Giulia femminicidio scuola
(Ansa)
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Si parli di violenza sulle donne nelle scuole. Ma la battaglia educativa vera la si combatte a casa

E’ già partita la gara per assicurarsi il favore dell’opinione pubblica sul da farsi per superare l’ondata di violenza che ha travolto l’Italia in quest’ultimo anno. Ma questa competizione è essa stessa parte del problema che, invece, va estirpato alla radice

Domani un minuto di silenzio in tutte le scuole, poi una presumibile battaglia politica per intestarsi il disegno di legge più da copertina perché non accada più che un Filippo Turetta ammazzi una Giulia Cecchettin. Questo sembra lo scenario dei prossimi giorni, se si guarda alla scuola e al dramma che in questi giorni ha stravolto una famiglia, anzi due, e poi tutta l’Italia. Un po’ poco, dinanzi a tanto male.

Il minuto di silenzio serve, a commiato, ma non può bastare. Sia un momento di preghiera, per chi crede, e di raccoglimento per tutti pensando al caso singolo e al sangue della vittima, Giulia, ma non serva a chiudere i conti con quello che è un esito atroce di una società produttrice e consumatrice di rabbia e di violenza.

Allo stesso modo, qualsiasi provvedimento si vorrà pensare di inserire nella quotidianità scolastica – una, due, trenta ore di approfondimenti tematici - non sarà decisivo, perché non si risolve con un’attività estemporanea un tratto caratteristico della società contemporanea, vale a dire – tocca ripeterlo – la produzione e il consumo di rabbia e violenza in ogni area sociale, a qualsiasi strato sociale, in ogni occasione.

La società che abbiamo costruito e che viviamo propone il linguaggio della violenza in ogni sua forma senza disdegnarlo mai: chi prevale negli affari è raccontato come il modello vincente, il mondo del lavoro stesso è presentato già nelle aule scolastiche come un ambiente di squali in cui bisogna imparare a farsi spazio e proprio il mondo degli adulti, più in generale, è mostrato come pericoloso – certo - ma anche stimolante per competizione, ritmi serrati, la logica del vincente, insomma la prevaricazione e la selezione costi quel che costi.

Anche scandalizzarsi utilizza sempre e solo il linguaggio della rabbia che è sempre preferito a proposte di studio e condotte alternative basate sulla riflessione e sulla progettualità. La risposta a ogni stimolo sono sempre e solo stizza e irritazione, necessità di zittire l’altro, alzare la voce e i toni, permettendosi modi aggressivi nel nome di ideali da sostenere.

Come educare un figlio maschio in questa spirale di violenza? Come dormire sonni tranquilli con una figlia fuori casa? Sono preoccupazioni profonde, sintetizzate dalla cronaca nera col femminicidio di questi giorni, a cui non sappiamo cosa rispondere e che ci trovano senza alleati.

Che fare, quindi? La scuola non può farcela da sola e, se si vuole davvero cambiare qualcosa, serve l’aiuto di tutti.

Se la politica, per avere il consenso, fa prevalere i toni dell’aggressione, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice.

Se l’informazione, per reagire alla crisi del settore, preferisce accondiscendere l’emotività popolare rispetto alla razionalità, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice.

Se sui nostri schermi ci assuefacciamo a aggressività, ferocia e pornografia, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice.

Se ogni discussione degenera in una rissa, verbale o fisica o giuridica, si alimenta una società violenta e ciò va stravolto alla radice.

Se i social sono utilizzati come un flusso di coscienza per sfogare l’istinto di aggredire, di giustiziare e di colpire, si alimenta una società violenta e ciò va stravolta alla radice.

Questo è ciò che c’è da fare, altro che minuto di silenzio e qualche oretta a scuola a parlare di buone pratiche che non andranno da nessuna parte se non ci sarà una realtà differente fuori aula. O almeno l’esplicita volontà affinché ciò accada.

La realtà quotidiana in cui siamo immersi, basta osservarla, è un inferno schizofrenico, perché produce e si nutre di relazioni disfunzionali, tossiche, abortite di cui si autoassolve salvo poi condannare le più turpi.

Ben vengano un’ulteriore maggiore attenzione giuridica e tutto ciò che si penserà per sensibilizzare dal punto di vista sociale e nelle scuole, ma quello che serve davvero è un cambio di sistema in cui la violenza non sia un vanto, mai, e la rabbia uno strumento di comunicazione e di ragione. Mai.

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Marcello Bramati