Cosa dicono i dati INVALSI e perché preoccuparsene
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Cosa dicono i dati INVALSI e perché preoccuparsene

Sono stati pubblicati i dati INVALSI per le scuole di ogni ordine e grado: il quadro è generalmente costante e sconfortante. Ecco cosa dicono davvero e cosa bisognerebbe fare prima che sia troppo tardi

I dati INVALSI certificano una volta di più che la scuola italiana vive una crisi profonda e che presenta caratteristiche ben determinate.

La prima è il peggioramento dei livelli di apprendimento man mano che si avanza con il ciclo di istruzione. Insomma, la scuola, procedendo anno dopo anno, perde pezzi, rallenta lo sviluppo delle competenze e delle conoscenze di chi la frequenta, dai primi anni fino ai dati sconcertanti che riguardano gli studenti a un passo dalla maturità che sanno comprendere a fatica un testo in lingua italiana e sono scarsi in matematica. I dati riferiscono questo.

Il secondo elemento lampante è che l’Italia è spaccata in due, come ha chiarito anche il ministro Giuseppe Valditara commentando l’aggiornamento INVALSI. La scuola non riesci ad essere un elemento di riscatto sociale, anzi accresce il divario tra le aree sviluppate e quelle svantaggiate, adeguandosi totalmente all’ambiente di cui fa parte e venendo meno a uno dei suoi ruoli sociali più strategici, vale a dire garantire pari opportunità e un’istruzione valida a chiunque la frequenti. E così Nord e Sud a due velocità, centro e periferia a due velocità e via così. I dati riferiscono questo.

Ancora, numeri, indicatori e risultati stupiscono per la loro costanza. Nell’Italia post-covid i livelli di apprendimento si sono abbassati ulteriormente e si sono stabilizzati al ribasso, senza peraltro che la fine della pandemia abbia contribuito a invertire lo stato delle cose. Ecco un segnale forte da considerare: non c’è più l’emergenza sanitaria, ma i saperi non acquisiti o appresi in DaD non si stanno recuperando e sono ormai fardelli con cui una intera generazione, e non un paio di annate ormai diplomate, dovrà fare i conti. Dare la colpa al covid o alla DaD è facile ma irritante e insufficiente, perché la crisi educativa è in atto da almeno vent’anni e il biennio pandemico ha solamente accelerato alcune dinamiche, senza cambiare nessuna rotta. I dati riferiscono questo.

Infine, stonano ancora una volta alcuni esiti degli esami di maturità – in alcuni casi si legge di 100 e 100 e lode a pioggia - in confronto a questo quadro sconfortante, come se si trattasse di dati provenienti da studenti differenti. Ma non è così.

Che fare, quindi? Vestire i panni degli spettatori dell’affondamento annuale del Titanic non può bastare. Educatori e professionisti di ogni estrazione lo ribadiscono in ogni modo e ora ci sono anche banche dati ricolme di elementi statistici che confermano un quadro formativo, educativo e di apprendimento allarmante che presenta un analfabetismo funzionale crescente anno dopo anno.

Innanzitutto occorre prendere atto di vivere in un’età di emergenza educativa: una società che si consideri sana, o comunque responsabile e che intenda guarire dai suoi mali, dovrebbe dedicare energie intellettuali e risorse economiche per venire a capo di questa situazione incresciosa in cui oggi sono impaludati i nostri figli, ma domani lo saranno coloro che rappresentano il cuore pulsante di chi costituisce il Paese socialmente, politicamente, economicamente, culturalmente.

Risolvere questo baratro culturale è il tema principale di questa stagione, insieme alla questione ambientale, s’intende, e occorre fare qualcosa, anzi molto, e subito, a cominciare dai più piccoli, perché se c’è una novità da questi dati INVALSI è proprio la manifestazione della crisi sin dalla scuola primaria.

La scuola non può essere l’unico ente additato come colpevole né l’unico indicato a risolvere una crisi di questa entità. Serve un patto generazionale che coinvolga famiglie, scuole, politica e l’universo degli educatori di ogni settore, ma anche chi – ad esempio – si occupa di comunicazione, trasmette messaggi, contenuti, modi e mode. Gli studenti, dai più piccoli ai più grandi, fuori da scuola sono travolti dall’uso dello smartphone. Guardatevi in giro, quando siete in pizzeria: i genitori hanno generalmente abdicato al loro ruolo educativo, rinunciando al dialogo e al gioco con i figli a cui viene affidato uno smartphone, più o meno ad accesso libero. I bambini non parlano, non osservano l’ambiente in cui vivono con il corpo e sono immersi in quello proposto dallo schermo, artificiale, visivamente iperstimolante, ma totalmente passivo. Questa generazione, privata della possibilità di annoiarsi, pensare e notare ciò che la circonda, quando va a scuola vive una situazione unica, perché viene richiesto di scrivere, di fare mente locale, di guardarsi dentro, di imparare e contare con le dita, con le mani, astraendo. E’ un discorso che vale per i piccoli e che vien buono per i ragazzi che crescono, sempre meno esposti al silenzio e quindi meno disposti a farne esperienza per pensare e per cogliere sfumature, differenze, increspature.

La scuola ha le sue responsabilità, vive l’immobilismo e quando si rinnova va generalmente incontro a semplificazione e riduzionismo, come richiede la società di cui è specchio.

Ripartiamo da stati generali sulla scuola e più ampiamente sull’educazione e sulla formazione di una intera generazione che merita uno stato che se ne curi, un’azione politica ampia che se ne curi, famiglie disposte alla fatica educativa per dare ai figli le migliori possibilità. Che non passano solo da una scintillante costosissima scuola che immerge nella lingua inglese, ma dal piccolo grande impegno quotidiano profuso per un libro letto, una storia raccontata, del tempo sottratto al lavoro e dedicato ai più piccoli, fino a una nuova fiducia nei confronti della scuola, ridandole ruolo e dignità. Prima di pretendere la Luna, occorre iniziare a ridare priorità alla cultura, a cominciare dal piccolo sacrificio che richiedono i compiti assegnati per casa accolti senza sbuffare e altre eroiche azioni giornaliere.

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Marcello Bramati