Qin Gang
(Ansa)
Dal Mondo

Niente di nuovo dalla Cina, nemmeno la scomparsa del Ministro degli Esteri

Non è certo la prima volta che Pechino decide in maniera misteriosa le sorti di uomini di primo piano della sua politica

Cinque settimane fa, il mondo assisteva all’incontro tra il ministro degli Esteri cinese Qin Gang e il Segretario di Stato americano Antony Blinken a Pechino, in occasione d’importanti colloqui tra le due superpotenze. Poi più nulla. Non si trova più neanche un solo riferimento di quell’evento sul sito web del Ministero degli Esteri cinese. Così come è sparito il curriculum di Qi. Ma soprattutto, non vi è più traccia delle sue attività in qualità di capo degli Esteri, improvvisamente sostituito dal suo predecessore Wang Yi senza spiegazioni.

Di più, non vi è proprio alcuna traccia fisica dell’ex ministro, dopo appena sei mesi alla guida del dicastero forse più importante della Cina. Un record e un colpo di scena avvolti dal mistero, perché il luogo in cui si trova Qin - ma soprattutto il motivo della sua rimozione e il suo destino in qualità di membro del Partito Comunista Cinese - rimangono sconosciuti ai più. Nessuno fuori dalla città proibita sembra avere più notizie di lui dallo scorso giugno, proprio appena dopo aver incontrato Blinken.

Persino quando Josep Borrel, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, ha messo in calendario un incontro con il suo omologo cinese nelle ultime settimane, si è sentito rispondere che non era possibile programmare alcun appuntamento perché Qin «ha problemi di salute».

Se è vero che in passato anche altri funzionari cinesi di rilievo sono scomparsi dalla vista pubblica per mesi (per poi ricomparire, per lo più annunciando di essere stati sottoposti a indagini disciplinari segrete), stridono il modo e il tempismo con cui il ministro degli Esteri e uno degli uomini più vicini a Xi Jinping sia entrato nel cono d’ombra del regime.

Qin Gang, già ambasciatore a Washington, era molto potente e influente, al punto da essere stato portato da Xi a «corte» dopo la sua investitura per il terzo e più delicato dei mandati. In un momento, cioè, in cui la storia della Cina e le sue relazioni internazionali si intrecciano sempre più: il confronto muscolare nel Pacifico con Usa e Taiwan, l’annebbiamento dell’alleato russo, il rallentamento dell’economia nazionale, per nominare le principali sfide e dossier.

Pensare che, per averlo vicino a sé, il segretario-presidente lo aveva tolto dalla guida della diplomazia in America, ossia il più prestigioso degli uffici in territorio straniero che un diplomatico cinese possa immaginare. Ma ora Xi lo ha cancellato con un colpo di spugna, come se il suo prezioso consigliere non fosse neanche mai esistito. Il motivo non può che essere una punizione. Forse per essere uscito dalla linea politica del leader? Forse perché Qin Gang ha osato troppo? Ha contestato Xi Jinping? Si è mosso con eccessiva indipendenza? Si è macchiato di tradimento?

Dopo essere diventato ambasciatore a Washington, il suo inglese fluente e la leadership naturale hanno incantato i giornalisti occidentali. Che, come molti politici, facevano a gara per conversare con lui. Qin risultava unanimemente affabile e simpatico anche per via delle sue digressioni sportive (su Twitter lo si può vedere negli Stati Uniti mentre tira a canestro durante le partite dell’Nba, e tutti nel Regno Unito sanno che tifa con passione l’Arsenal); ma tutto ciò deve aver dato fastidio a qualcuno. L’invidia, si sa, è pericolosa: e alcuni funzionari minori del Ministero degli Esteri potrebbero avergli giocato un brutto scherzo, accusandolo di filo-americanismo per esempio.

In ordine a questa ipotesi, è coerente la speculazione seguita alla sua misteriosa scomparsa: è infatti emerso un gossip che lo vuole rimosso perché invischiato in una relazione extraconiugale con una reporter cinese della Phoenix Tv (con base a Hong Kong, e residenza negli Usa). Girerebbe anche una foto che li ritrae mano nella mano. Ora, le corna in Cina sono considerate una cosa seria dal Partito comunista, almeno in apparenza e di certo gettano sufficiente discredito sui funzionari pubblici di ogni livello, al punto che rimuoverli appare lecito. Tuttavia, questa «operazione gossip» per screditarlo pubblicamente, vista da migliaia di chilometri di distanza, appare più che altro un goffo tentativo per giustificarne il ben servito.

Il killeraggio politico, in ogni caso, è compiuto. Per alcuni nel Partito, probabilmente Qin non era abbastanza aggressivo, forse troppo occidentalizzato, e sgradito perché il favorito del presidente. Come ben disse Joerg Wuttke, presidente della Camera di Commercio dell’Unione Europea Commercio in Cina, a proposito di un altro favorito di Xi: «È intelligente ed è un buon operatore, ma ha sicuramente ottenuto il lavoro grazie alla sua lealtà nei confronti di Xi. Quando il presidente gli chiede di saltare, lui risponde “quanto in alto?”». Che Qin avesse smesso di farlo?

Tutti questi aspetti, compresi i problemi di salute, sono ovviamente plausibili ma al tempo stesso anche poco attendibili. Di certo, dimostrano l’impenetrabilità del sistema politico cinese e il fatto che di trame politiche ve ne siano anche in Oriente, nonostante la nostra idea del Pcc come di un monolite.

Forse, visto il suo ritorno al dicastero, dietro l’allontanamento sbrigativo di Qin c’è proprio la mano di Wang Yi, che ha ricoperto la carica di capo degli Esteri per circa un decennio prima di essere promosso alla fine dello scorso anno a capo della Commissione per gli affari esteri del Partito comunista cinese; dunque, gerarchicamente più in alto del ministro degli Esteri.

Secondo Neil Thomas dell’Asia Society Policy Institute, un think tank statunitense, «Qin mantiene la sua posizione come consigliere di Stato. Quindi non sono sicuro al 100% che si tratti di un’epurazione». Può darsi. Come d’altra parte è vero anche che Qin Gang è stato tirato su unicamente da Xi Jinping. E quindi, a rigor di logica, «qualsiasi problema con lui si rifletterà negativamente anche su Xi, implicando che Xi non ha scelto la persona giusta per quel lavoro», come ha invece analizzato Deng Yuwen, ex direttore di un giornale del Partito comunista cinese che ora vive negli Stati Uniti.

Concorda con questa lettura anche Bonnie Glaser, direttore generale del programma Indo-Pacifico del German Marshall Fund: «Qin è il suo protetto, e quindi questo si rifletterà necessariamente in modo negativo su Xi. Tuttavia, ciò non significa che questo episodio rappresenterà una sfida al suo potere».

Piuttosto, è la proverbiale mancanza di trasparenza della burocrazia cinese a rafforzare la percezione all’estero che il sistema politico di Cina così come il Partito siano interlocutori inaffidabili, e il caso di Qin è solo l’ultimo degli esempi. Migliore senz’altro dell’allontanamento plateale dell’ex presidente Hu Jintao, scortato fuori dal Congresso del Partito Comunista in malo modo durante la rielezione di Xi Jinping.

Chissà se il centenario Henry Kissinger, che si è appena recato in Cina ed è stato ricevuto con tutti gli onori da Xi Jinping, ne sa qualcosa. Di certo, Qin stava preparando la visita negli Stati Uniti a novembre di Xi Jinping per un delicatissimo vertice economico con il presidente Usa. Che risieda lì il motivo del suo allontanamento? Di certo, adesso questo compito toccherà a Wang. Il quale era ormai pronto alla pensione: averlo riportato agli Esteri ci dice implicitamente che altri candidati a sostituire Qin non se ne scorgono, e soprattutto che il leader cinese non si fida di nessun altro. E ci dice anche che la paranoia di Xi potrebbe presto giocare altri brutti scherzi alla dirigenza cinese. De resto, si sa: chi si avvicina troppo al Sole, finisce col bruciare…

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Luciano Tirinnanzi