Eddie Kramer: "Non solo mito, Woodstock fu un delirio"
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Musica

Eddie Kramer: "Non solo mito, Woodstock fu un delirio"

Folla e artisti in preda alla follia, escrementi e musica epocale. Che il produttore americano registrò da solo, nel fango, contro tutti e tutto: il racconto di chi c'era

A 52 anni dal leggendario festival vi riproponiamo la nostra intervista al produttore americano Eddie Kramer, testimone oculare di un evento che ha fatto la storia della musica e del costume.

"Tre giorni di droga e fango: Woodstockè stato un incubo!". Basta una manciata di secondi a Eddie Kramer per smontare la retorica idealista che aleggia da sempre intorno al raduno dei raduni. Il suo è il punto di vista di uno che a Woodstock, nell'agosto del 1969, era andato per lavorare. "La mia missione era incidere su nastro tutto quello che avveniva sul palco. Gran bel lavoro in teoria, ma quando sei l'unico essere umano lucido in mezzo a 500 mila strafatti, le cose si complicano. Artisti, manager, security, staff: tutti fuori di testa. Ricordo un mixer in fiamme e un gruppo di tecnici in preda all'lsd che gli danzava intorno. 'Nessuno lo spegne?' chiedo io. 'Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole' fu la risposta".

Non era un dilettante allo sbaraglio, e nemmeno un tecnico del suono improvvisato, Kramer, ma il produttore più autorevole dell'epoca. Aveva lavorato con i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin, era il braccio destro di Jimi Hendrix. "Jimi suonò per ultimo, con cinque ore di ritardo, all'alba di lunedì. Per stare sveglio mi feci da solo due iniezioni di vitamina B procurandomi altrettanti lividi enormi sui glutei. A quel punto non riuscivo più nemmeno a sedermi. Quando Jimi suonò l'ultima nota del suo show, pensai: forse è davvero finita. Non mi riferivo solo al concerto, ma a un'era. Quella folla stravolta che vagava verso l'uscita con i piedi immersi nel fango e negli escrementi era un simbolo. Woodstock non è stato l'inizio di un bel niente, ma la porta dietro cui sono rimasti sepolti gli ideali e le utopie degli anni Sessanta".

Di quella tre giorni Kramer ha salvato, con i suoi registratori a bobine, la cosa più preziosa da salvare: la musica. "Voglio andare oltre il dato artistico, Woodstock fu un caso eccezionale di perdita collettiva di controllo. Nessun artista fece sul palco quel che era previsto. Tutti flirtarono con la pazzia improvvisando a caso, alcuni con risultati geniali, altri facendo pena" ricorda Kramer. "Ne sono certo, fu una reazione inconscia per entrare in sintonia con l'anarchia e le allucinazioni psichedeliche della folla. Quando, a partire dal secondo giorno, tutti iniziarono a girare nudi, fu un corto circuito: gli artisti con i loro jeans e i giubbotti di pelle non erano più un'avanguardia, ma borghesi antiquati, magari dotati pure di mutande. Le icone della trasgressione erano diventate obsolete. E la massa dettava la linea. Che paura".

Eroe di Woodstock, Kramer era stato avvicinato un paio d'anni prima della rassegna da un tecnico dei Beatles: "Volevano sperimentare il sound del mio studio londinese. Arrivarono alle 2 di notte per incidere All you need is love. Prima di iniziare gli uomini del loro staff piazzarono maniacalmente decine e decine di microfoni in ogni angolo della sala d'incisione. Mi sembravano folli, non l'avevo mai visto fare prima, io di solito ne usavo tre o quattro. Ma avevano maledettamente ragione: era quello il segreto mai svelato del loro sound, catturare da angolazioni diverse ogni sfumatura della musica e delle voci. Non hanno mai avuto rivali perché erano troppo avanti" sostiene Kramer, in Italia per presentare una nuova serie di minipedali per chitarra (F-Pedals, di cui esiste una serie firmata Kramer) realizzata con l'amico musicista Francesco Sondelli.

Anche se lui non ne parla spesso, Kramer è di fatto il custode unico di tutto quello che Hendrix ha inciso nella sua breve vita. Il produttore americano cura infatti da decenni le pubblicazioni del materiale inedito del più grande chitarrista di tutti i tempi. Il business del morto che canta, verrebbe da dire cinicamente. "No, no, almeno non per me. Ho ricevuto l'incarico dalla sua famiglia ed è l'unico impegno professionale che mi strazia dal punto di vista emotivo. Eravamo amici nel senso più puro del termine. Vivevamo chiusi in sala d'incisione a registrare ore e ore di musica bellissima. Se non se ne fosse andato, sarebbe diventato anche un'icona del jazz, però non ne ha avuto il tempo" racconta.

"Per contratto, questo lavoro di recupero e restauro del vecchio materiale di Jimi lo devo fare in totale solitudine e segretezza: io, il mixer e le bobine dell'epoca su cui sono incisi anche i dialoghi fra un brano e l'altro. Vivo momenti surreali, quasi da seduta spiritica, quando nel cuore della notte esce all'improvviso dagli amplificatori la voce di Jimi: 'Eddie, ho la sabbia in gola, me la porti una birra? Eddie, quanta pazienza devi avere con uno come me?'. Allora riavvolgo il nastro, alzo il volume e lo riascolto. E non riesco a trattenere le lacrime".

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Gianni Poglio