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(Ansa)
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La grazia a Zaki, altro successo internazionale di Giorgia Meloni

Piaccia o non piaccia la vicenda dello studente italiano, cominciata anni fa, ha visto i fallimenti diplomatici di diversi governi. Oggi la svolta positiva

Alla fine, il governo Meloni è arrivato dove gli altri non sono riusciti. Forse sul solco di precedenti ambasciate, certo per la caparbietà di uomini dello Stato e famiglie che non si sono date per vinte, un pur modesto risultato è arrivato. La grazia a Patrik Zaki, che sa di «contentino» ma anche di buon compromesso per una vicenda che con gli occhi dell’Occidente è a dir poco surreale. Vince l’Egitto di Al Sisi, che si mostra magnanimo strizzando l’occhio al governo italiano, e vince chi ha sostenuto Zaki sino a questo giorno.

Ma non si può dimenticare tutto il resto. Anche quando in Italia gli striscioni Verità per Giulio Regeni e Libertà per Patrick Zaki che campeggiano da tempo sulle facciate di numerosi Municipi italiani, Università, enti pubblici e su alcune strutture sedi di associazioni sensibili ai diritti umani, iniziavano a farsi logore. Quelle stoffe gialle e scritte nere con il logo di Amnesty International, infatti, hanno iniziato a essere progressivamente rimosse. E chissà che la grazia a Zaki non sia il colpo ferale per dimenticare una delle due brutte vicende che legano il nostro Paese all’Egitto.

Da parte delle nuove amministrazioni, ma anche su richiesta di privati cittadini, iniziava a calare un disinteresse che la rimozione degli striscioni rendeva evidente; come se di quelle vicende non si volesse o non si dovesse più parlare. Era accaduto in molte città d’Italia, in ultimo a Brindisi e a Cento, provincia di Ferrara, dove addirittura il sindaco Edoardo Accorsi, in qualità di rappresentante e primo indiziato del Comune, è stato multato dalla polizia locale per illecito: affissione abusiva.

«Chissà quale strano fastidio o imbarazzo producevano a chi ha voluto fossero tolti» era il laconico commento di un anziano cittadino, che masticava amaro mentre osserva ammainare un simbolo che secondo lui rappresenta «valori universali quali umanità, verità e giustizia, libertà e pace». Di certo, la campagna promossa da Amnesty è stata efficace nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulla orribile vicenda che ha coinvolto il giovane ricercatore universitario friulano: un dottorando dell’Università di Cambridge rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 (giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir) e ritrovato morto sul ciglio di una strada dopo aver subito sevizie e percosse.

Così come ha permesso di conoscere il caso giudiziario di Patrick Zaki, fermato il 7 febbraio 2020 e rimasto in carcere 22 mesi per il procrastinarsi della legge: accusato di «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese» per via di un articolo che scrisse nel 2019 su attentati dell'Isis e due casi di presunte discriminazioni di copti (i suoi correligionari cristiani d’Egitto), era stato condannato questa settimana dal tribunale di Mansura a tre anni di detenzione complessivi. Zaki, a piede libero dal dicembre 2021, avrebbe dovuto finire di scontare un anno e due mesi in Egitto, ma il «salomonico» Al Sisi ha giocato d’anticipo e lo ha graziato, probabilmente dopo aver eterodiretto la condanna.

Ma il punto è un altro. Per quanto efficace a livello mediatico, specie per l’esito di Zaki, il messaggio della campagna era stato nei fatti annullato dalla inossidabile resistenza a qualsivoglia forma di collaborazione con gli inquirenti italiani da parte delle autorità egiziane. Per far luce sul caso Regeni, in particolare. Ma anche per influenzare il buon esito giudiziario di Zaki, per il quale si erano mossi diplomatici e politici, polizia e servizi segreti italiani; un dialogo serrato ma sinora inane nei risultati, che ha attraversato ben cinque governi della Repubblica.

La Farnesina ha monitorato decine di udienze della fase pre-processuale e processuale di Zaki, ma è stata né più e né meno spettatrice in relazione alle indagini sulla controversa morte di Regeni. Qui sono stati sì individuati e imputati (dall’Italia) quattro agenti egiziani della National Security, gli apparati di sicurezza egiziani, ma questi soggetti continuano tranquillamente la loro vita senza curarsi della giustizia italiana. Tra questi, uno dei responsabili individuati dalla magistratura egiziana, Husam Helmi, che tiene abitualmente conferenze pubbliche all’università 'Ayn Shams del Cairo.

Il che racconta sufficientemente bene come sia difficile che Giulio Regeni ottenga la sua giustizia postuma. Il motivo? L’Egitto si rifiuta di notificare loro gli atti ed ecco che, come prevede l’articolo 420 bis del nostro codice di procedura penale, il processo italiano non può andare avanti. Spiega la legge, che «si può processare un assente solo se è “finto inconsapevole” e va quindi provato che si sia sottratto volontariamente al processo a suo carico di cui è palese che abbia avuto conoscenza». Grazie a questo artificio leguleio (che al Cairo dovevano ben conoscere), il caso Regeni finirà – forse, speriamo di no - in un nulla di fatto, con i colpevoli del suo omicidio impuniti e i «collaboratori» del governo egiziano che torneranno semmai a svacanzare in quel di Roma, nel quartiere Flaminio, dove presso la Scuola Superiore della Polizia si scambiavano abitualmente informazioni con i nostri inquirenti.

Perché l’Italia si lascia vincere dall’Egitto? È un refrain che abbiamo udito e letto sulle prime pagine dei giornali ad ogni anniversario della morte di Giulio, rinfocolato dall’indignazione per lo studente egiziano Zaki che a Bologna aveva trovato una sua seconda casa. Ora la grazia diluirà questa sensazione, ma l’impunità per i responsabili della morte di Regeni resta. La realtà che sottende a tutto questo triste spettacolo politico è piuttosto intuibile: se cinque governi di cinque colorazioni politiche diverse hanno sostanzialmente rinunciato in blocco a fare vere pressioni sul governo egiziano è perché ha prevalso sempre la ragion di Stato. Ovvero l’intuizione fondamentale che da Machiavelli in poi ha costituito un orizzonte imprescindibile, persino a livello semantico, al complesso problema dei rapporti fra politica e morale. Dove il ricorso alla forza, al segreto o a strumenti eccezionali da parte del detentore del potere politico si giustificano con la necessità di conservare il comando (talvolta anche personale), di garantire l’ordine costituito in relazione alla società o la sicurezza dello Stato.

Prendiamo per primo il caso egiziano: esso è definibile, nella fattispecie più prosaica delle scienze politiche, come un regime il cui dittatore è un ex generale fattosi presidente. Abdel Fattah Al Sisi è uscito come l’uomo forte e il risolutore della crisi socio-politica che stava conducendo l’Egitto nelle braccia dell’Islam radicale, quello della Fratellanza Musulmana. Posto che gli esiti della presidenza Morsi, esponente dei Fratelli Musulani, sono stati disastrosi anzitutto a livello economico, l’esercito non ha inteso solo porre fine a una crisi economica e sociale, ma anche al pericolo di un potere alternativo allo Stato. Cosa in cui i militari, di cui Al Sisi era alto dirigente, credono moltissimo.

Sisi è un uomo paranoico, abituato ai metodi durissimi della polizia segreta e alla censura preventiva. La violenza è contemplata e in essa s’innesta appunto la ragion di Stato, che lo ha condotto finanche a eliminare un giovane ricercatore perché sospettato di parteggiare come minimo per sindacalisti e islamisti, che non sono visti di buon occhio nel Levante laicizzato. Se non addirittura di essere un agente segreto per conto di Londra (sic!).

Inoltre, l’Egitto – diviso per vocazione tra Africa e Medio Oriente – deve affrontare sfide geopolitiche fondamentali. Due su tutti: la gestione della crisi in Libia e la questione della Gerd (Grand Ethiopian Renaissance Dam) con l’Etiopia, che minano la pace e la stabilità del paese, mettendo a repentaglio la stessa presidenza. Se a questo aggiungiamo una crisi economica, oggi acuita dalla pandemia, e il crescente coinvolgimento dello Stato nei progetti infrastrutturali dell’Egitto presente e futuro – la maggior parte delle società di rilievo sono gestite direttamente dalle forze armate, che godono di canali privilegiati, favoritismi e sconti – si capisce come l’iniziativa privata stenti a decollare. Da qui il rischio non solo che il dirigismo di Stato mandi a gambe all’aria un intero Paese, ma soprattutto che la casta dei militari perda i propri privilegi. Da cui la repressione interna.

Ecco anche perché Al Sisi non si sottomette a richieste internazionali, sia pur con alleati strategici come l’Italia. Che, da par suo, ha in piedi progetti monstre con Il Cairo. A partire dalle commesse militari di Leonardo e Fincantieri, per passare al giacimento di gas off-shore Zohr: nel 2015, Eni ha effettuato una scoperta di rilevanza mondiale: entrato in produzione a fine 2017, Zohr rappresenta infatti la più grande scoperta di gas mai effettuata nel Mediterraneo. Per proseguire con scambi commerciali abituali per miliardi di euro.

Qui l’elenco è lungo. Citando l’osservatorio Economico di Palazzo Chigi si scoprono realtà interessanti che legano Il Cairo a Roma in maniera importante: Banca Intesa Sanpaolo è fra i primi investitori italiani in Egitto, dove ha acquisito nel dicembre 2006 per 1,6 miliardi di Euro, l’80% del capitale della Bank of Alexandria; Maire Tecnimont ha in costruizione ad Assuan un impianto di fertilizzanti del valore di circa 500 milioni di dollari; mentre Ansaldo Energia fornisce turbine e realizzaza per Il Cairo centrali elettriche. E poi qui operano Danieli (acciaierie); il cotonificio Albini e Filmar (produzione di filati e tessuti); Ita Airways (con un proprio Ufficio di rappresentanza, nel trasporto aereo); Mapei (con la sua controllata Vinavil Egypt, produce polimeri acetovinilici); e Saipem (presente in Egitto dagli anni CInquanta, realizza importanti progetti tra cui la costruzione e installazione di numerose piattaforme).

Pensare dunque che, in nome della vera giustizia, possa prevalere la morale sulla ragion di Stato, cioè il cuore sull’economia, è purtroppo una pia illusione. Il governo Meloni lo sa e difatti ha forse gradito il compromesso (vedremo i commenti nei prossimi giorni, e quanto è farina dei buoni uffici dei diplomatici italiani). Il che va in scia rispetto a tutti i precedenti governi le cui linee guida travalicano la caducità e la temporaneità dei nostri politici, in favore di strategie geopolitiche e geoeconomiche di lungo corso, che prescindono dalle stagioni e che riescono a digerire senza problemi la violazione dei diritti umani in ordine al principio di cui sopra.

Si potrebbe obiettare, come sant’Agostino, che «se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?». Ma forse è più calzante l’opinione di Carlo V secondo cui «la ragione di Stato non deve opporsi allo stato della ragione». Eppure, lezioni di storia non dovrebbero servirci, quando di fronte a noi, ad altre latitudini, i diritti civili vengono asfaltati per visioni imperialistiche che non dovrebbero più appartenere all’Europa. Ma quella è la Russia, e non è più un nostro partner. Per il momento, invece, l’Egitto è ancora una terra di opportunità secondo lo Stato italiano. E sembra valer bene l’oblio di certe insopportabili nefandezze che non solo il governo Al Sisi ha compiuto.

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Luciano Tirinnanzi