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Xi Jinping (Epa)
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Russia-Ucraina: L’inganno diplomatico di Xi Jinping

Il neo rieletto presidente della Repubblica popolare cinese si offre come mediatore tra Putin e Zelensky ma nella realtà prepara il riarmo più consistente di sempre. E torna a pensa alla riunificazione nazionale con Taiwan

Difficile interpretare i segnali che provengono in queste ore da Pechino. Un ramoscello d’ulivo offerto a Washington con la mano sinistra, sembra nascondere neanche troppo bene un coltello nella destra.

Mentre, infatti, da un lato Xi Jinping si offre quale mediatore sul conflitto ucraino pretendendo un colloquio sia con Putin sia con Zelensky, dall’altro prepara il riarmo più consistente di sempre per la Cina e annuncia che il processo di riunificazione nazionale con Taiwan è qualcosa d’inevitabile.

Nel primo discorso che ha inaugurato il suo terzo mandato al vertice della Repubblica popolare, il presidente Xi ha evocato la costruzione di «una Grande muraglia d’acciaio capace di salvaguardare con efficacia la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo», indicando senza mezzi termini che la Cina compirà sforzi immani «per modernizzare la difesa nazionale e l’Esercito popolare di liberazione su tutti i fronti».

Se non è un passo verso la guerra questo, difficile immaginare cos’altro possa essere. A meno di non voler interpretare la mossa solo come la riedizione di una corsa al riarmo, in pieno stile Guerra Fredda, con Pechino nel ruolo che fu dei sovietici. Anche perché Washington non sta certo a guardare: il presidente Biden ha appena fatto la più alta richiesta di soldi per la Difesa dai tempi delle guerre in Afghanistan e Iraq, 886 miliardi di dollari che serviranno per l’aumento delle buste paga per i soldati e per la ricerca, ma soprattutto per la produzione di missili, aerei e armi nucleari.

«La Cina è impegnata in una significativa e rapida espansione e diversificazione delle sue forze nucleari. Inoltre, Russia e Cina considerano lo spazio come un dominio bellico. La Cina ha anche un inventario in continua crescita di sofisticati sistemi di attacco a lungo raggio che mettono a rischio le forze statunitensi a distanze sempre maggiori» ha confermato al Congresso Usa John F. Plumb, assistente segretario alla Difesa per la politica spaziale.

«Potranno anche avere giustificazioni, ma non si può ignorare il fatto che i loro reattori sono al plutonio, e il plutonio serve per le armi. Quindi, è logico che il Dipartimento della Difesa sia preoccupato. E, naturalmente, questo corrisponde alle nostre preoccupazioni per la crescente espansione delle forze nucleari cinesi, perché se hai bisogno di più plutonio vuoi più armi» ha sottolineato Plumb, giustificando de facto l’impegno nucleare statunitense.

E se il neo premier Li Qiang riafferma che «le forze armate cinesi devono salvaguardare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina», a rispondergli a tono è la vicesegretaria della Difesa Kathleen Hicks, secondo cui «misureremo il nostro successo in base a tutte le volte in cui la leadership della Repubblica popolare cinese si sveglierà con l'idea di lanciare un attacco ma poi dirà, “oggi non è il giorno giusto”».

In tutto ciò, s’inserisce anche una sorta di provocazione cinese verso gli Usa: la nomina all’unanimità del Partito del generale Li Shangfu quale nuovo ministro della Difesa, ovvero proprio l’uomo posto sotto sanzioni statunitensi per aver cooperato con la Difesa e l’intelligence della Russia nella fornitura di armi.

In questo clima che definire teso è un eufemismo, la sensazione è che tanto Pechino quanto Washington siano affette da strabismo e, guardando all’Ucraina, in realtà guardino a ben altro. Appunto, la questione calda di Taiwan e del Pacifico, ma anche quella relativa all’Iran; e fors’anche al resto del Mena (acronimo per indicare Medio Oriente e Nord Africa), dove nell’indifferenza generale monta una preoccupante clima di instabilità.

Se dunque nei piani cinesi c’è anche la bozza di un accordo di pace per l’Ucraina mediato direttamente da Xi Jinping, questo sembra teso soltanto a sottolineare il ritrovato ruolo da prim’attore di Pechino nel consesso internazionale. Come a dire che, ottenuto il terzo mandato, Xi può tornare a concentrarsi sulla politica di potenza cinese, che ostenta forza e sicurezza nei propri mezzi (soprattutto quelli bellici, visto che l’economia non tiene il passo con le ambizioni del nuovo Mao) e si pone come deus ex machina di ogni questione che attiene alla Russia.

Così, gli aiuti indiretti che Pechino fornisce a Mosca in questa fase di guerra - dall’energia all’acquisto di materie prime per il nucleare - racchiudono la volontà cinese di usare la Russia come spauracchio per distrarre la comunità internazionale da un riarmo senza precedenti. «La sicurezza è il fondamento dello sviluppo, mentre la stabilità è un prerequisito per la prosperità» è la dottrina di Xi Jinping, il cui budget della Difesa è salito a 223 miliardi di euro.

Non resta che aspettare i colloqui delle prossime settimane, per capire quanta retorica ci sia nella visita di Xi Jinping a Mosca (volerà poi anche in Europa per incontrare Zelensky o quest’ultimo dovrà accontentarsi di una videochiamata? Ovviamente la seconda…) e quanta sostanza nel cosiddetto «position paper» che Xi sventola come possibile terapia diplomatica.

Ma può un Paese apertamente schierato con Vladimir Putin, che sostiene e rifornisce e da cui acquista plutonio, porsi come negoziatore per una pace stabile, mentre si prepara a invadere Taiwan? Come disse lo scrittore Bernard Shaw, «esistono cinque categorie di bugie; la bugia semplice, le previsioni del tempo, la statistica, la bugia diplomatica, e il comunicato ufficiale».

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Luciano Tirinnanzi