vaccino covid
(Ansa)
Salute

I vaccini funzionano, chi più, chi meno

Con l'aumentare dei vaccinati conosciamo sempre meglio la loro efficacia scoprendo che alcuni funzionano meglio sul tempo breve altri sui tempi lunghi. Ma c'è da essere ottimisti

Ciò che vorremmo sapere in questa fase dell'epidemia è quanto una singola dose di vaccino ci protegge. Le variabili in gioco sono molte e variano dal tempo trascorso dall'iniezione al tipo di vaccino e all'età. Se ci si concentra sugli ultraottantenni, e sui vaccini AstraZeneca e Pfizer, una risposta abbastanza precisa esiste.

Uno studio su The Lancet, il primo che paragona questi due vaccini, chiarisce che dopo cinque settimane il 93 per cento delle persone di età maggiore o uguale a 80 anni, vaccinate con una singola dose di Pfizer, sviluppa una risposta anticorpale contro la proteina spike del virus (quella che si lega alla cellula); di contro, per il vaccino AstraZeneca, la percentuale è dell'87 per cento. Ma il vaccino anglo-svedese pareggia la partita con un altro risultato ottenuto nello stesso studio: mentre solo il 12 per cento dei vaccinati con una dose di Pfizer sviluppa linfociti T dopo 5 o 6 settimane, è invece del 31 per cento la percentuale dei vaccinati AstraZeneca che ottiene questo risultato.

Per capire queste differenze bisogna considerare che ci sono due tipi di immunità. La prima, quella umorale, coinvolge anticorpi neutralizzanti che si legano alla proteina spike del virus neutralizzandolo. Si tratta di un tipo di immunità importante, perché è quella che ci protegge dall'infezione: se virus arriveranno, gli anticorpi indotti dal vaccino neutralizzeranno il virus. Qui a vincere è il Pfizer perché ha la più alta probabilità di ottenere immunità protettiva. La seconda immunità, quella dei linfociti T è quella che di fatto uccide le cellule infettate dal virus (che vi penetra dentro per replicarsi). E qui è il vaccino AstraZeneca a ottenere il risultato migliore. Non poco come risultato, perché i linfociti T limitano l'aggravarsi della malattia e, a differenza dell'immunità umorale, tendono a essere efficaci anche contro le varianti. Ingenerale, l'immunità cresce, raggiunge un picco e poi diminuisce. Significa che aspettare circa dodici settimane tra una dose e un'altra è per i governi una scelta valida, in quanto a cinque settimane c'è già una risposta forte.

Siccome la risposta a un vaccino peggiora all'aumentare dell'età, è lecito immaginare che questi dati saranno migliori nel caso di persone più giovani. Tuttavia, in quest'ultimo caso bisogna registrare una cattiva notizia: una ricerca su 3000 marines americani di 18-20 anni in ottima salute pubblicata su The Lancet Respiratory Medicine ha trovato che, sebbene gli anticorpi indotti da un'infezione di Covid-19 generalmente proteggano per molti mesi da una reinfezione, nel caso delle persone molto giovani non proteggono quasi mai completamente.

Secondo l'autore senior dello studio, Seth Glickenhaus, " la reinfezione da Covid-19 è molto comune tra i giovani adulti, nonostante un'infezione precedente, come pure la capacità di infettare gli altri. Questo è un punto da tenere chiaro in mente nella politica sui vaccini: i giovani dovrebbero avere il vaccino quanto prima se uno vuole davvero ridurre la trasmissione".

I ricercatori spiegano questo risultato con il fatto, da loro appurato, che chi si reinfettava aveva una risposta anticorpale più bassa di chi non si reinfettava e specialmente un più basso livello di anticorpi protettivi. Questa sembrerebbe la caratteristica delle persone molto giovani guarite da Covid. Da notare poi che la maggior parte delle reinfezioni tra i giovani di 18-20 anni nel campione dello studio erano anche asintomatiche.

I più letti

avatar-icon

Luca Sciortino