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(Ansa)
Economia

Le ragioni di fondo degli agricoltori sono le stesse di tutta la manifattura europea

La Rubrica - Pubblico & Privato

La protesta recentemente messa in piedi dagli agricoltori a Bruxelles e in diversi paesi europei, inclusa l’Italia, a dispetto delle considerazioni sui casi che hanno avuto anche risvolti violenti i quali vanno assolutamente stigmatizzati, rappresenta indubbiamente uno spartiacque importante e una frattura nella narrativa che le istituzioni europee hanno dato e danno dell’Europa.

Non si è trattato della rivendicazione di una categoria in un Paese verso una specifica iniziativa o politica europea, ma qualcosa di più ampio, che ha attraversato i principali paesi del continente e, in definitiva, ha criticato non una serie di specifiche politiche europee, ma l’atteggiamento stesso delle istituzioni europee verso i propri cittadini.

L’ambizione dichiarata delle istituzioni europee è quella di rendere l’Europa il luogo più avanzato al mondo in termini di innovazione e di standard ambientali e sociali.

E’ certamente una ambizione alta e condivisibile. Bisogna però intendersi sia su cosa significa “avanzato”, evitando eccessi ideologici, ma soprattutto su quali siano i costi che per raggiungere tale ambizione si è disposti a far pagare ai propri cittadini e soprattutto alle fasce più marginali e alla classe media.

La storia purtroppo è piena di alte ambizioni verso mondi migliori e futuri il cui cammino è lastricato di sofferenza e dolore.

Da un po’ alcuni osservatori segnalano e lamentano una deriva elitista e regolatoria da parte delle istituzioni europee, con la continua produzione di regole e vincoli.

Regole e vincoli che, a dispetto degli obiettivi, vengono vissuti con sempre più frequenza come ingiuste vessazioni da fasce crescenti della popolazione europea. Non più piccole frange populiste o arrabbiate, ma qualcosa di più profondo.

Le istituzioni europee sembrano vivere nell’illusione che si possano contemporaneamente avere standard ambientali e sociali decisamente più alti che negli altri paesi, frontiere completamente aperte al commercio, ed una industria propria.

Questi tre obiettivi, purtroppo, sono in potenziale contraddizione tra di loro. Ne possiamo scegliere due su tre, ma non possiamo averli tutti e tre insieme.

Se si mettono limiti sulle specie che si possono coltivare, sui prodotti chimici che si possono utilizzare, se si impongono quote massime produttive non si può poi semplicemente fare entrare in Europa prodotti realizzati da chi quei vincoli non deve rispettare.

Una certa differenza può forse essere accettata e gestita, ma quando la distanza è troppa la sfida diventa impossibile e si diffonde la percezione che si tratti di una lotta impari ed ingiusta.

In molti casi siamo ormai vicini a questo punto limite. E in una tale situazione si trovano non solo l’agricoltura, ma, più in generale, ampie parti della manifattura europea, soggette a innumerevoli vincoli e obbligazioni, ma senza alcuna protezione.

L’unico meccanismo di protezione finora previsto dall’Europa è il cosiddetto CBAM – Carbon Border Adjustment Mechanism, letteralmente “meccanismo di aggiustamento al confine per il carbonio” -.

Si tratta di un dazio su alcune merci importate in Europa le quali sono prodotte altrove emettendo in atmosfera più anidride carbonica di quanta sarebbe ammessa qui da noi. Per il momento coprirà la produzione di cemento, alluminio, fertilizzanti, energia elettrica, ferro e acciaio. Tutte produzioni da grande impresa.

L’anidride carbonica è però solo uno dei problemi, ve ne sono innumerevoli altri che riguardano le piccole e medie imprese, come gli agricoltori ci mostrano.

Se l’Europa non vuole perdere la propria industria deve ripensare il proprio sistema di vincoli e obblighi, con politiche industriali che siano effettivamente sostenibili dai propri cittadini e dalle proprie imprese, e farlo alla svelta.

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Mattia Adani