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Docente (come me) accoltellato. C'è da aver paura ad insegnare

Un altro caso di cronaca nera investe le nostre scuole, con l’ennesimo episodio di violenza tra le mura scolastiche. I rapporti tra docenti, genitori e alunni sono deteriorati tanto che ora chi insegna teme per l’incolumità fisica. Perché si è arrivati a questo punto?

E’ bene che un insegnante che entra in classe ogni mattina abbia dei timori. Il primo è essere quello di non riuscire a intercettare tutti: possedere un sapere non significa trasmetterlo e la mediazione didattica è un cruccio per ogni docente, alle prese con i tempi, con le capacità attentive del gruppo di studenti a cui si rivolge, ma anche con l’aula rumorosa o confortevole, il clima favorevole o meno, la strumentazione aggiornata o vetusta a disposizione. Un insegnante che riflette sul suo operato teme costantemente di insegnare perdendo dei pezzi di classe, per noia o per difficoltà proposta.

Un altro timore è quello di non riuscire a soddisfare chi ha una predisposizione e, magari, una passione, e con la stessa lezione consentire anche ai più distanti, per mille motivi, il raggiungimento dei saperi minimi della singola disciplina. Insieme a questo timore, si aggiunga quello di non riuscire a rendere giustizia alla materia che si insegna in aula, temendo appunto di risultare sintetici, poco chiari, sbrigativi, non esaurienti. Quante volte chi scrive ha avuto dubbi sulla chiarezza di una lezione di grammatica o di scrittura, oppure sui tagli necessariamente operati alla Commedia di Dante o al Settecento letterario italiano.

Infine, c’è il timore che riguarda la valutazione che, nonostante si basi su criteri oggettivi e su griglie condivise e pubbliche, soprattutto per le prove orali dipende sempre anche dal momento, dalla giornata, dall’esposizione, dall’andamento di uno studente; inutile negarlo, valutare porta con sé il dubbio di averlo fatto nel modo migliore, tollerando l’incertezza del margine di errore.

Questi sono i timori di cui un insegnante dovrebbe curarsi. Invece da qualche tempo essi hanno fatto spazio alla paura che si declina poi in vari modi.

Paura di incontrare i genitori. Molti docenti vivono i tempi dedicati ai colloqui con le famiglie come una parte di un vero e proprio processo in cui si devono portare prove per difendere il proprio operato, le valutazioni assegnate, le decisioni prese. Sono paure che portano a urlare, a scaldarsi, oppure al contrario a non sbottonarsi, contando i minuti che restano alla fine dell’orario di ricevimento. E’ una paura che si fonda sulla mancata fiducia – reciproca, si intenda! – e sul pensiero strisciante per cui se una generazione è così, la colpa sia inevitabilmente di questa infornata di “genitori-avvocati-difensori”, per gli uni, e parimenti di “insegnanti-tutti-incapaci” per gli altri.

Paura di affrontare un ricorso. Nell’ottica del rapporto distorto tra famiglia e scuola, quando le cose vanno male il capitolo finale spesso è giudiziario. Accesso agli atti, ricorso nei confronti di una bocciatura, ma anche di un debito assegnato, ma anche di un centesimo nella valutazione finale alla maturità. E’ un processo vero e proprio di cui gli insegnanti sono sempre più consapevoli e di cui hanno paura, per gli strascichi psicologici e professionali, per la fiducia che si sgretola sotto i loro piedi. E così succede che ci si occupa più di correttezza formale che di cultura, perdendo di vista che un ricorso si evita principalmente lavorando a regola d’arte, e non stilando verbali inoppugnabili.

Paura di finire vittima di video e materiali digitali modificati, estrapolati, o anche veritieri ma che fanno di un docente un soggetto di scherno. I materiali digitali e gli strumenti di cui dispone ogni persona – o quasi – che abbia compiuto 14 anni espone al pubblico ludibrio una generazione di insegnanti che, spesso inconsapevolmente, diviene protagonista di meme, prese in giro di ogni tipo per un’inflessione dialettale o per una caratteristica fisica, finendo in migliaia di video su Tik Tok ogni giorno, con buona pace di ogni regola scolastica e di privacy.

Paura di non farcela. Lo stipendio di un insegnante è inadeguato alla vita nel 2024. Un laureato in affitto fuori sede, o con una piccola prole da mantenere, oggi fatica a considerare l’insegnamento come un’opzione per lavorare e reggersi stando in pari con le spese, perché 1500 euro al mese malcontati – talvolta in eccesso - fanno paura dinanzi al costo della vita in una città italiana.

Paura di una violenza fisica. Da qualche anno, si è fatta strada questa nuova paura che, da eccessiva che sembrasse, ora diviene terrore. Freccette, spintoni, pugni. Stamattina un coltello nella schiena a un’insegnante di Varese. Questo accade in Italia ai docenti che varcano le soglie delle loro scuole.

Le istituzioni italiane in questi ultimi trent’anni hanno dato prova di incomunicabilità, ritardi, burocrazia inutile e incapacità di rinnovarsi, ma è inaccettabile che la risposta allo scontento abbia una matrice ormai non più episodica e violenta, che si tratti di un preside aggredito per strada, di un primario pestato nel parcheggio di un ospedale, di un messo comunale inseguito per le strade del suo paese. Usciamo da questo presente distopico smettendo di rispondere alle incertezze dei tempi mostrando i muscoli. L’essere umano si salva collaborando in una social catena, per dirla con Leopardi, non brandendo una mazza ferrata.

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Marcello Bramati