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(Mark Seliger)
Musica

Rolling Stones: Hackney Diamonds è il loro miglior album degli ultimi quarant'anni

Il ventiquattresimo e (forse) ultimo disco di Mick Jagger e Keith Richards, grazie al tocco del produttore Andrew Wyatt, è un disco fresco e ispirato, il perfetto finale di una storia irripetibile

Quando i Rolling Stones hanno pubblicato nel 2016 il riuscito Blue & Lonesome, in molti hanno pensato che uno dei più grandi gruppi rock della storia, capitanato dagli immarcescibili "glimmer twins" Mick Jagger e Keith Richards, avrebbe terminato la sua gloriosa carriera discografica nello stesso modo in cui l'aveva iniziata: con un album di cover blues. E invece gli Stones ci hanno stupito ancora una volta con un album di brani inediti della freschezza e della qualità di Hackney Diamonds, 24esimo album in studio pubblicato oggi, diciotto anni dopo il meno ispirato A bigger bang.

Nel mercato volubile e schizofrenico degli ultimi anni, con lo streaming che ha fame costantemente di nuove uscite, diciotto anni di tempo sono un’eternità, ma l’attesa è stata ripagata con un disco che non ha nulla di nostalgico o di passatista, grazie anche al sapiente tocco del produttore Andrew Wyatt che, dopo aver lavorato con le popstar Justin Bieber, Ed Sheeran, Camila Cabello, Dua Lipa e Sam Smith, ha dato nuova linfa a campioni del rock del calibro di Ozzy Osbourne, Iggy Pop, Elton John e Pearl Jam. Watt sa che il pubblico vuole che i Rolling Stones suonino come i Rolling Stones, ma, al tempo stesso, riesce a conferire una leggera lucentezza moderna nella produzione che impedisce che Hackney Diamonds sembri una riproposizione del passato degli Stones.

Registrato in diversi studi sparsi per il mondo, da Los Angeles a New York, da Londra a Nassau, Hackney Diamonds prende il titolo dal gergo britannico, che indica i frammenti di vetro lasciati da un trasgressore dopo aver distrutto un parabrezza o una finestra. Nell’album i membri principali Mick Jagger (80 anni), Keith Richards (79) e Ronnie Wood (76) si uniscono ai più giovani sessantenni Matt Clifford alle tastiere, Darryl Jones al basso e il nuovo batterista Steve Jordan, scelto dal compianto Charlie Watts (morto nel 2021 di cancro) come suo sostituto.

Il drumming di Stanley Jordan, come si può apprezzare già nel brano di apertura Angry, è più duro e meno "swingante" rispetto a quello di Watts, ma non c’è nulla di eccessivo nel suo apporto, sempre preciso e funzionale al brano. Il sound di Angry, scelto come primo singolo del progetto, è fresco, dritto ed essenziale, con l’inconfondibile riff di Richards e con la voce lamentosa di Jagger a stabilire le coordinate sonore di un brano radiofonico e divertente, perfetto per fare breccia anche presso un pubblico più giovane. Ritmi più cadenzati, ma maggiore qualità caratterizzano la notevole Get Close, una canzone da cantare a squarciagola mentre ci troviamo in macchina, in cui troviamo Elton John al piano a supportare un ispiratissimo Mick Jagger, che canta come solo lui sa fare lo struggimento amoroso, con un’elasticità vocale sorprendente per un ottantenne: da applausi anche l’assolo di sax, di sapore quasi jazz. Depending on you è un’emozionante power ballad con un raffinato arrangiamento d’archi (ben tredici strumenti a corda), costruita sul pianoforte di Andrew Watt e l’organo ieratico di Benmont Tench, in cui Jagger racconta da par suo la storia di un uomo che è stato abbandonato e che ora si sente privo di punti di riferimento.

Dopo due brani sentimentali, arriva come uno schiaffo in faccia l’adrenalinica Bite my head off, un indiavolato brano punk-rock con il basso di Paul McCartney distorto ed effettato e un assolo di chitarra da antologia: davvero incredibile pensare che stiamo ascoltando un brano che ha per protagonisti tre ottantenni, tanta è l’energia e la freschezza di Bite my head off. Non è da meno la successiva Whole Wide World, ambientata nella Londra più malfamata degli anni Sessanta, che, con il suo testo tra il malinconico e il motivazionale e i suoi micidiali riff di chitarra quasi hard rock, è una canzone da ascoltare a tutto volume, per darci la carica nelle giornate difficili. Il saliscendi emotivo continua con il rilassato ed evocativo blues-country di Dreamy Skies, punteggiato dal caldo suono della slide guitar e dell’armonica, un brano che sembra uscito da una radio degli anni Cinquanta mentre attraversiamo una lunga e polverosa highway americana. Se avete amato ballare Miss You, allora vi piacerà probabilmente anche la giocosa Mess it up, che condivide la medesima struttura funk-rock e una chitarra ritmica nella seconda parte che sembra mutuata da Nile Rodgers degli Chic. Alla batteria, inoltre, c’è il compianto Charlie Watts, uno che conosceva il groove come le sue tasche e che qui lo dimostra ancora una volta.

Pensate che adesso, dopo otto brani così, l’album entri in una fase calante? Sbagliato. Live by the sword è un brano destinato a rimanere negli annali e non soltanto perché vede riformarsi i Rolling Stones quasi al completo, senza naturalmente il compianto Brian Jones, con Charlie Watts alla batteria e Bill Wyman (che lasciò la band nel 1993) al basso, mentre al pianoforte troviamo un divertito Elton John. Live by the sworld è una jam infuocata, in cui, per una volta, la voce di Jagger è meno in primo piano rispetto al muro del suono creato dai musicisti, che qui mostrano tutte le loro straordinarie qualità in termini di tecnica e pathos.

Driving me too hard è forse il brano più debole dell’album, pur essendo un pezzo piacevole, radiofonico e ben costruito, ma senza il graffio tipico degli Stones. L’inconfondibile voce roca e fumosa di Richards è protagonista di Tell me straight: una appuntamento fisso per i fan di Keef dai tempi di Before They Make Me Run, che stava nell’album Some Girls. Una breve ballad introspettiva e polverosa, in cui il chitarrista sembra pienamente convinto di ogni parola che canta, come quando si chiede retoricamente “il mio futuro è tutto nel passato?". Ci avviamo verso la conclusione con le emozioni forti di Sweet sound of heaven, intenso e lungo rock-gospel lungo di oltre sette minuti in cui le voci di Mick Jagger e Lady Gaga (che qui ha rischiato seriamente le corde vocali) si alternano magnificamente, sostenuti dalle tastiere inconfondibili di Stevie Wonder: se alla fine del brano vi siete alzati in piedi dalla sedia per applaudire, sappiate che non siete i soli.

L’album si chiude con il blues scarno, sporco e sanguigno di Rolling Stone Blues, solo voce, chitarre e armonica senza abbellimenti in studio, dove il blues di Muddy Waters incontra quello di Skip James in un brano che è un tributo alla musica che tanto ha ispirato e portato fortuna alla band per sessant’anni. Mentre ciclicamente i critici musicali suonano le campane a morto del rock, gli Stones, forti di un canzoniere che è secondo solo a quello dei Beatles, continuano, con il sorprendente Hackney Diamonds (il loro migliore album dai tempi di Tattoo You del 1981), a portare avanti indefessi il verbo del rock, che non è meramente un genere musicale, basato su chitarra/basso/batteria, ma è soprattutto uno stile di vita nel fare le cose e nell'affrontare di petto la vita, senza nascondersi nel rifugio caldo del conformismo e dello status quo. Le chitarre di Keith Richards e Ron Wood sono qui precise e affilate, molto più a fuoco rispetto ad alcune schitarrate pigre degli ultimi trent’anni, mentre la voce di Jagger è ancora sorprendentemente elastica, squillante ed espressiva.

Non sappiamo se Hackney Diamonds sarà davvero l’ultimo album della straordinaria carriera degli Stones, ma di certo è un disco che riassume e, per certi versi, amplifica i motivi per cui la band londinese è considerata il più grande gruppo rock di sempre, soprattutto dal vivo. E qui, Mick, Keith e Ron dimostrano di essere più vivi che mai.

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Gabriele Antonucci