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(Ansa)
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I dubbi di Mosca e Washington mentre il ponte in Crimea brucia

L'azione degli 007 di Kiev sorprende la diplomazia Usa che sta lavorando ad un accordo mentre Putin è in difficoltà sia al Cremlino che sul campo di battaglia

Vladimir Putin sa che non può ritirarsi, perché se lo facesse perderebbe ogni autorità. Non può negoziare in queste condizioni, perché corrisponderebbe alla sua fine politica. Ma non può neanche lanciare un’atomica, perché un simile atto comprometterebbe irrimediabilmente le sorti dell’intera Russia e il suo status di potenza di primo rango nel consesso internazionale.

Joe Biden, parimenti, sa che non può consentire all’Ucraina di andare oltre il limite stabilito, perché un’eccessiva provocazione rischierebbe di innescare il casus belli. Ma sa anche che deve continuare a sostenere Kiev fino alla vittoria, perché l’Ucraina è un asset strategico nella dottrina geopolitica atlantista. Ed è consapevole di dover placare le ansie crescenti in casa propria, visto che le elezioni di midterm sono alle porte e lui rende conto anzitutto al popolo americano, e deve spiegargli perché ha investito decine di miliardi di dollari dei contribuenti in Est Europa.

Questi i grandi dilemmi dei due leader mondiali che si contendono il dominio sull’Europa e nondimeno rischiano di trascinarci tutti quanti in quello che lo stesso Biden ha definito un «Armageddon nucleare». Uscita particolarmente infelice da parte del presidente degli Stati Uniti, che difatti è stato duramente criticato dalle colonne del Wall Street Journal (dunque, non dagli schieratissimi Post e Times).

«Non è certo rassicurante [il commento di Biden, ndr] dal momento che Vladimir Putin ha minacciato di usare armi nucleari tattiche, e non è chiaro se il leader russo creda alla possibilità del deterrente nucleare degli Stati Uniti. Le promesse statunitensi di “conseguenze” non gli hanno impedito di commettere l'errore catastrofico di invadere l’Ucraina», afferma il quotidiano economico. Che bacchetta il leader occidentale ancor più duramente, ammonendo: «Se davvero teme un’escalation nucleare, Biden deve più di una spiegazione al popolo americano, invece di chiacchiere da giorno del giudizio da cocktail party» perché «i suoi commenti hanno spaventato inutilmente gli americani e hanno forse minato la deterrenza». Quasi a dire che l’uso dell’atomica potrebbe davvero essere una via d’uscita per il capo della Russia, se ritenesse che l’America la teme.

Perciò, che succede adesso? Dopo la (apparentemente) inarrestabile controffensiva ucraina a Est e a Sud, dopo l’attentato al gasdotto Nord Stream, dopo distruzione del ponte che univa la Crimea alla Russia, e mentre la battaglia per il controllo della centrale nucleare di Zaporizhia infuria, l’escalation può legittimamente dirsi completa. E il fatto che il livello di allarme dei dispositivi Nato sia ai massimi storici rende sufficientemente bene l’idea.

In tutto ciò, Kiev tira dritto e non manca di alzare ulteriormente i toni, irridendo Mosca: «L'incrociatore Moskva e il ponte di Kerch. Due noti simboli del potere russo nella Crimea sono colati a picco. Quale sarà il prossimo?», ha twittato oggi il ministero della Difesa di Kiev. Se non fosse causa del suo mal, il Cremlino potrebbe chiamare in causa Cicerone: «Fino a quando dunque Catilina, abuserai della nostra pazienza?».

Ma non c’è più tempo per la filosofia. Tutti sanno che le truppe di Zelensky intendono andare avanti fino alla fine, almeno sino a che gli alleati glielo consentiranno. Del resto, tirare giù il ponte di Kerch rientra pienamente nella logica di guerra e l’infrastruttura - completata solo nel 2019 - era tra gli obiettivi dichiarati di Kiev, visto che attraverso di esso Mosca rifornisce la Crimea e invia truppe per sostenere la linea di Kherson. Ora non può più farlo, e gli ucraini sperano quindi di poter prendere la città finita in mano ai russi, per poi riconquistare l’intera penisola sul Mar Nero.

Che fare, dunque? Il Ministero della Difesa russo sembra in bambola, buono solo a rimuovere gli uomini al vertice per sostituirli con grigi funzionari di Stato: dopo le ultime débâcle, ad esempio, ha nominato il generale Sergei Surovikin nuovo comandante per le operazioni in Ucraina. Il paradosso è che Surovikin, che ultimamente comandava le forze aeree russe, era anche responsabile delle truppe russe nell'Ucraina meridionale. Dove non si sono visti né i caccia in azione né iniziative che abbiano portato a una vittoria chiara.

Al punto che i militari sono stati surclassati per audacia e attivismo dai «falchi» Kadyrov e Prigozhin, due paramilitari che predicano la guerra a oltranza e che non devono rendere conto delle proprie azioni, perché indipendenti dall’ufficialità e dai comandi del Cremlino. Sono loro oggi i più ascoltati da Vladimir Putin, che in questo clima di sconfitte e inerzia dei suoi soldati inizia a temere una sorta di «ammutinamento» degli ufficiali. Un boicottaggio dei fanti che spiegherebbe in parte perché l’aviazione russa non coglie risultati da mesi, e come mai la potente marina russa si è lasciata affondare oltre una decina di navigli.

Forse Putin vive la sindrome di Hitler nel bunker, convinto che la 12esima armata di Wenck giungerà a risollevare la situazione e riuscirà a salvare Berlino da un destino scontato. O forse queste sono solo speculazioni giornalistiche. Fatto sta che il leader russo non appare più in grado di gestire la situazione al pari delle sue forze armate, né i suoi servizi segreti e la rete diplomatica si sono dimostrati all’altezza del compito, nel momento decisivo per il futuro della Federazione. E per questo, paradossalmente, la finestra temporale per il presidente Putin per negoziare la pace prima che sia troppo tardi, magari con l’aiuto esterno del turco Erdogan, è proprio adesso.

Un fatto che andrebbe incontro anche alle attese di Washington, che ha già conseguito sufficienti risultati per poter frenare la pervicacia delle forze ucraine, galvanizzate dai successi sul campo e convinte di poter ricucire l’intero territorio martorizzato. E che consentirebbe a Biden e ai democratici di portare in dote agli americani un accordo di pace prima che il prossimo 8 novembre si rinnovino i seggi della Camera e parte del Senato.

Eppure, a Mosca tira un’altra aria: proprio la nomina del generale Surovikin a comandante supremo delle forze impegnate in Ucraina – ovvero colui che lanciò i blindati contro la folla nel tentato golpe dell’agosto 1991 a Mosca – sembra un fantasma che ritorna dal passato, memento dell’ora più buia della Russia che fu. Quando un’epoca si chiuse per sempre e un nuovo capitolo stava per iniziare. E, come vuole Giambattista Vico, la storia ritorna. La pace può essere adesso, a un prezzo molto alto. Oppure domani, a un costo infinitamente superiore.

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Luciano Tirinnanzi