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Economia

Le aziende che vanno meglio sono quelle che fanno anche del bene

I dati dimostrano come gli affari per le società che non pensano solo agli affari vanno meglio rispetto alle altre

Essere buoni conviene. Le società benefit crescono il doppio rispetto a quelle tradizionali. Sono poche, l’1,23 per mille delle imprese, ma dal 2016 quando sono nate (la Legge istitutiva è di quell’anno) a dispetto del periodo di crisi sono cresciute costantemente e hanno registrato un aumento del fatturato del 37% contro il 18% delle aziende non-benefit.

A fotografare la situazione, per la prima volta, è la Ricerca Nazionale sulle Società Benefit 2024 (fatto da Nativa, Research Department di Intesa Sanpaolo, InfoCamere, Università di Padova, Camera di commercio di Brindisi-Taranto e Assobenefit). È il primo studio sull’impatto economico-patrimoniale delle imprese benefit, realizzato paragonando l’andamento a quello delle aziende tradizionali di pari dimensioni e appartenenti agli stessi settori. Le società benefit sono un modello di impresa che coniuga il profitto e l’impatto sociale. Sono organizzazioni che operano con l'obiettivo di generare un beneficio comune (un impatto positivo su persone, comunità, territori e ambiente) insieme al profitto finanziario. Quindi fanno business, fanno utili, non solo del bene.

Sono 3619 in Italia (fine 2023): +37,8% sull’anno precedente. Erano 805 nel 2020. Con il Covid ha iniziato il boom, con molte aziende che hanno rivisto le proprie strategie di business in ottica di sostenibilità: nel 2021 sono diventate 1697. L’accelerazione si vede anche nei numeri degli addetti ai lavori: 18mila nel 2020, 98mila nel 2021 e 188mila alla fine dello scorso anno, con un’incidenza del 10,4 per mille del totale degli occupati in Italia. Guardando al fatturato si registra un aumento del 37% tra il 2019 e il 2022, contro l’incremento del 18% delle imprese tradizionali. E anche la produttività parla: nel 2022 valore aggiunto per addetto pari a 62mila euro contro i 57mila euro nelle aziende non-benefit. In questo modello di imprese è cresciuto di più anche l’Ebitda margin (il rapporto tra margine operativo lordo e ricavi) passando dall’8.5% nel 2019 al 9% nel 2022 (nelle realtà tradizionali nello stesso periodo si è andati dall’8.1% all’8,3%).

Le società benefit, quindi, crescono di numero e di fatturato e ricavi. Come? Investendo. Sulle persone innanzitutto. Riconoscono maggiormente il valore dei propri dipendenti: il costo medio per addetto è di 41mila euro contro i 38mila delle aziende tradizionali. Investono sull’innovazione e su progetti a lungo termine. Tra quelle del settore manifatturiero, per esempio, la quota di imprese internazionalizzate è del 41% (sette punti percentuali in più rispetto al modello di impresa tradizionale) e la richiesta di brevetti è superiore di 9 punti percentuali (24% contro il 13%), i marchi registrati a livello internazionale sono quasi il doppio (35% contro 19%) e stessi valori per le certificazioni ambientali. Valorizzare i dipendenti (anche con salari più generosi) e le comunità in cui si opera e investire sul futuro e sull’ambiente sembra proprio che paghi.

Ma dove sono queste 3619 società benefit italiane? Nel nord ovest operano oltre 4 su 10 (42,4%), segue il nord est (23,5%) e poi il centro (20,9%) e infine il Mezzogiorno e le isole (13,2%). La Lombardia è in cima alla classifica contando 1218 società, con un valore generato di 7,2 miliardi di euro nel 2022. Seconda posizione per il Lazio (394 realtà) e poi Veneto (359). Quarta per numero di realtà è l’Emilia-Romagna (340) che però è seconda quanto a valore generato (4,8 miliardi di euro).

Sono sempre di più le società benefit, nuove o che si convertono strada facendo, anche perché i vantaggi d’impresa ci sono. Aldilà dei fatturati, essere una società benefit porta maggiore autorevolezza nei confronti degli istituti bancari e l’accesso a nuovi investimenti, più attrattiva e fidelizzazione dei talenti (soprattutto dei giovani) e una migliore reputazione aziendale. Essere buoni dunque conviene, anche.

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Cristina Colli