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(Ansa)
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I guai di Macron nel Sahel

Il ritiro francese dal Mali rischia di indebolire politicamente l'inquilino dell'Eliseo in patria e nell'Unione europea

Alla fine Parigi ha deciso di andarsene. Giovedì scorso, la Francia e i suoi alleati europei hanno annunciato il ritiro dei propri contingenti dal Mali. Tra le motivazioni dell’addio si fa in particolare riferimento a “molteplici ostruzioni” da parte del governo locale. “Le condizioni politiche, operative e legali non sono più soddisfatte per continuare efficacemente il loro attuale impegno militare nella lotta al terrorismo in Mali”, si legge in una nota. Bamako, dal canto suo, ha proposto una cooperazione bilaterale con i partner europei. “Tutti i partner che desiderano lavorare con il Mali per mettere in sicurezza il Paese... sono i benvenuti”, ha dichiarato il ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop. Adesso, i contingenti in partenza dal Mali saranno schierati in Niger, il cui presidente Mohamed Bazoum ha dichiarato: “Il nostro obiettivo è che il nostro confine con il Mali sia sicuro”. “Questa zona”, ha aggiunto, “sarà ancora più infestata e i gruppi terroristici si rafforzeranno. Sappiamo che sono destinati ad estendere la loro influenza”. Ricordiamo che, secondo Al Jazeera, sarebbero circa 2.400 i soldati francesi presenti in Mali assieme a 900 militari della task force europea Takuba.

Questo ritiro non è d’altronde esattamente inatteso. Negli ultimi tempi, era infatti significativamente salita la tensione nel Paese africano. Soprattutto a partire dal golpe verificatosi lo scorso maggio, i rapporti tra Mali e Francia si erano notevolmente deteriorati: avevano avuto infatti luogo proteste decisamente antifrancesi, mentre Bamako aveva espulso l’ambasciatore di Parigi e denunciato l’incursione di un velivolo da guerra francese nel proprio spazio aereo, invocando inoltre una revisione del trattato bilaterale di difesa siglato con Parigi nel 2013. In tutto questo, il Paese africano ha visto progressivamente crescere al suo interno un deciso sentimento filorusso. Soldati di Mosca sono recentemente giunti in Mali per addestrarne le forze militari, mentre alla fine del 2021 vari Paesi occidentali avevano accusato il Cremlino di aver schierato nell’area mercenari del Wagner Group, provenienti dalla Libia orientale. Non solo: le suddette proteste antifrancesi maliane si sono anche contraddistinte per accenti significativamente amichevoli nei confronti di Mosca. Tra l’altro, Bamako rischia di rivelarsi per Parigi soltanto l’epicentro di problemi più diffusi nel Sahel. Non dimentichiamo infatti il recente colpo di Stato verificatosi nel Burkina Faso: Paese su cui pare si stia – guarda caso – rafforzando l’influenza politica russa.

Nonostante abbia cercato in tutti i modi di dire che il ritiro dal Mali non debba essere considerato un fallimento, la situazione complessiva non è troppo positiva per Emmanuel Macron. Questo addio può infatti danneggiarlo sotto due punti di vista complementari. Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che l’inquilino dell’Eliseo è in campagna elettorale per giocarsi la riconferma alle prossime presidenziali francesi, che si terranno in aprile: è anche in tal senso che, negli ultimi mesi, Macron ha cercato di rilanciare la propria immagine sul versante internazionale (si pensi soltanto al suo iperattivismo diplomatico in riferimento alla crisi ucraina). Va quindi da sé che un simile ritiro rischi adesso di danneggiarlo in termini di popolarità elettorale. In secondo luogo, le crescenti difficoltà che sta incontrando Takuba (task force europea, ma principalmente promossa proprio dalla Francia) mettono progressivamente a repentaglio la credibilità dei progetti macroniani di un esercito europeo (progetti che, tra l’altro, hanno da tempo suscitato più di una perplessità tra le alte sfere di Washington). Ora, questo si configura come un nodo rilevante per il presidente francese, il quale punta da sempre a rafforzare il ruolo di Parigi in seno all’Unione europea, facendo principalmente leva sul settore della difesa. Il Mali, per Macron, rischia quindi di rivelarsi uno scoglio insormontabile in termini di credibilità internazionale.

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Stefano Graziosi