giulia filippo
(Ansa)
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Non serve una legge e nemmeno un'ora di scuola. Serve umanità, da tutti, dappertutto

Riflessioni di un padre preoccupato e di una criminologa davanti alla tragedia di Giulia e Filippo

La triste e prevedibile fine di Giulia Cecchettin e la cattura del suo assassino ed ex fidanzato, Filippo Turetta è una di quelle cose che hanno colpito tutti. Soprattutto se, è il mio caso, si è padre di una ragazza. Ed è proprio il papà preoccupato e non il giornalista interessato che stamattina ha chiamato la dottoressa Cristina Brasi, nostra preziosa collaboratrice, criminologa, psicologa, profiler, la persona più adatta, se ce n’è una, a cui rivolgere dubbi e domande sul tema della violenza.

Abbiamo parlato della proposta di legge ed ho anche paventato il massimo della pena come deterrente almeno per gli emulatori che ci sono sempre. «Ti sbagli - mi ha raccontato la dottoressa - questi assassini hanno dei tratti psicologici e personali particolari e non si fermano davanti a nulla, ergastolo compreso». Quindi il bastone è chiaro che non serva a nulla. Allora passiamo alla «carota», a quel percorso di educazione che anche sui social (io ho visto tra i miei consigliati su instagram almeno mille volte lo slogan: «Non dobbiamo difendere le nostre figlie ma educare i nostri figli») va tanto di moda. C’è chi ha proposto di inserire il tema della violenza sulle donne e dei femminicidio nelle scuole: «Non serve a nulla nemmeno quello» mi ha tramortito per la seconda volta la dottoressa Brasi.

Senza più certezze mi sono così rivolto a lei: cosa si può fare? «Filippo ha caratteristiche personali e psicologiche uguali a quelle degli altri assassini. Ci sono tratti di queste persone che sono comuni. Osservo e seguo bambini di 8 anni con tratti di narcisismo talmente marcati da risultare già un problema…. 8 anni… Bisogna si entrare nelle scuole, come nelle famiglie, per cominciare ad individuare questi segnali. A quel punto si può intervenire sulla persona, per aiutarla».

Capite bene che siamo senza speranza: i professori fanno già fatica a fare il loro lavoro; pensare che possano anche imparare a riconoscere i tratti psicologici a rischio dei loro studenti è del tutto assurdo soprattutto perché capite bene come la formazione di un docente in questo settore richieda tempo e denaro, che nessuno ha.

Si può però far qualcosa di più in casa, non fosse altro perché mamme e papà hanno avuto contatti con i loro figli come nessun altro, sia esso amico, fidanzato o fidanzata, compagno di classe o di scuola. Anche qui però le difficoltà non mancano, prima tra tutte quella che un genitore (mi ci metto pure io, sia chiaro) tende a proteggere e difender il proprio figlio, spesso anche davanti alle peggiori evidenze (di Filippo quanti in casa sua e non solo pensavano che fosse un «bravo ragazzo»?).

Angolo. Da genitore mi sento in un angolo che nelle mani non ha un bastone e nemmeno una carota per cercare di salvare la prossima Giulia. Davanti a quei due muri che non danno via d’uscita mi sono chiesto come sia stato possibile in 30 anni arrivare a tutto questo. Da 20 enne non mi sarebbe mai saltato in mente di usare violenza contro una ragazza ed i casi di cronaca si contavano sulle dita di una mano in un anno. Oggi sono pane quasi quotidiano.

Forse ai nostri ragazzi dovremmo smetterla di educarli ad essere forti, ma ad essere «belli». Dovremmo spiegare con non contano soldi e successo, ma conta più di tutto l’amore. Retorica, si, e pure tanta. Ma a furia di definirla retorica ce ne siamo dimenticati o l’abbiamo messa nella categoria «difetti». Ce lo dice per primo la persona che oggi sta soffrendo come nessun altro tra noi, il padre di Giulia: «L’amore non uccide».

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Andrea Soglio