando. E allora la discussione in corso in Europa non è più soltanto sull’esercito europeo in sé ma, come ha ben riassunto Ugo Barbàra per l’agenzia Agi, «riguarda fondamentalmente l’ombrello nucleare statunitense, il deterrente ultimo contro l'invasione russa. Molti membri dell'alleanza si domandano se l’America continuerà a coprirli anche se la valigetta con i codici di lancio dovesse tornare nelle mani di Trump».

Gran Bretagna e Francia hanno già i loro arsenali nucleari, seppure di dimensioni limitate. E sebbene i primi non siano più nell’Unione, aderiscono però al PESCO. Dunque, la domanda in sostanza è se, a questo punto, anche altri Paesi europei dovrebbero dotarsi di armi atomiche. Una discussione che conoscerà senza dubbio un’accelerazione tra i membri europei della Nato, qualora Trump dovesse tornare alla Casa Bianca. Perché la sola sua presenza farebbe dubitare gli alleati del Vecchio continente circa la validità dell’Articolo V del trattato atlantico, in base al quale un attacco contro uno Stato membro costituisce un attacco a tutta l’Alleanza.

Dunque, dopo l’unione monetaria sembra che l’esercito comune venga addirittura prima dell’unione politica. Se non altro per ragioni di praticità. Una teoria che trova non pochi riscontri in Italia: «Esercito europeo, elezione diretta del Presidente della commissione, superamento del diritto di veto, stato di diritto» sono le priorità secondo l’ex premier Renzi. Mentre Antonio Tajani, ministro degli Esteri, è più felpato ma non meno convinto: «Le parole di Trump sulla Nato? Non entro nella campagna elettorale americana, c’è un tema fondamentale che è quello della difesa europea, sono anni che insistiamo sulla necessità di avere un esercito europeo, di avere una politica di difesa europea che sia parte integrante della politica estera europea. Non è un caso che ci siamo imposti per dar vita a una missione europea nel Mar Rosso che tuteli la sicurezza del trasporto marittimo».

Anche se poi l’ex presidente del Parlamento europeo e oggi leader di Forza Italia, ha voluto rassicurare l’azionista di maggioranza della Nato, precisando: «Bisogna capire che per contare anche all’interno della Nato bisogna essere credibili e l’Europa lo è se si dà una politica estera e di difesa seria. Questo è il modo migliore per dire agli Stati Uniti “noi ci siamo, siamo nella Nato, ci crediamo ma siamo degli interlocutori dello stesso livello”».

Dunque, in definitiva, se per l’America (e per i repubblicani in primis) tutto sembra ridursi a una questione pattizia economica, per l’Europa invece la politica di difesa che verrà è un aspetto vitale per la sua stessa sopravvivenza. Ecco anche perché il 2024 sarà un anno fondamentale per l’Occidente: le due grandi elezioni, europee e americane, determineranno le strategie politiche di qui ai prossimi quattro anni dei due continenti. Un’occasione storica che potrebbe persino segnare il corso di questo secolo e determinare la fine dell’Alleanza atlantica o il suo rilancio. Con il piccolo ma significativo vantaggio che l’Europa potrà darsi una linea più o meno atlantista, più o meno europeista, mesi prima che s’insedi il prossimo inquilino della Casa Bianca.

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Luciano Tirinnanzi