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(Ansa)
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Israele entra a Gaza: è l'ora della verità per il Medio Oriente

Come dimostrano le dichiarazioni dei protagonisti e dell'intero mondo arabo quella che si combatterà nella Striscia non è uns semplice questione tra Palestinesi ed Israeliani

Una premessa inevitabile. Il diritto internazionale in sé e per sé non regola la vita degli Stati e non determina o risolve crisi e guerre. E questo perché si basa esclusivamente su due regole auree: pacta sunt servanda e sic stantibus rebus.

I patti, ovvero le regole e gli accordi internazionali, sono sì fatti «per essere mantenuti» ma spesso accade che le cose cambino improvvisamente. A Gaza dal 2016 a oggi reggeva una sorta di tregua armata in forza di un cessate il fuoco che aveva semplicemente cristallizzato la situazione. Quel patto di non belligeranza è stato mantenuto (più o meno) fino al 7 ottobre 2023, quando come noto Hamas ha invaso Israele con un attacco terroristico a scopo dimostrativo senza precedenti. L’offensiva, denominata «Operazione alluvione Al-Aqsa», cadeva nel giorno del cinquantesimo anniversario dello scoppio della guerra arabo-israeliana del 1973. Non certo un caso. Segno evidente di dove si voleva arrivare.

Il «bottino di guerra» di Hamas è stato anzitutto in termini di vittime, oltre 1.200 civili israeliani, e di ostaggi, circa duecento. Ma soprattutto è stato mediatico, e ha da subito spaccato in due l’opinione pubblica mondiale tra i sostenitori della causa palestinese e i difensori di Israele. I primi, invocando il diritto internazionale, chiedono che Israele non invada la Striscia di Gaza; i secondi, invece, ritengono di aver diritto alla difesa e alla restituzione degli ostaggi.

Mentre Hamas inneggia alla Guerra Santa e la sua «armata di Erode» si mostra fiera con i neonati israeliani rapiti (tenuti in braccio insieme ai kalashnikov come fossero trofei di guerra), il popolo palestinese che li ha votati è costretto a una fuga precipitosa per evitare di restare intrappolato nello scontro tra Israele e Hamas.

Dall’altro lato, lo shock del popolo israeliano è tale che il rischio di compiere scelte sbagliate in un momento cruciale per la sopravvivenza stessa del suo popolo è altissimo. Al tempo stesso, però, è sulla reazione israeliana che si giocano il futuro del Paese e della pace in Medio Oriente.

I fronti di guerra

Stando così le cose, nell’analizzare il futuro del conflitto non si può che partire da un dato: la guerra è inevitabile, perché è già cominciata il 7 ottobre. Come rivelato dall’ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, Gerusalemme ha in programma di «annientare le capacità terroristiche di Hamas», cosa che non sarà possibile con un blocco o con attacchi aerei. Dunque, inutile tornare a invocare un ipotetico diritto internazionale, proprio per le ragioni dette in precedenza.

Israele non ha buone opzioni a Gaza. Gli attacchi aerei in corso probabilmente non saranno visti come un ristabilimento della deterrenza o come una negazione di una vittoria importante per Hamas, né possono essere risolutivi. Neanche un blocco totale della Striscia appare sufficiente.

La linea d'azione più probabile è quindi un intervento di terra, anche se Israele ha ripetutamente cercato di evitare tali incursioni in passato. Un’invasione di questo tipo sarebbe difficile per l'esercito israeliano e devastante per i civili palestinesi. Per dare un’idea di ciò che potrebbe accadere, come scrivono gli analisti del Center for Strategic and International Studies di Washington, «l’ultima grande incursione di terra israeliana a Gaza, l’operazione Protective Edge del 2014, è durata circa due settimane ed è penetrata solo per pochi chilometri nella striscia. I combattimenti di quelle due settimane hanno causato la morte di 66 soldati israeliani, sei civili israeliani e ben oltre 2.000 palestinesi (per lo più civili, un quarto dei quali erano bambini), anche se è impossibile sapere quanti siano stati uccisi nei combattimenti a terra piuttosto che nei colpi dei razzi palestinesi o degli aerei israeliani».

Oltre a Gaza, Israele dovrà gestire la contemporanea pressione al confine settentrionale con il Libano e la Siria, dove Hezbollah sembra già mettere alla prova i limiti di Israele nell’area; e nella Cisgiordania, dove piccoli o grandi disordini dovranno essere gestiti da forze che non potranno quindi essere impiegate altrove. «Israele ha già condotto una grande operazione di terra in Cisgiordania quest’anno, una grande incursione nel campo profughi di Jenin, e potrebbe sentirsi costretto a intervenire di nuovo se l'Autorità palestinese non è in grado di limitare i disordini» stima il Csis. Bisogna qui capire se l’Autorità Palestinese di Abu Mazen, «presidente della Palestina» ma di fatto governatore soltanto della West Bank, si salderà con i rivali di Hamas o sceglierà la desistenza e l’attesa.

Se invece Israele entrerà in forze a Gaza, si troverà di fronte a una decisione epocale: lasciare intatto e sotto controllo un Hamas indebolito o rovesciare la sua amministrazione de facto. Nessuna delle due opzioni è allettante: «Se Hamas sopravvive, rivendicherà un trionfo strategico su Israele. Se viene rovesciato, non esiste una forza palestinese moderata che possa sostituirlo. L'Autorità palestinese non ha un sostegno politico significativo tra i palestinesi e ha fatto ricorso a una brutale repressione in Cisgiordania in assenza di legittimità politica».

Senza un sostituto pronto per Hamas, Israele avrà poca scelta se non quella di assumere il controllo diretto di Gaza: «Il che probabilmente esacerberà la militanza palestinese, approfondirà le divisioni all'interno della società israeliana e impegnerà le sue risorse militari ed economiche in una campagna di contro-insurrezione a tempo indeterminato». È questo il piano? Dice un proverbio arabo che quando c’è una mèta, anche il deserto diventa strada.

Il disegno geopolitico

Alla luce dei fatti, tutto sembra indicare l’inizio di un conflitto prolungato, che sul fronte geopolitico può diventare una svolta epocale. Specie se, come prevedibile, in ragione del sangue versato a Gaza: le relazioni regionali esistenti a livello di singoli Stati saranno interrotte; i progressi verso una più ampia normalizzazione arabo-israeliana congelati; e ancora, se il conflitto si metastatizzerà in tutta la regione e oltre, sfociando in una guerra su più fronti e con attori esterni coinvolti.

Gli accordi di Abramo, che prevedono il riconoscimento formale della sovranità di Israele da parte dei più importanti Paesi Arabi, saranno la prima vittima di questa guerra e probabilmente sono anche la ragione per la quale è scoppiato il conflitto: se li firmasse l’Arabia Saudita, il destino della Jihad Islamica contro Israele sarebbe inevitabilmente segnato. Ma tutto è subordinato alla vittoria o meno di Israele.

Una cosa è chiara, a ogni buon conto: il Medio Oriente è tornato prepotentemente all’ordine del giorno anche per l’Occidente. Il che significa che chiama in causa direttamente anche Europa e America. Come ben suggerito Lucy Kurtzer-Ellenbogen dello US Institute of peace, «ogni idea che la regione possa essere relegata a una priorità secondaria per gli interessi degli Stati Uniti in materia di pace e sicurezza - o che il conflitto israelo-palestinese possa essere “gestito” o aggirato piuttosto che tenuto in considerazione nel perseguimento della stabilità regionale - è stata sfatata».

Dunque, questa guerra è centrale per stabilire i rapporti di forza e le alleanze regionali del prossimo futuro. Con la grande incognita della guerra stessa, però. Perché Hamas potrà anche essere sconfitto, come lo è stato l’Isis, ma questa guerra potrebbe non finire con la stessa modalità. Perché se è vero che la possono concludere solo i diretti interessati, Israele e Palestina, in realtà ormai quasi non dipende già più da loro.

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Luciano Tirinnanzi