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Il generale Roberto Vannacci e la cover del suo libro «Il mondo al contrario» (Ansa)
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«Il mondo al contrario», il libro discusso del Generale Vannacci

Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Roberto Vannacci che tante polemiche hanno scatenato in questi giorni

Siamo nel pieno delle polemiche e delle decisioni della Difesa e di alcuni tribunali in merito al discusso libro, «Il Mondo al Contrario» scritto dal generale Roberto Vannacci. Ecco alcuni stralci con le frasi che hanno fatto e fanno discutere anche a distanza di mesi.

Occupazioni abusive

Noi italiani siamo strani: crediamo ancora in valori tradizionali e cerchiamo di aggrapparci ad ogni certezza che ci possa mettere al riparo dalle avversità della vita. Forse è stata la discontinuità della nostra storia a renderci così cauti e prudenti, forse è stata la mancanza di altre certezze e forse la necessità di individuare un luogo in cui ci si possa sentire sicuri, perché altrove non lo siamo sempre stati. Una cosa è certa: nella penisola la casa rappresenta la colonna portante della vita ed il punto di riferimento della famiglia. Quattro mura, niente di più. È probabilmente per questo motivo che l’Italia è uno dei paesi al mondo che ha la più alta percentuale di proprietari di case. [...] Ci si aspetterebbe, dunque, che fosse uno tra i beni più tutelati dal nostro ordinamento, considerato il valore che rappresenta nella nostra cultura e civiltà. Invece, purtroppo, anche in questo caso il Mondo al Contrario irrompe brutalmente nelle nostre vite e ci consegna l’Italia degli ultimi quarant’anni in cui gli occupatori abusivi ed i ladri di case sono più tutelati dei loro legittimi proprietari. [...] Il fenomeno era limitato, i casi erano fortuiti ma già rivelavano una certa inadeguatezza del sistema. Gli sfratti, infatti, non sono mai stati facili nello stivale. Il grande perdente è sempre stato il proprietario del bene che, nelle migliori delle ipotesi, ne riassumeva il possesso con mesi, se non anni di ritardo, senza percepire le somme per la locazione dell’abitazione e, spesso, con una lunga serie di bollette da pagare. Ogni tanto si aggiungeva al danno la beffa di vedersi restituire una casa sporca, mezza distrutta, non curata, in poche parole un alloggio da risistemare tutto a proprie spese. Il fenomeno, tuttavia, era relegato alle grandi città perché nei piccoli centri gli abitanti si conoscevano bene fra loro e l’ipotesi di macchiare la propria reputazione di fronte alla comunità con una condotta disdicevole di inquilino moroso e menefreghista frenava e limitava tali tipologie di manifestazione. [...]

Il Mondo al Contrario è anche questo, non bastano i giudici, gli avvocati, la forza pubblica, le carte bollate e mesi, se non anni di attesa, alla fine un occupante abusivo su quattro riesce a farla franca ed al proprietario, nel migliore dei casi, non resta che leccarsi le ferite. Mentre il principio della legalità va in frantumi vi sono ampie frange di pseudopolitici ed intellettuali che, comunque, giustificano questa grottesca situazione. La circostanza che rende il fenomeno ancora più sconcertante ed esecrabile è che, almeno sotto il punto di vista della percezione, l’occupazione abusiva è sicuramente peggio del furto: quando ci viene sottratto un bene mobile, nella maggioranza dei casi, il fatto è immediato; il reato si consuma in un tempo brevissimo da parte di qualcuno che generalmente non conosciamo e non vediamo; la refurtiva non viene quasi mai ritrovata e quindi la consideriamo persa oppure, se ritrovata, viene restituita al legittimo proprietario senza indugio.


Sicurezza

Come la democrazia e la libertà, la sicurezza ha un costo elevato e va coltivata e preservata con cura e dedizione, va custodita e difesa non solo dallo Stato e dalle organizzazioni ed enti deputati, ma da tutti i cittadini che devono contribuire, nel loro stesso interesse, a mantenere in buona salute questo bene primario della collettività. Anche queste basiche e semplici convinzioni, al limite del banale, non sfuggono ai ribaltatori della realtà che sconvolgono metodicamente quello che è il sentire comune e che finiscono per giustificare tutto, anche ciò che costituisce palesemente una diretta minaccia al singolo e alla collettività.

[...] Come fa l’assalito a poter immaginare le bramosie dell’aggressore? Come si interpreta e si quantifica l’ampiezza del «turbamento» e la percezione del pericolo da parte della vittima che, in punta di legge attuale ed insieme alla «necessità» costituirebbero l’unica giustificazione per una reazione violenta? Come faccio a sapere che i due ceffi che mi aggrediscono per la strada a suon di botte e catenate mi vogliono solo rubare il portafoglio il cui valore, in base alla proporzionalità, è sicuramente inferiore alle loro vite?

Ecco perché la difesa, a parte rare eccezioni, deve essere considerata sempre legittima! È l’aggredito la vittima non l’aggressore. È a lui che vanno pagati i danni per lo spavento procurato e per il turbamento della sicurezza della propria persona che, ricordiamoci, insieme alla vita costituisce un diritto fondamentale garantito allo stesso articolo dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il principio della proporzionalità, infatti, in quasi tutti i casi viene rispettato se non nelle aule dei tribunali certamente nella cruda realtà.

L’aggressore è sempre in vantaggio. Ve lo dice un esperto di forze ed operazioni speciali. Lui detiene l’iniziativa e sa quando e come entrare in azione sorprendendoci; lui pianifica l’azione con meticolosità; lui si prepara ripetutamente prima del colpo in modo da non lasciare nulla all’imprevisto; lui compie l’atto criminoso molto velocemente non dandoci il tempo di reagire; lui impiega aggressività e motivazione – sa cosa cercare e ottenere – per portare a termine la sua rapina mentre la vittima è colta sempre dal dilemma se scappare, difendere i suoi cari, chiamare aiuto o reagire fisicamente. In termini dottrinali l’aggressore realizza la superiorità relativa, ovvero quella condizione che le forze speciali di tutto il mondo ricercano per avere ragione di unità più consistenti e meglio organizzate a difesa.


Modello sociale tradizionale

Sono figlio di una famiglia tradizionale: un padre che lavorava e che spesso non era presente proprio per motivi legati alla sua professione e una madre casalinga che, quasi da sola, si è occupata di tutte le faccende domestiche e ha allevato, cresciuto e seguito me e i miei due fratelli sino alla nostra maggiore età. Come la mia, molte delle famiglie dei miei amici e dei miei compagni di scuola che, felicemente, sono cresciuti insieme a me. Nulla di strano, dunque, perché nella mia situazione si sono ritrovati moltissimi altri giovani che, tra gli anni ‘60 e oggi, hanno condiviso la bellezza di un nucleo familiare tradizionale in cui uno dei genitori, generalmente la madre, si è essenzialmente preso cura della famiglia, anche senza rinunciare al lavoro, e l’altro si è occupato primariamente del sostegno economico pur condividendo, quando poteva, la vita e i bellissimi momenti del focolare domestico. [...]

Ricordando il detto «squadra che vince non si cambia», stupiscono gli attacchi e le critiche a cui la famiglia tradizionale è stata sottoposta negli ultimi cinquanta anni da una moltitudine di soggetti che propongono modelli diversi, a volte originali e stravaganti, che dovrebbero soppiantare un’istituzione che invece, per secoli, si è dimostrata più che all’altezza del proprio compito. Il primo attacco proviene dal socialismo reale che brama di «comunizzare» la società e di assegnare alle sole istituzioni statali l’educazione dei giovani che devono essere, sin dai primi anni d’età, sottratti alle grinfie familiari che ne potrebbero alterare i valori di riferimento. Questa stessa matrice ideologica impone inoltre che il lavoro, severamente gestito dallo Stato, debba coinvolgere tutti i membri della società, rigorosamente tutti, ivi compresi i neo genitori per i quali non deve esistere un’alternativa che esuli dall’impiego protratto e continuo in un’attività produttiva, come se quella dell’educazione della prole non lo fosse.

Altra incredibile bordata proviene dal movimento femminista che si batte per l’emancipazione della donna. Oltre a promuovere istituzioni come il divorzio e l’aborto al suon dello slogan «tremate, tremate, le streghe son tornate» si oppone alla figura femminile intesa come madre. Le moderne fattucchiere sostengono che solo il lavoro e il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica.

Si aggiungono i movimenti lgbtq+ che introducono il concetto di fluidità sessuale, di percezione del sesso e di transgender e che classificano come famiglia l’unione tra due persone di sesso uguale o, non importa quale sesso, anzi, il sesso non esiste è solo una percezione! «L’importante è che ci sia l’amore» – tuonano indignati! Quando poi si rappresenta che una coppia omosessuale non può fisicamente procreare la risposta ormai ciclostilata è che ci sono tante coppie eterosessuali che non hanno figli, quindi, perché scandalizzarsi.

Arrivano poi gli animalisti che sostengono che l’amore, che assolutamente non può definirsi affetto, è possibile anche nei confronti di una tenera bestiolina e che, quindi, pretendono esteso il concetto di famiglia a chi vive con un gatto, un cane, un porcellino d’India o, addirittura, un maiale. Non si spiegano il perché, dunque, alla scomparsa del padroncino l’adorato essere peloso non debba avere il diritto di percepire la pensione di reversibilità come invece l’avrebbe un coniuge o un figlio minorenne. Il risultato è che la famiglia ha subito durissimi colpi, che il termine stesso di famiglia naturale o tradizionale viene messo in discussione, che le donne, per quanto lavorino, non sono spesso contente e realizzate, che le situazioni di disagio minorile sono incrementate, che la natalità è incredibilmente diminuita e che gli anziani, spesso non autosufficienti, non trovano più una collocazione se non in squallide case di riposo in attesa di raggiungere la pace eterna.

Quando ripercorro la mia esistenza mi rendo conto che l’unico ed insostituibile punto forza, l’unica certezza, il più solido dei supporti capace di resistere a qualsiasi avversità è stata proprio la mia famiglia. Qualsiasi cosa succedesse sapevo di poter contare su qualcuno che avrebbe compreso o che, anche senza capire o condividere le mie azioni o le mie scelte, mi avrebbe comunque aiutato. Sapevo di poter essere ascoltato e di poter trovare compassione o dissenso, ma mai una condanna. Per uno come me veder mettere in dubbio la famiglia tradizionale sembra quasi un attentato all’unica cosa di indiscutibilmente positiva che la società possa offrire. Sono convinto che nulla nasca per caso e se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà. Il nucleo familiare esiste da quando l’uomo esiste. Senza scomodare gli antropologi sappiamo che l’unione di un uomo e una donna ha garantito il prosperare della specie umana, la sua evoluzione e il suo benessere. All’origine non vi è stato alcun inventore del nucleo familiare, non esiste alcun copyright o, almeno, non ve ne è traccia all’ufficio brevetti. È stata semplicemente l’espressione della Natura che, attraverso i severi processi di selezione e adattamento ha individuato l’organizzazione più efficace per garantire la sopravvivenza della specie.

Ancora prima che esistesse il matrimonio, la legge, la politica, lo Stato, il codice civile, forse ancora prima che si disquisisse tra il bene e il male la famiglia garantiva la vita del sapiens. Se Madre Natura ha percorso altri itinerari quello che si evince è che questi tentativi hanno portato a risultati caratterizzati da eccezionalità e da scarsa rilevanza. [...] Nel nostro bel Mondo al Contrario siamo arrivati al paradosso dei paradossi: chi potrebbe avere dei figli non li fa e viene dissuaso dal farli sia per ragioni economiche ma anche perché ormai si è socializzata l’idea che avere una prole significa rinunciare alla libertà, all’emancipazione, alla carriera e ad una vita cosiddetta «moderna»; chi invece i figli non li può avere, come le coppie omosessuali, è pronto a qualsiasi espediente per ottenere un paio di pargoli sostenuto in questa assurda tenzone da una pletora di finti moralisti che, mentre accostano alla maternità l’idea di schiavitù, si inventano il «diritto alla genitorialità» e giustificano pratiche come l’utero in affitto per soddisfare i desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno. D’altra parte, seguendo lo stesso criterio potremmo affermare, con un ragionevole grado di certezza, che non è nella natura dell’uomo essere cannibale, pur accettando il fatto che in alcune circostanze eccezionali ed in particolari e specifiche condizioni anche il sapiens abbia sviluppato forme di cannibalismo per garantirsi la sopravvivenza.

Che il Conte Ugolino, chiuso tra le mura della Torre della Muda, si sia mangiato i suoi figli non giustifica la naturalezza di tale comportamento. Analogamente, se alcuni gruppi di individui che la Natura ha relegato in ambienti impossibili finiscono per mangiarsi tra di loro ciò non ammette la banalità di una tale condotta in condizioni usuali. Questa chiara evidenza non ci porta a definire l’antropofagia come naturale e normale e non credo potrebbe mai giustificare la vendita di carne umana nei nostri supermercati. Né questa particolarità ci porta a elidere il significato, o addirittura il termine, di normalità.

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Redazione Panorama