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Tigray, 1935. Bimbi etiopi e una Gilera 500 italiana (Getty Images)
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Ottobre 1935: il Tigray e gli Italiani

La regione settentrionale dell'Etiopia, oggi in preda alla guerra civile, fu la prima ad essere conquistata e l'ultima a cedere nei 7 anni dell'Impero. Dal trionfo di De Bono alla resistenza del Duca d'Aosta sull'Amba Alagi.

La regione montuosa del Tigray ( o Tigré come veniva chiamata negli anni trenta in Italia) era rimasta nella memoria collettiva degli italiani come il simbolo della sconfitta. Tra quelle cime spoglie e sferzate dai venti, l'Amba Alagi evocava i fantasmi di una guerra coloniale perduta nel 1896, simulacro di un Paese che ormai non esisteva più. Erano passati quarant'anni e l'Italia non era più la stessa. Potenza coloniale incompiuta, si era seduta al tavolo dei vincitori della Grande Guerra potendo mostrare solo una voce flebile, al prezzo di un bagno di sangue in cui quale il vecchio stato liberale era affogato. Alla fine del 1935 il fascismo degli anni del consenso cercò la riconquista, partendo proprio dalla regione settentrionale dell'Etiopia oggi devastata dalla guerra civile ai confini con l'Eritrea, già colonia italiana dal 1890. Alle 5 del mattino del 3 ottobre 1935 la conquista italiana dell'Etiopia, fortemente contrastata dal governo britannico guidato da Anthony Eden e dalla maggior parte delle democrazie coloniali occidentali, partì proprio con l'invasone del Tigray. A guidare le forze italiane fu chiamato uno dei militari più anziani e blasonati, il quadrumviro e generale Emilio De Bono, classe 1866. Le forze italiane penetrate in territorio abissino da Nord incontrarono poca resistenza, dato che il Negus Hailé Selassié decise di far ritirare le forze etiopi all'interno, attendendo gli sviluppi delle discussioni alla Società delle Nazioni che porteranno alle sanzioni contro l'Italia. In questa primissima fase la regione del Tigray cadde facilmente in mano italiana, comprese le città simbolo della sconfitta di quarant'anni prima. I maggiori problemi incontrati dalle tre divisioni italiane furono quelli legati all'ambiente ostile e alla pressoché totale assenza di strade e infrastrutture, che resero difficile in alcuni casi l'avanzamento delle colonne e delle salmerie al seguito.
Adua cadeva in mano italiana due giorni dopo l'inizio dell'avanzata, il 6 ottobre 1935. Tra i ras locali che si sottomisero al vecchio generale figurava anche un cognato del Negus, fatto che fu enfatizzato particolarmente per il prestigio del suo rango. Una settimana dopo l'ingresso ad Adua, De Bono emanava un proclama che aboliva la diffusa pratica della schiavitù nel Tigray, mentre le armate si dirigevano verso la città santa di Axum occupandola alla metà del mese di ottobre. Nel 1937 l'antico obelisco della città tigrina sarà smontato e portato a Roma quale simbolo della vittoria. Rimarrà nella capitale fino alla sua restituzione nel 2005.
Ai primi di novembre la Società delle Nazioni, spinta da Anthony Eden sulla linea intransigente, votò le sanzioni contro l'Italia per l'aggressione ad una nazione membro. Mussolini volle imporre un colpo di acceleratore alle conquiste territoriali, il contrario dell'atteggiamento prudente del vecchio De Bono il quale, abituato alla guerra di trincea, aveva deciso di consolidare le zone conquistate attirando l'ostilità degli altri generali come Graziani (al quale era stato affidato il fronte Sud da Mogadiscio) e dal neo ministro delle colonie Alessandro Lessano. L'ultimo atto del vecchio generale fu la conquista di Macallé, la capitale della regione tigrina. Fu sostituito con un fonogramma del Duce da Pietro Badoglio ricevendo in cambio l'onorificenza del titolo di Maresciallo d'Italia. Erano i primi giorni del novembre 1935 ed il Tigray era stato conquistato con pochissime perdite, ma con la giustificata preoccupazione di De Bono sulla tattica degli Etiopi, che decisero di non difendere la capitale della regione facendo pensare ad un'imminente controffensiva. Da questa condizione reale e fino ad allora effettivamente registrata grazie all'azione dell'arma aeronautica in ricognizione e con incursioni di spezzonamento (in realtà inizialmente poco efficaci) si intuì l'effettiva azione di ammassamento delle truppe dei ras che impegneranno gli italiani nella loro marcia verso la capitale Addis Abeba. Sotto la guida di Graziani e Badoglio la tattica cambiò, e l'arma aeronautica ebbe un ruolo di primissimo piano anche nei bombardamenti con l'iprite (bombe C 500 T) caricate sui Caproni Ca. 101 lontano dalla linea del fronte, così da non coinvolgere le forze italiane. Molti reduci e anche giornalisti come Indro Montanelli, inviato sul fronte abissino, non ebbero mai contezza del carico dei bombardieri che decollavano dagli aeroporti eritrei e poi etiopi.

Ottobre 1935: i primi contingenti italiani in Tigray (Getty Images)



La caduta del Tigray: l'Amba Alagi e la fine dell'impero (e di un Viceré)


Ancora una volta nella storia il fantasma dell'Amba Alagi compariva come un funesto presagio. Questa volta il massiccio che domina la zona meridionale del Tigray andava difesa, non più conquistata come sei anni prima. L'Italia era in guerra da meno di un anno quando il primo a cedere fu il fronte dell'Africa Orientale Italiana sotto la soverchiante pressione delle forze britanniche del generale Cunningham, che già nell'aprile del 1941 avevano conquistato il porto di Massaua nell'Eritrea italiana, punto vitale per gli approvvigionamenti del Regio Esercito. Addis Abeba fu abbandonata all'inizio del maggio 1941. Il 6 dello stesso mese il negus Hailé Selassié entrava nella capitale riprendendo il titolo di imperatore, mentre le forze italiane accerchiate davano sempre maggiori segni di disfacimento. I comandi decisero un'ultima disperata resistenza verso Nord, guidati dal viceré Amedeo di Savoia-Aosta che era rimasto in territorio etiope al comando di circa 7.000 effettivi durante l'avanzata britannica. La decisione presa dai comandi italiani fu quella della resistenza all'interno di "ridotti", e l'Amba Alagi fu scelta proprio per la posizione strategica che rivestiva nelle comunicazioni stradali della zona. Il Duca d'Aosta fu in grado di resistere per ben un mese, dal 17 aprile al 17 maggio 1941 con Granatieri di Sardegna, Carabinieri, Arditi e truppe indigene. Le forze britanniche erano soverchianti. Nell'impossibilità di protrarre la resistenza, Amedeo di Savoia-Aosta chiese la resa e lasciò liberi gli Ascari di tornare alle proprie case (soltanto 15 di loro lo fecero). Gli italiani uscirono con l'onore delle armi e gli Inglesi schierati ai due lati, in omaggio al coraggio e alla figura del viceré e generale. Amedeo di Savoia seguì le sorti dei suoi uomini anche nella prigionia che gli fu fatale quando a causa di una forma grave di tubercolosi spirò all'ospedale militare di Nairobi il 3 marzo 1942. Quando scomparve, anche l'impero coloniale italiano era scomparso dalle mappe geografiche. L'ultimissima disperata azione di resistenza italiana si era consumata a sudovest del confine del Tigray da giugno a novembre 1941 nel ridotto di Gondar. L'ultimo ad arrendersi fu il generale Guglielmo Nasi, che raggiunse Amedeo di Savoia e i circa 60.000 prigionieri italiani. L'ultimo caduto dell'Africa Orientale italiana fu il pilota Ildebrando Malavolta, abbattuto ai comandi di uno degli ultimi due velivoli italiani in ancora in condizioni di volo, un biplano Fiat Cr.42. F abbattuto da tre caccia sudafricani i cui piloti lanciarono sugli ultimi resistenti italiani un messaggio che rendeva onore al "pilota del Fiat". Poi la bandiera Savoia fu ammainata per sempre sul Corno d'Africa.

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Edoardo Frittoli