L’altra faccia dell’Ucraina: «Non voglio morire in guerra»
Le reclute del battaglione Azov vengono addestrate in poco meno di due settimane per poi essere mandate al fronte.
Dal Mondo

L’altra faccia dell’Ucraina: «Non voglio morire in guerra»

Dal fronte storie di uomini, persone che hanno deciso di dire No alla guerra

Di Giuseppe Borello, Matteo Delbò, Andrea Sceresini

Gli ordini di Magdy Zahary scuotono le reclute ucraine sedute ad ascoltarlo sotto i pini di una ex base sovietica nell’Oblast di Kiev. Sono arrivate ieri e le prossime arriveranno tra dieci giorni. Un flusso continuo, a decine, al punto che per loro non c’è neanche il tempo di cucire i nomi sulla divisa. Una volta varcato il cancello diventano come i numeri scritti a mano che portano appiccicati con lo scotch sul braccio sinistro. Gli viene assegnato un kalashnikov, tre caricatori vuoti e una branda. A tenergli gli occhi puntati addosso ci pensa un sergente che preferisce semplicemente farsi chiamare Dozor, il guardiano: «Qui da noi sono tutti volontari, nel loro cuore c’è solo odio per i russi. Quelli che vengono reclutati per strada non li vogliamo».

Per formare un soldato da mandare in prima linea in Ucraina ci vogliono poco meno di due settimane. Un corso accelerato di primo soccorso, strategia militare e uso delle armi, che normalmente richiede due anni di preparazione a un marine americano. Le giovani reclute della brigata Azov lo sanno bene, se lo sentono ripetere in continuazione da Magdy Zahary, il loro istruttore californiano: «Non cerco di essere cattivo. Ho poche ore per insegnarvi mesi e mesi di concetti. Voglio che siate uniti quando vi ritroverete a Backmut, in Crimea, ovunque». Dopo una vita nel corpo dei marine, Zahary ora si sgola per lasciare qualche briciola di conoscenza nella testa di questi ragazzi che pochi giorni prima erano ancora chini sui libri dell’università. Dove non arriverà la sua esperienza, arriverà quella del fronte, non serve nascondere la verità: «Il vostro braccio è appena saltato in aria. La vostra macchina è fuori uso. Il fucile si è inceppato. Siete nella merda». Magdy mima ogni scena, è talmente teatrale che i suoi gesti abbattono ogni barriera linguistica. Lo sguardo dei ventenni è diventato assente, da un pezzo hanno smesso di prendere appunti e ora sono persi in quello che tra pochi giorni potrebbe essere il loro destino. «Svegliatevi», urla il marine: «Lo vedete che i russi stanno arrivando. Il medico è impegnato altrove. Siete ancora in tempo per salvarvi la vita da soli usando questo laccio emostatico con l’unico braccio che vi è rimasto».

L’esercito ucraino ha un disperato bisogno di uomini per tenere le sue posizioni e alimentare la controffensiva. Dopo due anni di guerra gli uffici di reclutamento faticano sempre di più a trovare nuove reclute e così i commissari hanno cambiato strategia. Le cartoline del servizio militare vengono distribuite all’uscita delle metropolitane, davanti ai supermercati, persino in posti di blocco improvvisati. I più furbi si informano su Telegram, nei gruppi dei renitenti alla leva si condividono le posizioni Gps da evitare per essere arruolati. Mentre i più sprovveduti, una volta beccati, cercano l’ultima resistenza nella fuga. Sono i loro video a rimbalzare sui social network, immobilizzati faccia a terra, sbattuti nel retro di un furgone bianco oppure difesi da anziane signore che ammoniscono i commissari militari a rispettare la legge. «Devono capire che anche se siamo in guerra esistono delle procedure», sussurra tra sé e sé l’avvocato Oleg Lukyanchuk dopo aver terminato una telefonata con un cliente nel suo studio di Poltava. «Da quando è in vigore la legge marziale, più di mille clienti al mese mi hanno chiesto di essere esentati dalla mobilitazione», non fa in tempo a finire una frase che il telefono di Oleg torna a squillare. «Ricevo centinaia di telefonate al giorno, ora metto il silenzioso», continua l’avvocato: «La nostra legge parla chiaro. La chiamata alle armi deve essere consegnata a casa o sul luogo di lavoro e deve essere preventivamente autorizzata. Ci dovrebbe essere un elenco dei destinatari». Anche se in Ucraina gli uomini tra i 18 e i 60 anni non possono lasciare il Paese, non tutti possono essere coscritti. Un padre di tre figli può evitare il fronte, come anche uno studente universitario o chi ha un genitore disabile. Esenzioni che spesso vengono ignorate dai militari che reclutano per strada. «Prima dicono che se una persona non accetta la convocazione finirà in carcere», ricorda Oleg: «Ma in realtà c’è solo una sanzione amministrativa. Poi, si può arrivare anche alla violenza fisica».

Oltre le vie legali esiste un sottobosco di migliaia di persone che hanno trovato una soluzione per sfuggire alla guerra. C’è chi si nasconde nelle case degli amici, chi va a vivere in campagna e chi si affida alla rete dei trafficanti che per 2.500 euro ti assicurano un viaggio di sola andata fuori dall’Ucraina. «Il meccanismo è semplice, queste persone sono in contatto con la polizia di frontiera», appoggiato al parapetto di una diga in Alto Adige, Ivan inizia il suo racconto che l’ha portato da Kharkiv alle Dolomiti: «Con una parte dei tuoi soldi il trafficante corrompe i poliziotti. Su Telegram ti dà un orario e una posizione Gps dove devi farti trovare. In quel momento la polizia di frontiera ucraina spegne le telecamere a infrarossi e si gira dall’altra parte». Ivan si accende una sigaretta, si prende il suo tempo per guardare il bosco che scende fino al bacino: «Quei pini mi ricordano quella sera. Ero morto di paura, la torcia del telefonino illuminava a stento gli alberi che avevo davanti. Mi sono detto: “Dove cazzo vado? Dove finisco?”. Stavo per avere una crisi di panico quando il trafficante che mi seguiva su Telegram mi dice: “Stai calmo, vedo la tua posizione Gps. Fra poco arriverai in un campo aperto, lì devi correre e basta, non voltarti indietro”. Dopo trecento metri ero in Moldavia, ho ricominciato a respirare». Prima dell’invasione russa, Ivan ha lavorato come cameriere a Venezia, oggi grazie anche alla sua parlantina veneta ci ha messo poco a trovare un posto in un grande hotel vicino Bolzano. «Gli italiani pensano molto agli affari loro e non si curano più di tanto della guerra», continua accendendosi un’altra sigaretta: «Questa però non è una guerra, è un massacro. Ho sempre pensato che ucraini, russi e bielorussi siano fratelli. Mentre ora la propaganda di Putin e degli altri potenti ci sta facendo il lavaggio del cervello. Ognuno pensa di essere nel giusto, tutti dicono di combattere i nazisti e non si accorgono di andare al macello». Ivan si è sottratto alla guerra per evitare di sparare contro i suoi amici che si erano trovati improvvisamente sotto occupazione russa. Un risiko perverso che trasforma gli amici in nemici a seconda dei territori che vengono conquistati. È impossibile trovare un filo conduttore tra chi pensa che la guerra non sia la soluzione. C’è chi semplicemente si nasconde per paura, chi per non abbandonare i propri figli, chi perché lo vieta la propria religione, chi per motivi politici, chi perché è un pacifista. Ideali che nessuno si azzarda più a manifestare pubblicamente nelle piazze di Kiev e di Mosca per paura di ritorsioni. «In guerra ci vanno due tipi di persone», conclude Ivan: «C’è chi vuole difendere il proprio Paese. E chi lo fa solo per soldi. L'economia dell'Ucraina è distrutta completamente. Non c'è più lavoro».


Nel suo ufficio nel centro di Tbilisi, in Georgia, Darya Berg è impegnata ad arruolare nuovi volontari per gestire il prossimo arrivo di disertori russi. È la responsabile del dipartimento di soccorso ed evacuazione dell’associazione Go by the forest, il suo obiettivo è aiutare i russi a evitare la mobilitazione imposta da Putin. «Abbiamo fatto scappare più di settemila persone dalla Russia dall’inizio della guerra», racconta mentre controlla gli ultimi messaggi che sono arrivati su Telegram: «Arrivano a spararsi tra di loro perché è l’unico modo che hanno per farsi trasferire in un ospedale militare. Poi, contattano la nostra organizzazione e proviamo ad aiutarli. Abbiamo bisogno di specialisti in grado di disegnare vere e proprie mappe con le migliori vie di fuga». Il suo assistente Anton aspetta sulla porta, è sempre più impaziente: «Scusate ma è arrivata una richiesta urgente. Un soldato è fuggito da un ospedale di Mosca perché non voleva tornare al fronte. È ricercato e ha bisogno di una via d’uscita». Darya ritorna con lo sguardo sul suo cellulare: «Dobbiamo sapere dove si trova esattamente questo ragazzo. Dopodiché, una volta individuata la zona, proveremo a immaginare quale confine fargli attraversare. Vediamo di trovare un tassista che per denaro è disposto a nasconderlo sotto una coperta».

Sono migliaia i russi che da quando è stata dichiarata la mobilitazione sono scappati in Turchia, Armenia e Georgia. Basta un visto turistico rilasciato alla frontiera senza neanche tante domande. I più fortunati sono riusciti a prendere l’aereo, ma quando i controlli della polizia russa si sono intensificati c’è chi è arrivato ad attraversare a piedi le vette innevate del Caucaso. A Tbilisi si è costituita una nutrita comunità di disertori, vivono in un luogo segreto che chiamano «shelter», il rifugio. Hanno cibo, letti a castello e sale comuni. Una sorta d’ostello dove nel salone troneggia il busto di Lenin verniciato di viola con un coniglietto di peluche sulla spalla. Gleb Golod, un giornalista ventiseienne del sud della Russia, è nel pieno di un dibattito con quattro suoi connazionali. Uno di loro legge un messaggio che gli è arrivato: «Ti abbiamo segnalato ai servizi segreti. Ammazzeremo tuo padre e poi verremo a cagare sulla sua tomba», poi rivolgendosi al compagno davanti a lui: «Questo perché nessuno offre a questa gente uno straccio di speranza, credono di agire per il bene della Russia». Vista dallo «shelter», Mosca è lontana, qui si può fantasticare su quello che sarà il dopo Putin e sul ruolo che dovrebbero avere gli oppositori politici in esilio. Tra i cinque, un ventenne con una bandana calata sulla bocca forse ha trovato l’unica soluzione a questa guerra a un passo dal diventare mondiale: «È inutile escogitare piani se non si ha un minimo di seguito tra i cittadini che vivono in Russia. Quando il regime sarà caduto nessuno si metterà ad ascoltare chi ora pontifica dall’estero. Dovrà essere il popolo russo a decidere, soltanto il popolo». Il busto colorato di Lenin li osserva dalla mensola. Chissà cosa avrebbe pensato di questi giovani che portano avanti una rivoluzione senza neanche sparare un colpo.

Questo reportage è ispirato al docu-film «Dov’è la vittoria (Ucraina, Georgia, Armenia)» di Giuseppe Borello, Andrea Sceresini e Matteo Del Bo sulle vite di giovani russi e ucraini che sono fuggiti o che tentano di fuggire dalla logica delle trincee, che andrà in onda lunedì 7 agosto 2023 alle 23.15 - Rai 3, nella serie «Il fattore umano» (un format di Raffaella Pusceddu e di Luigi Montebello con la collaborazione di Elisabetta Camilleri e Antonella Palmieri, con la regia di regia di Luigi Montebello, musiche originali di Filippo Manni e Massimo Perin, progetto grafico di Wiliam Di Paolo.

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Ivan si è rifugiato in Trentino-Alto Adige, ha pagato una rete di trafficanti per fuggire dall’Ucraina ed evitare l’arruolamento nell’esercito di Kiev.

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Andrea Soglio