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(Ansa)
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L'ipocrisia pacifista sconfitta dalla voglia di guerra di Putin

Si scopre che a marzo un emissario del Cremlino trovò un accordo vantaggioso per Mosca con Zelensky, ma Putin, allora potente sul campo di battaglia, lo stracciò. La prova che trattare è impossibile con lo Zar, a meno di una sua sconfitta in guerra

Chi vuole davvero la pace in Ucraina? Non la Russia, ovviamente. Ma nemmeno Kiev. Galvanizzata dai successi della controffensiva nella regione di Kharkiv e dall’aver tenuto la capitale nell’ora più buia respingendo l’assalto di febbraio (il che ha del miracoloso), la presidenza ucraina sente di avere agganciato il momentum. In finanza, la cosiddetta «strategia momentum» è quella che porta ad assecondare il trend temporaneo e a continuare a investire, nella convinzione che l’inerzia della performance sostanzialmente porterà profitti maggiori, almeno nel breve periodo.

Zelensky, che non è certo un economista, ha però bene compreso che il rullo compressore della macchina bellica di Mosca si è ormai inceppato, che il vento spira a suo favore e che questa tendenza - sia pur temporanea - lo porterà nell’immediato ad ancora più apprezzabili risultati: come riconquistare altre importanti porzioni di territorio a sud (vedi la strategica Kherson).

È un fatto che la campagna autunnale delle forze armate di Kiev stia guadagnando slancio grazie ai prodigiosi armamenti americani, che hanno piegato le colonne di tank della «armata Z» prima e le linee di difesa russe poi. Ecco perché il presidente ucraino non ha intenzione di cedere proprio adesso, nel momento in cui l’orso russo è ferito e stordito e il clima nella grande pianura ucraina è ancora dolce. Quando cadrà la neve e arriveranno le piogge, invece, sarà tutto più complicato. E anche restare in trincea potrebbe rivelarsi una trappola mortale. Che poi è quanto si era già osservato negli otto anni di scontri nel Donbass dal 2014 a oggi.

Questo, a grandi linee, è il ragionamento della dirigenza ucraina. Ma neanche al Cremlino intendono cedere. Negoziare adesso «sarebbe umiliante», dicono i siloviki, «gli uomini della forza», ovvero quell’élite al governo scelta personalmente da Vladimir Putin per occupare posizioni di rango nei ministeri e nei centri di potere. «Ma sarebbe anche saggio» ammettono a mezza bocca alcuni di loro.

Il mediatore Lavrov

Tra questi, in primis c’è Sergei Lavrov, l’avveduto ministro degli esteri di Mosca che segretamente tesse il filo della pace nei corridoi del Palazzo di Vetro, alle Nazioni Unite di New York. Dove peraltro già si specula su di lui come un possibile uomo della transizione, nel caso (remoto) di una destituzione di Putin per mano di congiurati interni.

«La determinazione paga», è invece il ragionamento del presidente russo. E, picchia oggi logora domani, Mosca è destinata ad arrivare quantomeno all’annessione del Donbass. «No, vinceremo noi», ribatte Zelensky, sicuro di sé al punto da arrischiarsi in un viaggio a Izyum, cuore dei combattimenti a Est e ultimo bastione riconquistato ai russi, dove peraltro il presidente ha avuto un incidente stradale (un presagio o pura casualità?).

«Combatteremo fino alla fine» aveva scandito il leader ucraino in occasione della Festa dell’Indipendenza dell’Ucraina, lo scorso 24 agosto. «Ogni giorno c'è un nuovo motivo per non arrendersi. Qual è per noi la fine della guerra? Si diceva: la pace. Ora diciamo: la vittoria […] alzeremo le mani solo una volta, quando celebreremo la nostra vittoria». Non una traccia di dubbio, insomma, nei suoi pensieri.

Anzi, c’è soprattutto ambizione: «Il Donbass è Ucraina. E vi faremo ritorno, qualunque sia il percorso. La Crimea è Ucraina. E vi faremo ritorno. Qualunque sia il percorso. Non volete che i vostri soldati muoiano? Liberate le nostre terre. Non volete che le vostri madri piangano? Liberate le nostre terre. Queste sono le nostre condizioni semplici e chiare» è il suo leit motiv da quando Washington è tornata a riempire gli arsenali delle forze armate ucraine.

Il negoziato fallito all’ultimo

Eppure, nel dietro le quinte si è lavorato alla pace fino al giorno dopo la maldestra invasione. Quando cioè un negoziato condotto ai massimi livelli dal fidato consigliere di Putin Dmitry Kozak – cui il Cremlino aveva dato «carta bianca» – aveva portato le parti a convergere su «l’accordo del secolo»: Kiev non sarebbe mai entrata nella Nato, e Mosca avrebbe atteso pazientemente i referendum per l’annessione di una porzione risibile dei territori russofoni, senza perseverare nel piano di occupazione militare dell’Ucraina.

Dmitry Kozak aveva strappato questa concessione dalla dirigenza ucraina (riunita in una località segreta) ed era quindi rientrato a Mosca, convinto di avere in pugno la soluzione e magari anche uno yacht ad aspettarlo a Montecarlo come premio. Invece, «una volta trovato l’accordo, gli hanno detto di cancellare. Tutto è stato cancellato. Putin ha semplicemente cambiato il piano», ha rivelato in proposito una fonte vicina alla leadership russa sentita dalla Reuters. E già qualcuno maligna che la gola profonda sia lo stesso Lavrov.

Da quel momento, qualcosa è certo cambiato nella mente di Vladimir Putin. La brama di potere e l’arroganza del più forte hanno preso il sopravvento su di lui. Così, a inizio marzo, ha fatto arrestare Sergei Beseda e il suo vice Anatoly Bolukh, che guidavano il dipartimento dell’Fsb per l’intelligence estera, e si erano occupati di raccogliere le informazioni per preparare l’invasione. Quindi, è toccato al vice comandante della Rosgvardia, la Guardia nazionale in Russia, il generale Roman Gavrilov.

E ha silurato persino il suo fidatissimo Vladislav Surkov: l’ideologo del putinismo per più di un decennio e suo ascoltatissimo suggeritore, nonché architetto della stabilità e della centralizzazione del suo potere personale sin dai tempi di Boris Eltsin. Anche lui oggi è sparito nel cono d’ombra e tuttora non si sa se sia vivo o morto, se sia stato arrestato o a piede libero. Mentre Dmitry Kozak resta per il momento al suo posto, ma non si occupa più di Ucraina.

Fino alla vittoria

Largo, invece, agli sproloqui guerrafondai di un sempre più appannato ex presidente Dmitri Medvedev. E largo alle intemerate di Daria Dugina, figlia di quell’Aleksander Dugin teorico della supremazia russa poi saltata in aria in circostanze misteriose, lo scorso 20 agosto. «È morta per il popolo russo. Per la nostra nazione, per l’ortodossia, per l’impero» ha tuonato il padre-filosofo nell’orazione funebre. «La vendetta non ci basta, ora vogliamo la vittoria» ha poi chiarito.

E sembra aver interpretato alla perfezione il pensiero del suo presidente. Anche perché è ormai chiaro che chi contraddice Putin e non asseconda i suoi piani d’invasione, cade in disgrazia. E a volte cade anche dalla finestra. Come accaduto al presidente della Lukoil, Ravil Maganov, e ad altri top manager e oligarchi negli ultimi sei mesi. Suicidi e morti premature che rendono sufficientemente bene l’idea di come l’aristocrazia russa viva la guerra scatenata dal loro tiranno, che sta minando anche i fondamentali dell’economia nazionale.

In conclusione, se è inverosimile che Mosca e Kiev negozino presto qualsiasi trattato di pace, considerato l’odio reciproco e la sfiducia tra le due leadership (come ha certificato anche il Segretario Onu Guterres dopo la telefonata di ieri al presidente Putin: «Siamo lontani dalla pace»), è invece possibile che gli Stati Uniti tenteranno nei prossimi mesi di riannodare una nuova trattativa segreta fra i più illuminati a Mosca e Kiev, che quantomeno congeli il conflitto.

Anche perché, ripetono a Washington, va bene prevalere sulla Russia, ma umiliare una potenza nucleare è pericoloso per tutti. Valgano come chiosa le parole di François René de Chateaubriand: «Quando, nel silenzio dell’abiezione, si sentono risuonare solo più la catena dello schiavo e la voce del delatore. Quando tutto trema di fronte al tiranno ed è altrettanto pericoloso incontrare il suo favore che meritare la sua disgrazia, si presenta lo storico col peso della vendetta dei popoli. Nerone prospera invano: nell’impero è già nato Tacito».

E chissà che una nuova e più avveduta dirigenza non si affacci con l’anno che verrà, portando un ramo d’ulivo nelle terre indomite dell’ex Unione Sovietica.

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Luciano Tirinnanzi