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(Ansa)
Economia

I russi pagheranno le armi dell'Ucraina. L'idea brillante ma difficile da realizzare

L'occidente pronto ad usare gli assett congelati e legati al Cremlino versandoli a Kiev. Ma è più facile a dirsi che a farsi

Mosca pagherà le armi di Kiev? Sono mesi che si discute dell’uso degli asset russi congelati. Divisioni e tavoli aperti a Bruxelles e Washington che spinge. Ieri un primo “accordo” europeo, che suona di coesione dei Paesi del Vecchio Continente e che potrebbe essere una spinta per il G7 di giugno in Puglia, quando Biden arriverà in Italia aspettandosi una decisione, un “piano salva Ucraina”, finanziato in gran parte con i soldi russi. Ma Mosca ha già alzato la testa e sono molti i Paesi europei preoccupati e le istituzioni europee (come la Bce) che sollevano dubbi giuridici e timori economici. È un risiko geopolitico e finanziario e la padrona di casa a Borgo Egnazia fra poco più di un mese sarà la premier Giorgia Meloni.

A che punto siamo? Ieri gli ambasciatori dei 27 Stati membri dell’Unione hanno raggiunto un accordo di principio per usare a favore dell’Ucraina circa 3 miliardi di euro all’anno, interessi maturati sui circa 200 miliardi di beni russi congelati in Europa. L’utilizzo sarà al 90% per l’assistenza militare (European Peace Facility, lo strumento intergovernativo usato per l’acquisto di armi) e al 10% per la ricostruzione del Paese in guerra. Tradotto: “La Russia pagherà direttamente per i suoi crimini” ha commentato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis. È la prima decisione, dopo mesi di discussioni. L’Europa è divisa dalle preoccupazioni di possibili effetti negativi sull’euro e sulle imprese europee, dai timori giuridici (Mosca ha sempre minacciato azioni legali lunghe decenni), dalle divisioni interne e dalla posizione dei Paesi neutrali (Austria, Irlanda, Malta e Cipro). Ieri però l’intesa e la prima decisione a procedere, con una linea comune e più soft rispetto a quella americana che vorrebbe usare i 300 miliardi di euro di beni russi immobilizzati nelle mani del G7 (217 in Europa). Ora l’accordo europeo dovrà essere formalizzato dai ministri dell’Unione. Non c’è una data scritta, ma la prima tranche di aiuti dovrebbe arrivare a Kiev in luglio.

Ma le questioni politiche, giuridiche ed economiche restano sul tavolo e l’Italia in questo risiko ha il suo ruolo. La maggior parte degli asset russi sono in Belgio. Le sanzioni si basano su regole internazionali e dal punto di vista giuridico quel capitale non si può toccare. Da qui la preoccupazione di alcuni Stati membri e della Bce: violare il diritto internazionale vuol dire anche minare la fiducia nell’euro e nei mercati europei. Francia e Germania in primis non nascondono la paura di trovarsi davanti alla fuga degli investitori. Basta pensare che Arabia Saudita e Indonesia si sono già dette preoccupate per i loro soldi in Europa. Il rischio di fare un precedente è la fuga di capitali. In più nelle ultime settimane Mosca ha fatto vedere come vuole e può reagire. Basta pensare al trasferimento temporaneo delle sussidiarie russe di Ariston e di Bosch alla Gazprom Domestic Systems. E visto che la maggior parte degli asset russi è in Europa, è chiaro che sono i Paesi dell’Unione ad essere più preoccupati e che Stati Uniti, Canada e Giappone spingono maggiormente sull’acceleratore.

E così veniamo al G7 in Puglia di giugno. I Grandi della Terra si riuniranno e il presidente Biden ha detto chiaramente alla premier Meloni, durante l’incontro alla Casa Bianca di marzo, di avere “forti aspettative” sul vertice in Puglia. Il presidente americano, dunque, misurerà l’affidabilità della padrona di casa che in questi mesi ha lavorato per ammorbidire i contrari e arrivare ad un’intesa sull’uso per l’Ucraina dei fondi russi congelati in Europa. Biden pressa, ma i Paesi Europei hanno maggiormente da perderci. Cosa uscirà da Borgo Egnazia? L’intesa di ieri (una volta avuto il via libera del Consiglio europeo) basterà o spianerà la strada a un’intesa più in linea con gli Stati Uniti?

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Cristina Colli