Il mito Kennedy, l'eroe Lyndon Johnson
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Il mito Kennedy, l'eroe Lyndon Johnson

Il grande innovatore fu il suo successore ma non era fotogenico né amato nei salotti di sinistra. Lo speciale

 

C’è un’estetica della storia che crea i propri miti, che trasforma le favole individuali, ricche di fascino ma non prive di crudeltà, in paradigmi di una nazione. A volte, di un mondo. Questo fu ed è John Fitzgerald Kennedy. Ma i fatti scorrono sottotraccia e raccontano una storia diversa, rispetto alla quale noi restiamo ciechi perché abbagliati dalla bellezza esemplare del Mito di Camelot. E questa storia sottotraccia dovrebbe promuovere agli onori della Storia con la S maiuscola non i tre anni di presidenza di JFK, ma la successiva presidenza di LBJ, Lyndon Baines Johnson.

Fa parte ormai della mitologia di JFK anche la fotografia di LBJ che alza il braccio destro e giura come nuovo presidente degli Stati Uniti sull’aereo presidenziale (accanto a Jacqueline Kennedy con i vestiti ancora macchiati di sangue), la sinistra su un messale cattolico recuperato in tutta fretta nella scrivania di John appena ucciso a Dallas, in mancanza di una Bibbia. La differenza tra i due presidenti sta qui, nel confronto tra il flusso infinito di istantanee dorate, meravigliose, epiche, telegeniche di JFK destinato dal padre Joseph a diventare “il Presidente”, e l’ufficialità austera e tragica di quelle di LBJ.

Joseph, il padre di John, era sbarcato in terra americana nel 1840. Coronò il sogno di un’intera schiatta di emigranti irlandesi squattrinati e testardi (consiglio a tutti di andare a vedere la fattoria del bisnonno di JFK a New Ross, sperduta nella campagna dell’Irlanda meridionale battuta dalle piogge) grazie a una fortuna accumulata col traffico d’alcol negli anni dell’anti-proibizionismo. Ogni Camelot ha il suo lato oscuro (e qualche sospetto addentellato mafioso). Ma Joseph aveva poi sposato Rose, figlia del potente sindaco democratico di Boston, John F. Fitgerald. Una storia di formidabile arrivismo. Una saga che produrrà nove figli e una sequela di tragedie personali, ma anche lo sboccio del Mito. JFK. Un prodotto della Famiglia, ma soprattutto la proiezione del sogno americano. Il sogno della forza unita alla bellezza. Una storia del New England che trae luce anche dalle tenebre di una realtà diversa da quella sapientemente raccontata. Una realtà che comprende i tradimenti di John, il suicidio di Marylin, le piccole grandi bugie che sempre accompagnano la costruzione del Mito.

Il punto è che quando John fu ucciso a Dallas, il 22 novembre 2013, il bilancio del suo mandato era già fallimentare su tutti i fronti, interno e internazionale. Il suo discorso sulla “Nuova Frontiera” era lettera morta, i diritti dei neri non avevano fatto un passo avanti concreto per i dubbi e la timidezza di JFK che temeva la perdita di consenso nel Sud. In più, era ripartita la corsa agli armamenti, la crisi vietnamita si era trasformata in un confronto militare, la gestione della crisi cubana aveva portato a un passo dalla Terza Guerra Mondiale. Con Kennedy alla Casa Bianca i democratici avevano perso le elezioni di medio termine. La sua morte a Dallas cancellò le ombre di Camelot, facendo risaltare nel martirio solo le luci.

Il vero eroe fu invece LBJ. Lyndon B. Johnson. Che non era nato nel New England, che non era erede di banchieri e osannato dalle riviste patinate e dalla sinistra intellettuale. Era nato invece a Stonewall, Texas, da famiglia contadina. S’era dato alla politica dopo aver fatto più lavori, dall’operaio al custode fino a lavare i pavimenti. Ma fu lui, non JFK, a lanciare la sfida decisiva al razzismo dominante soprattutto negli Stati del Sud, che erano oltretutto il suo bacino elettorale. La sua idea di “Great Society” realizzò l’evanescenza retorica della “Nuova Frontiera” di Kennedy. Fu Johnson a dichiarare “guerra alla povertà”. E fu lui a fare la storia degli Stati Uniti firmando la legge sui diritti civili sapendo già di non potersi ricandidare nella successiva tornata presidenziale nella quale Bob Kennedy sarebbe stato assassinato e Richard Nixon eletto Presidente. La leggenda vuole che quando firmò il Civil Rights Act, il 2 luglio 1964, LBJ abbia confidato a un assistente: “Abbiamo perso il Sud per una generazione”. Ma Johnson fece anche di più. Nominò Thurgood Marshall primo giudice afro-americano della Corte Suprema.

La grigia figura dello stakanovista, idealista, self-made-man, coraggioso Johnson non avrà mai lo stesso fascino per gli americani e per tutti noi della favola triste e bella, appassionante e suggestiva del ricco rampollo cattolico-irlandese del New England JFK. Ma è giusto ricordarsene, a proposito dei fasti illusori di Camelot e della tragedia di Kennedy-Artù. Perché anche quella di LBJ è una storia. Un’altra Storia.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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