Droni su Cremlino
(Ansa)
Politica

Droni e altri misfatti sul Cremlino, il regime putiniano inizia a perdere pezzi

Mentre Mosca si prepara a ospitare la seconda parata del 9 maggio (giorno della vittoria sul nazifascismo), c’è persino chi già dubita che il presidente Putin presenzierà alla sfilata delle forze armate sulla Piazza Rossa per «ragioni di sicurezza»

«Un drone che esplode sulla cupola del Cremlino, in una notte di luna piena che splende sopra la bandiera issata sul pennone, con sullo sfondo la piazza Rossa illuminata e già decorata con i cartelloni patriottici per la parata del 9 maggio: difficile costruire una scenografia più simbolica, di un attacco al cuore del potere russo». Lo ha scritto l’analista russa Anna Zafesova, e lo pensano in molti: tutto è apparentemente troppo perfetto perché l’attacco al Cremlino possa configurarsi quale attentato ordito contro Vladimir Putin, come la propaganda russa ha subito bollato l’episodio.

Certo, negli ultimi tempi gli attacchi ucraini sul suolo russo si sono moltiplicati: Sebastopoli, Feodosia, Krasnodar, Bryansk. Ma in tutti quei casi si era trattato di colpire obiettivi militari concreti: aeroporti, eliporti, depositi carburante e treni merci che rifornivano le prime linee di Mosca. Il drone civile che ha colpito la cupola del Cremlino, invece, è ben altra cosa. Un simbolo, innanzitutto, e non certo una minaccia fisica per l’inquilino più importante che abita oggi quel palazzo. Qualcosa di ben diverso anche dal camion bomba che ha distrutto parzialmente il ponte che collega la Russia alla Crimea: in quel caso, infatti, sono stati usati quasi 23 mila kg di esplosivo.

Mentre il drone civile che si è abbattuto sulla sede del governo russo aveva una carica esplosiva risibile e la sua detonazione (o abbattimento) ha provocato soltanto un piccolo incendio, senza neanche lambire i due uomini che – caso assai curioso – in quel momento si trovavano proprio sulle scale di servizio della cupola. A far cosa non si sa.

Inoltre, non sono forse Mosca e il Cremlino stesso l’area più sicura e protetta dell’intera Russia? «È vero che la difesa russa non è impenetrabile, come dimostrato già nel 1987 dall’atterraggio in piazza Rossa del pilota dilettante tedesco Mathias Rust, un altro volo clamoroso il cui scopo era produrre un’immagine di vulnerabilità del potere russo» scrive ancora Zafesova. Di solito, però, il Cremlino tende a minimizzare, quando non direttamente a negare le proprie défaillance e falle nella sicurezza. Invece, nel caso dei droni sul Cremlino sono stati gli stessi media ufficiali russi a diffondere il video dell’attacco. Perché?

Tutto questo apre a spiegazioni quantomeno controverse, quando non dichiaratamente volte ad accusare artatamente l’Ucraina. O meglio ancora gli Stati Uniti, come ha subito puntualizzato il portavoce del presidente russo, Dimitrij Peskov. Insomma, mentre gli ambienti governativi moscoviti cavalcano la teoria dell’attentato ai danni del loro presidente, le autorità ucraine per bocca dello stesso presidente Volodymyr Zelensky respingono risolutamente al mittente queste accuse.

Dunque, se dovessimo escludere gli ucraini dall’equazione, delle due l’una: possono essere stati o uomini dell’intelligence russa intenzionati a creare una (maldestra) disinformazione nell’ambito della strategia della dezinformatsiya cui già i sovietici ci avevano abituato; oppure l’attentato è partito dall’interno, e cioè da quegli ambienti della dissidenza russa che, col passare del tempo e con l’aggravarsi della guerra, si sono fatti sempre più espliciti e ormai puntano chiaramente a una sostituzione in corsa di Vladimir Putin.

Di certo, per il numero uno del Cremlino non sono tempi facili: non soltanto la «sua» guerra non sta andando come sperava; ma, al netto della controffensiva ucraina, adesso il problema per lui è anche personale. Costretto a saltare l’appuntamento con i Brics – il raggruppamento dei cinque Paesi emergenti in più rapida crescita economica – previsto in Sudafrica a fine agosto, l’uomo un tempo più influente al mondo è ora trattato alla stregua di un ospite scomodo, quando non di un most wanted braccato dalle polizie internazionali. Una parabola triste per chi aveva fatto della propria immagine di vincente un simbolo attraverso cui «vendere» la Russia ad alleati e non.

Così, mentre Mosca si prepara a ospitare la seconda parata del 9 maggio (giorno della vittoria sul nazifascismo), c’è persino chi già dubita che il presidente Putin presenzierà alla sfilata delle forze armate sulla Piazza Rossa per «ragioni di sicurezza». Il dramma di Putin è pertanto per estensione il dramma di un’intera nazione, stretta tra la paura per i rivolgimenti negativi economici dovuti al conflitto; la paranoia per attentati terroristici sul suolo russo (sono già troppi gli omicidi politici e le bombe che hanno ucciso figure di spicco del regime e altrettante bombe che hanno colpito le infrastrutture nel territorio nazionale); e l’incognita di un dopo Putin che nessuno riesce ancora a pronunciare o anche soltanto a immaginare.

Si aggiunga il ruolo ambiguo del grande alleato asiatico: se è pur vero che una Russia sconfitta non è certo nell’interesse cinese (essendo Mosca il partner più importante di Pechino in antitesi all’ordine internazionale guidato da Washington), i distinguo del presidente-segretario Xi Jinping si alternano sempre più spesso alle iniziali manifestazioni di solidarietà verso la guerra scatenata da Putin.

Questo rivela alcuni aspetti inediti soltanto pochi anni fa: cioè che Pechino non ha intenzione di rinunciare all’Europa e all’Occidente, ossia ai suoi migliori «clienti»; e che un’eventuale dipartita di Putin in fondo non sarebbe un dramma, dal momento che è stato proprio il presidente russo con le sue azioni belliche ad aver involontariamente ostacolato il faraonico progetto di Xi di connettersi all’Europa con la nuova Via della Seta (da cui anche Roma si sta smarcando). Un nuovo leader al Cremlino non potrebbe che assecondare i voleri di Pechino, in ragione della sudditanza implicita creatasi in questo frangente con la nuova leadership orfana del suo carismatico capo.

La Cina, in questo scenario, si potrà comunque consolare con le commesse che le deriveranno dall’inevitabile ricostruzione post bellica dell’Ucraina, e con la tessitura di nuovi rapporti nel mondo che verrà. Un mondo dove, tuttavia, sembra esserci sempre meno spazio per i sogni imperialistici di un autocrate, a fronte dell’urgenza di un reset delle relazioni diplomatiche internazionali che disegni la mappa dei nuovi equilibri post bellici.

Come ha osservato lo storico della Guerra Fredda Michael Kimmage, «una rapida vittoria russa in Ucraina avrebbe potuto fare al caso della Cina. Ma una guerra prolungata si sta trasformando in un ostacolo strategico per Pechino. Anziché indebolire il sistema di alleanze guidato dagli Stati Uniti, la guerra in Ucraina ha riavvicinato le democrazie degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Asia. La Cina ha passato decenni a costruire la propria influenza in Europa. Ma la sua autoproclamata partnership “senza limiti” con la Russia ha convinto molti europei che anche Pechino è ora una minaccia».

Forse Xi Jinping ha ormai compreso che è vero quanto affermava il suo maestro Mao Zedong, secondo cui il potere politico nasce sì «dalla canna del fucile», ma nondimeno «è molto difficile che il popolo si renda conto dell’importanza di impugnare il fucile». Così è oggi per i russi, sempre più scontenti di un Vladimir Putin che non sembra più in grado di garantire al suo popolo quella crescita economica e quella sicurezza fisica sopra le quali Putin stesso ha costruito la sua fama e la sua fortuna. Com’ebbe a dire il ministro degli esteri cecoslovacco Jan Masaryk, prima di essere assassinato dai comunisti a Praga nel 1948, «i dittatori sono governanti che hanno sempre un bell’aspetto fino agli ultimi dieci minuti». E siccome il tempo passa per tutti, i droni esplosi sopra il Cremlino suonano un po’ come la campana di Hemingway: segnano l’ora in cui il regime putiniano inizia a perdere pezzi.

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Luciano Tirinnanzi