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La fabbrica Mesfin bombardata a Macallè il 21 ottobre 2021.
Dal Mondo

Tigray: le foto che confermano i bombardamenti di Macallè

In arrivo dalla regione etiope le immagini che mostrano l'operato del primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019.

Lunedì 18 ottobre: «Conferma adesso di bombardamento su Macallè in tre punti diversi, tutti civili. Colpita la fabbrica del cemento e la piazza del mercato centrale». Mercoledì 20 ottobre: «Ti sto mandando i filmati e foto del bombardamento di Macallè stamattina». Giovedì 21 ottobre: «Ci sono 15 droni per aria che sparano su qualunque cosa si muova. I militari vanno a piedi. Hanno nascosto i camion. Usano cammelli e asini per trasporto. Rientro adesso da un meeting con l'amministrazione e i militari: siamo diventati obiettivo primario». Venerdì 22 ottobre: «Stamattina altro bombardamento su Macallè ancora in corso. Inizio della scuola rimandato e vietati gli assembramenti per timore di bombardamenti oltre che sulla capitale Macallè, anche sulle città principali: Adigrat, Adua, Shirè».

«A ciascun giorno basta la sua pena» dice Gesù nel Discorso della montagna. La pena di questi giorni sono i messaggi in arrivo dal Tigray: qui sopra ne abbiamo pubblicato un estratto circoscritto all'ultima settimana. A mandarli è una fonte di Panorama, un operatore umanitario non tigrino di cui non riveliamo l'identità per evitare che venga fucilato.

Dopo sei mesi di assedio, la guerra è tornata in Tigray. L'offensiva lanciata il 18 ottobre dal primo ministro Abiy Ahmed ha raggiunto il culmine con i bombardamenti contro obiettivi civili nel capoluogo Macallè.

Una campagna militare dagli effetti devastanti: data la mancanza di comunicazioni, non si conosce ancora il numero dei morti e dei feriti, certo è, però, che il 19 ottobre hanno perso la vita sotto le bombe tre bambini, più precisamente tre fratellini. «Sono stati raccolti a pezzi e messi in una scatola di cartone» sottolinea la nostra fonte. E aggiunge: «Di cartone, non avevano altro».

I testi, le foto e i video che ogni giorno compaiono sulla nostra chat di WhatsApp sono strazianti. Raccontano storie di massacri, stupri, evirazioni... E parlano di carestia. Secondo Ocha, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, in Tigray rischiano di morire di fame 400.000 persone: tanti sono i tigrini che si trovano nella fase cinque del sistema di Classificazione integrato delle fasi di sicurezza alimentare (Ipc). La fase cinque equivale a «catastrofe».

«È proprio una catastrofe: è un Ruanda numero due più un altro Biafra» conferma la nostra fonte, che accusa apertamente il premier etiope di genocidio. «Non c'è più cibo da acquistare neppure per chi ha denaro. Noi viviamo con granaglie arrivate miracolosamente dalla Croce rossa. È cibo rimasto sotto il sole per mesi sui camion bloccati in Afar. Eliminiamo gli insetti, esponendo tutto al sole e setacciando la farina. Poi condividiamo il tutto con la gente».

Le foto che pubblichiamo qui sopra riprendono i bombardamenti a Macallè del 20 ottobre. Le bombe hanno colpito, in piena giornata lavorativa, la Mesfin, un'industria meccanica e metallurgica in centro città, in cui venivano assemblati i veicoli pesanti. Il fumo nero è prodotto dalla combustione dei pneumatici, presenti in gran numero nei depositi.

Spiega la nostra fonte: «In un primo momento il premier Abiy e la televisione nazionale hanno negato il bombardamento come invenzione del Tplf (il Fronte popolare di liberazione del Tigray, ndr). Figuriamoci: il Tplf non ha neppure un aquilone, altro che elicotteri e fighter jet... Ma il Nobel per la pace ha la sfrontatezza di accusare il governo tigrino di avere bruciato i raccolti, distrutto le fabbriche, le scuole e gli ospedali. Di bloccare gli aiuti internazionali alla propria gente e addirittura di stuprare le proprie donne. È vergognoso».

Il 19 ottobre, però, il governo etiope ha ammesso di aver bombardato la regione settentrionale. E, in una successiva apparizione televisiva, il primo ministro ha dichiarato di «dover continuare i bombardamenti per poter liberare il Tigray dai ribelli».

Intanto, la gente continua a morire. Più di fame che di bombe. Emblematico il caso del bambino raffigurato qui sopra. «Quando la madre era incinta di due mesi» spiega la fonte di Panorama, «i soldati eritrei hanno dato alle fiamme il raccolto e portato via il bestiame della famiglia. Il marito ha cercato di riprendersi gli animali e di spegnere le fiamme, ma proprio per questo è stato ucciso. A quel punto la madre ha patito la fame. Tanto che, al momento del parto, pur essendo nato a termine, il bambino pesava meno di 900 grammi».



Un neonato tigrino di 19 giorni in fin di vita, a causa della grave denutrizione patita fin dal grembo materno.





Un ferito viene curato all'ospedale Ayder di Macallé il 21 ottobre 2021.

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Elisabetta Burba