Abe
(Ansa)
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L'assassino di Abe visto dalla profiler

Chi è e perché Tetsuya Yamagami ha ucciso l'ex premier giapponese

L’8 luglio, durante un comizio, è stato ucciso Shinzo Abe, ex premier giapponese. L’assassino è Tetsuya Yamagami, di 41 anni, nato e vissuto a Nara, dove ha conseguito il diploma liceale. Sino al 2005 è stato membro dell’autodifesa marittima della Japan Self-Defense, la Jietai, nella regione di Hiroshima e dalla quale si è congedato per iniziare a lavorare in un’azienda nel Kanasai. Nella primavera del 2022 ha lasciato il lavoro a seguito di eccessiva prostrazione. Yamagami sarebbe stato appartenente al gruppo ultranzionalista Nippon Kaigi. Dopo l’arresto l’omicida avrebbe affermato di non aver sparato per motivi politici, ma di aver agito per risentimento nei confronti di una specifica organizzazione collegata all’ex premier, di cui la madre sarebbe parte e ove la stessa avrebbe perso molto denaro. Al comizio Yamagami sarebbe giunto in treno. Il killer avrebbe dichiarato di sentirsi frustato e insoddisfatto e di aver mirato a Shinzo Abe per ucciderlo.

In Giappone le armi da fuoco sono presenti in numero esiguo e la regolamentazione è chiara e precisa: possono essere acquistati solamente fucili ad aria compressa utilizzati tendenzialmente ad uso sportivo o per caccia. La vendita di semiautomatiche e di pistole è vietata, quest’ultime sono di esclusiva dotazione alle forze dell’ordine. Essendo vietate le armi da fuoco a funzionamento moderno il killer ha fabbricato la propria arma con materiali di risulta, utilizzando al posto della pietra focaia materiali elettrici. Giulio Tatoni, dottore in Scienze Strategiche, ha analizzato la pistola artigianale costruita dall’omicida e la dinamica dell’evento.

“L’arma utilizzata da Yamagami risulta estremamente rudimentale, ma di sufficiente efficacia. La pistola fatta in casa è composta da due tubi in metallo con dei tappi avvitati sul fondo, che costituiscono i due “tubi di lancio” dell’arma (al cui interno è stata posizionata la carica di lancio e il proiettile). Tali parti metalliche sono poi fissate su un castello di legno con un’impugnatura rudimentale attraverso fascette e nastro adesivo. Il sistema di innesco è composto da un circuito elettrico alimentato da alcune batterie al litio, posizionate al di sotto del blocco di legno che compone il castello. Il circuito, dunque, si collega dalle batterie alla zona posteriore della doppia canna (probabilmente, si tratta di due circuiti distinti per ciascun tubo di lancio). A chiudere i circuiti, sono presenti degli interruttori elettrici al posto del grilletto della pistola artigianale. Una volta chiuso il circuito, viene emanato un impulso elettrico che causa l’innesco delle cariche di lancio che deflagrano lanciando il proiettile al di fuori della canna. Seppur di funzionamento rudimentale, per fabbricare e soprattutto utilizzare efficacemente un’arma del genere, occorre una buona conoscenza di balistica e del funzionamento dell’elettricità; senza tali rudimenti la creazione di ordigni improvvisati non sarebbe possibile. Necessaria è anche una certa pratica per poter colpire il bersaglio con un tale tipo di arma. Yamagami ha tentato di rendere quanto più efficace il suo gesto, provando a nascondere l’arma fintanto che non fosse stato vicinissimo alla vittima, rendendo la pistola artigianale velocemente utilizzabile attraverso l’uso di una cinghia, attraverso la quale portava l’arma a tracolla. Yamagami infine, ha trovato ulteriore alleato nella carente sicurezza che era stata posta attorno a Shinzo Abe, nonché nel netto ritardo nella reazione della vittima e degli agenti di sicurezza già dopo il primo sparo, che ha mancato il bersaglio. Il politico giapponese, difatti, si è voltato esterrefatto sul piccolo palco da cui parlava dopo aver udito il primo colpo, mentre gli agenti della sicurezza erano impegnati a capire cosa stesse accedendo. Al secondo sparo, Shinzo Abe, già colpito, scendeva dal palco mentre gli agenti di sicurezza fermavano l’aggressore. L’attentatore aveva due colpi a disposizione, che ha sparato a distanza ravvicinata e in rapida successione. Il primo colpo ha mancato totalmente il bersaglio, mentre il secondo ha ferito a morte la vittima. Gli agenti della sicurezza non erano preparati a un tale evento: nessuno ha pensato a mettere immediatamente al riparo Shinzo Abe, mentre la maggior parte di loro si è voltata e poi avventata sull’aggressore. Quei pochi istanti in più sul palco si sono rivelati fatali per Abe, rimasto esterrefatto assieme alla sua scorta per quel colpo d’arma da fuoco, considerato inusuale, se non incredibile in un Giappone in cui è veramente difficile acquistare e detenere armi da fuoco e che un omicidio così condotto risulta essere un elemento culturalmente non comprensibile ”.

Brasi Cristina, psicologa, criminologa e analista scientifica del linguaggio non verbale ha analizzato il profilo del killer. “L’assassinio dell’ex primo ministro giapponese rientrerebbe nel quadro dell’assasinio salvifico. La vittima sacrificale pagherebbe per gli errori della madre e, l’uccisione di Abe, nascerebbe come tentativo di sottrarre la madre da una ideologia ritenuta dal killer come dannosa. L’ex premier sarebbe così divenuto il capo espiatorio di dinamiche disfunzionali intrafamiliari, all’interno di un quadro probabilmente di depressione psicotica. Si sarebbe dinnanzi a un disturbo psichiatrico grave caratterizzato da un distacco dall’ambiente che circonda il soggetto in analisi, e da forti difficoltà a provare sentimenti autentici nei confronti delle altre persone. Vi sarebbe quindi una grave alterazione dell’equilibrio psichico dell’individuo con una compromissione dell’esame di realtà. Sarebbe presente altresì un’alterazione del flusso ideico, che avrebbe condotto alla fuga delle idee e all’incoerenza, oltre che ad una alterazione dei nessi associativi. Tali sintomi avrebbero portato a un deragliamento del pensiero. I disturbi non sarebbero però solo quelli formali del pensiero, ma anche di contenuto del medesimo, andando a dare forma al contenuto delirante. Il funzionamento tenderebbe ad essere sospettoso dando luogo ad una compromissione rilevante del comportamento. L’ideazione paranoide sarebbe quella di dolore e di rovina universale che avrebbe fatto scegliere un capro espiatorio rispetto alle condotte materne. Vi sarebbero difficoltà a distinguere la realtà oggettiva dalle proprie sensazioni, sospettosità, sfiducia e timore nei confronti degli altri, iperviglianza e iperattivazione che porterebbero il soggetto a vivere in un costante stato di allarme fisico e mentale, incapacità di porsi nella prospettiva altrui, umore irritabile, arrabbiato e/o depresso e probabile isolamento sociale come conseguenza del pensiero paranoico”.



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Cristina Brasi