Auto, l’importante è viaggiare in compagnia
Economia

Auto, l’importante è viaggiare in compagnia

Fiat-Chrysler è solo l’ultimo caso: intese produttive e finanziarie sono l’unica via per restare sul mercato

Il passaggio alla Fiat del 41,5 per cento della Chrysler che ancora le mancava corona con successo la campagna americana iniziata dal gruppo torinese nel 2009 e stringe ancor di più i bulloni di un’integrazione che ha un grande significato industriale, oltre che finanziario. La strada delle alleanze continua a essere percorsa da tutti i costruttori, tanto che oggi è impossibile dire che cosa si nasconde sotto il cofano della vostra auto, se un motore francese è rivisto dai tedeschi o un sistema di trasmissioni giapponese ha un cambio automatico coreano. Ormai non c’è nessuna tra le maggiori case automobilistiche mondiali che non abbia stretto una forma di alleanza con uno o più concorrenti.

Qui accanto sono riprodotte le alleanze azionarie e le joint venture tra i primi 21 gruppi delle quattro ruote. Un reticolo impressionante, che rende le nostre auto, al di là delle apparenze, sempre più simili una all’altra. La ragione è semplice: sviluppare una nuova vettura costa più di 2 miliardi di euro, costruire una fabbrica da zero ne richiede quasi la metà. Quindi ha molto più senso unire le forze e condividere know-how. L’ultimo esempio: l’accordo tra la Renault e la Daimler con relativo scambio di quote azionarie (ai tedeschi il 3 per cento della casa francese, a quest’ultima il 2 per cento della mamma della Mercedes). Grazie all’intesa i due gruppi produrranno insieme camion, auto e motori, abbassando i costi.

Ma non tutti i matrimoni funzionano e le strade dell’auto sono lastricate di divorzi, dalla rottura tra Daimler e Chrysler a quella tra la Fiat e la General Motors fino alla recentissima e improvvisa separazione tra la stessa Gm e la Psa (Peugeot). Ad appena un anno dall’ingresso nel capitale del gruppo francese con una quota del 7 per cento e un investimento di 400 milioni di dollari, la Gm ha deciso di vendere le azioni accettando una minusvalenza di circa un centinaio di milioni di dollari. Una fuga provocata da almeno tre ragioni: risparmi minori del previsto (1,2 miliardi di dollari entro il 2018 invece di 2 miliardi), un peggioramento della situazione finanziaria della Psa (nel 2012 ha bruciato cassa per 2,5 miliardi di euro e ha chiuso il bilancio con una perdita di 5 miliardi) e soprattutto il rischio per gli americani di diventare soci di una società dove comandano i cinesi. Già, perché la Psa ha un disperato bisogno di soldi e sta trattando con la Dongfeng, storico partner in Cina, per un’iniezione di capitali freschi. Il risultato sarebbe l’ingresso dei cinesi con una quota del 25-30 per cento. Sarebbe un’ulteriore conferma che oggi tutte le strade portano in Oriente.

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Redazione