Lavoro
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Economia

Il lavoro c'è, mancano i lavoratori

Studi raccontano che quello della disoccupazione resta un problema dai mille risvolti

Le imprese italiane sono pronte ad assumere, ma rischiano di non trovare lavoratori. È il paradosso che emerge dagli ultimi dati pubblicati proprio in questi giorni. Sono 531mila i lavoratori ricercati a settembre, 7mila in più rispetto a un anno fa, secondo il Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere con Anpal. Tra settembre e novembre, le assunzioni previste superano di poco 1,4 milioni, in aumento dell’1,9% rispetto allo stesso periodo del 2022.

Tutto bene? Non proprio. Perché se da una parte la richiesta di manodopera aumenta, dall'altra la forza lavoro è carente. La difficoltà di trovare lavoratori coinvolge il 48% delle assunzioni programmate dalle imprese, in aumento del 5% rispetto a dodici mesi fa. Per molte figure tecnico-ingegneristiche e di operai specializzati tocca quote comprese tra il 60% e il 70%. Quello che manca sono dunque figure tecniche specializzate.
I dati parlano chiaro: le aziende hanno difficoltà di reperimento per oltre 252mila assunzioni a settembre e la causa prevalente è la “mancanza di candidati”. Non ci sono operai specializzati (il 64,2% delle entrate è difficile da reperire), conduttori di impianti fissi e mobili (53,2%) e professioni tecniche (49,5%). Le figure più difficili da trovare sono gli attrezzisti, operai e artigiani del trattamento del legno (74,1% con un picco dell’87,7% nel Nord Ovest), gli operai specializzati addetti alle rifiniture delle costruzioni (73,6%), i meccanici artigianali, montatori, riparatori, manutentori macchine fisse e mobili (73,1%) e i fabbri ferrai costruttori di utensili (72%). E via così, praticamente per tutte le figure tecniche di ogni settore.

Cosa sta succedendo? Perché? Cosa bisogna fare per non alimentare il paradosso di un tasso di disoccupazione più alto della media dei grandi paesi europei da una parte e la vana ricerca di lavoratori dall'altra?
Puntare il dito contro il reddito di cittadinanza non ha senso: al netto di truffe o casi particolari, la mancanza di mezzo milioni di lavoratori specializzati non è certo imputabile a un sussidio (ormai in via di estinzione per decisione del governo Meloni) di cui hanno beneficiato settori marginali, spesso oltre le soglie di povertà, in aree a bassa occupazione. Non certo persone con una preparazione tecnico-scolastica richiesta dalle imprese.
Un'altra riposta, più sensata, fa riferimento al nostro sistema scolastico. Da decenni si punta il dito contro percorsi di istruzione troppo slegati dal mondo del lavoro. L'alternanza scuola-lavoro, nata per avvicinare i due emisferi, è stata un fallimento. Una “scocciatura” per gli studenti e per le aziende, quando non addirittura causa di problemi gravi di sicurezza, con studenti vittime di incidenti anche mortali per evidente inadeguatezza a essere inseriti in contesti per i quali erano impreparati. Piuttosto, bisognerebbe chiedersi perché negli anni l'abbandono degli istituti tecnici e professionali è stato progressivo, mentre, di contro, le iscrizioni ai licei sono aumentate. Per decenni l'istruzione tecnica è stata relegata ai margini del dibattito pubblico, il che significa scarso appeal, scarso adeguamento a standard di livello europeo e, non ultimo, investimenti insufficienti a un ammodernamento necessario.

C’è poi il fenomeno nato negli Stati Uniti ma importato anche da noi delle “grandi dimissioni”. Nel 2022 più di 47 milioni di americani hanno deciso di cambiare lavoro, rinunciando volontariamente a quello che avevano. Il fenomeno è stato identificato come Great resignation e ha rappresentato una scossa profonda della società americana e in Italia e in Europa, con numeri diversi, ha comunque cambiato il quadro del mondo del lavoro. Gli analisti si chiedono quali siano le cause effettive del fenomeno, se sia prodotto dalla rassegnazione o dall’ottimismo, se sia passeggero o strutturale, se sia il sintomo di un rifiuto diffuso degli attuali modelli produttivi.
Sicuramente alcuni fattori pesano, e anche da noi. La precarizzazione del lavoro è uno di questi: una giungla di contratti brevi, specie in alcuni settori, che non danno il senso di un investimento su di sé e sul proprio futuro. E poi c'è la questione salariale: stipendi bassi in un contesto di aumentato costo della vita, soprattutto nelle grandi città del Nord. Altro fatto è la dimensione delle imprese: una recente indagine dell’Inapp (Istituto di analisi delle politiche pubbliche) certifica che qualità del lavoro, produttività e dunque salari, sono peggiori più si riducono le dimensioni delle aziende. Il sistema produttivo italiano è in grandissima parte formato da aziende medio piccole.

Tanti elementi, che necessitano di una riflessione seria e poi, possibilmente, di politiche coerenti. Certo la retorica dei fannulloni non convince più. Il fenomeno è globale e nasce negli Stati Uniti, la patria del capitalismo e precursore di tendenze sociali ed economiche.

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Cristina Colli