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(Ansa)
Politica

Concessioni balneari, cosa ha detto l’UE, cosa farà l’Italia

Un po’ di chiarezza su un problema che ciclicamente torna alla ribalta ma che non viene mai risolto

Quel che è certo è che la sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia europea in tema di concessioni balneari non sancisce nulla che all’Italia non venga ripetuto da tempo: le concessioni pubbliche devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente tra diversi candidati e non possono essere rinnovate in maniera automatica.

Una battaglia lunga 13 anni

Da 13 anni Bruxelles sta cercando di mettere in riga il nostro Paese a colpi di sanzioni e procedure d’infrazione, ma fino a oggi, in tema di concessioni di demanio pubblico (tra le quali anche quelle balneari) non c’è stato nulla da fare. Tra un rinvio, una proroga e un’eccezione alla regola il rinnovo automatico di concessioni per l’occupazione delle spiagge pubbliche è stato autorizzato da un Governo all’altro.

Ora arriva (l’ennesimo) stop e (l’ennesima) promessa di effettuare una repentina mappatura delle spiagge per verificare le concessioni e procedere al bando di gara. L’ultimo – in ordine di tempo – a garantire la mappatura e la messa in regola dell’Italia con il resto dell’UE era stato Mario Draghi oltre un anno fa. L’attuale Governo promette oggi di risolvere, finalmente, un vulnus che - oltre a rischiare di far scattare la temuta direttiva Bolkestein - costa all’erario diverse migliaia di milioni di mancati introiti legati, appunto, ai costi delle concessioni.

Cosa c’entra la Direttiva Bolkestein

Intanto per capire la posizione nella quale si trova attualmente l’Italia bisogna ribadire che cosa è la Direttiva Bolkestein, lo norma che che dal 2006 a oggi non smette di far discutere. Detta anche ‘direttiva servizi’ ha l’obiettivo di eliminare gli ostacoli alla libertà – recita il testo- “di stabilimento dei prestatori negli Stati e alla libera circolazione dei servizi tra Stati nonché garantire ai destinatari e ai prestatori la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due libertà”.

In teoria si tratta di un provvedimento che vorrebbe semplificare e sburocratizzare alcuni meccanismi di prestazione di servizi nazionali a favore di una maggiore trasparenza della macchina europea. In pratica spesso è stata oggetto di polemica in quanto finirebbe per mettere in secondo piano la sovranità nazionale a favore di un extra-controllo di Bruxelles su questioni che, però, non avrebbero impatto in termini transfrontalieri.

In base alla direttiva, quindi, le licenze che sono proprietà dello Stato devono essere concesse in base a una procedura di selezione tra i candidati potenziali. Ed ecco che si torna al punto di partenza, ovvero l’anomalia italiana nel rinnovo automatico delle concessioni visto che dal 2006 è esplicitamente vietato.

Un passo indietro

Con una legge del 2018, il primo governo Conte ha previsto una proroga delle concessioni fino al 31 dicembre 2033, dopo che l’Italia era già stata condannata dalla Corte di giustizia per il mancato rispetto della direttiva. Cosa che ha fatto aprire una nuova procedura di infrazione da parte della Commissione europea.

Nel 2021, poi è intervenuto il Consiglio di Stato, che ha ribadito la superiorità delle norme comunitarie in materia su quelle nazionali, specificando come, a partire dal 2024, tutte le concessioni demaniali dovranno considerarsi prive di effetto ed essere sottoposte a gara.

Nel frattempo però, il comune di Ginosa, forte della legge del 2018, ha prorogato tutte le concessioni del suo territorio nel 2020, facendo così intervenire l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato per garantire il rispetto delle norme europee. Il caso, che ha coinvolto più di venti stabilimenti balneari e il comune di Ginosa, è arrivato alla Corte di giustizia che, il 20 aprile del 2023, ha confermato l’illegittimità della direttiva.

Cosa succede adesso

E ora l’Italia ancora una volta è messa di fronte alle sue responsabilità come membro dell’UE. “Si farà la mappatura e le cose che si devono fare, peraltro alcune Regioni sono più avanti, altre più indietro. Ma con equilibrio”, ha spiegato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, mentre il ministro dei Trasporti Salvini ha commentato che la sentenza è un “grande successo dell’Italia”, spiegando che “la nuova mappatura delle spiagge sarà fatta dal Mit e come sempre verranno utilizzati criteri di buonsenso”. Questo perché la sentenza prevede delle “eccezioni” alla rigida applicazione della norma in caso di “scarsità di concessioni” e “risorse disponibili” e quindi il duro lavoro che spetta all’Italia andrà valutato caso per caso.

L’aspetto positivo è che dopo tanti anni si porrà fine a un automatismo dei rinnovi che ha bloccato il ricambio del mercato con stabilimenti che si trasmettono di generazione in generazione senza migliorie e senza stimoli in termini di servizi e competitività.

Legambiente sottolinea che “in Italia ancora non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione e, di conseguenza, in tante realtà le spiagge libere restano un miraggio. Dal 2016 al 2020, lo Stato italiano ha incassato meno di cento milioni di euro per anno per le concessioni balneari. Serve – sottolinea l’associazione ambientalista - una mappatura rapida delle concessioni balneari e in generale di quelle sul Demanio marittimo; un adeguamento dei canoni, attualmente per buona parte irrisori e una armonizzazione delle normative regionali per aumentare le spiagge libere”.

Il nodo canoni

Da anni i canoni per le sole concessioni balneari richiesti dallo stato sono, infatti, bassissimi, pari a solo 55 milioni l’anno per un settore che ha un fatturato di circa 15 miliardi di euro annuo. E oltre a essere bassi, i canoni vengono spesso non pagati, dato che, nell’ultimo anno, su 55 milioni richiesti, i gestori hanno versato solo 43,4 milioni, con un tasso di morosità del 20,3% e danni erariali ingenti.

Le associazioni di settore, però, sono preoccupate e, pur nella consapevolezza dell’anomalia italiana, chiedono che i parametri di partecipazione ai bandi siano oggettivamente conseguibili e che non puntino a standard irreali e irraggiungibili per un settore ancora in difficoltà dal post pandemia.

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Barbara Massaro