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(Ansa)
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Il Guardian: «Putin aiutò Trump», lo scoop al contrario

Uno scoop del Guardian sostiene che la Russia avrebbe condotto operazioni per aiutare Trump definito uno stupido, a conquistare la Casa Bianca nel 2016. Ma è bene essere prudenti

Russiagate: ci risiamo? Il Guardian ha rivelato di essere entrato in possesso di documenti riservati del governo russo. Documenti, secondo cui Vladimir Putin avrebbe autorizzato un'operazione spionistica a sostegno della candidatura presidenziale di Donald Trump nel 2016. In particolare, secondo la testata britannica, il leader russo avrebbe voluto aiutare il magnate newyorchese – nel documento definito "mentalmente instabile" – con la finalità di "garantire gli obiettivi strategici di Mosca, tra cui il 'tumulto sociale' negli Stati Uniti e un indebolimento della posizione negoziale del presidente americano". Insomma, sembrerebbe tornare in auge l'ipotesi dello spettro russo, che avrebbe consentito a Trump di arrivare alla Casa Bianca nel novembre del 2016. Tuttavia, pur prendendo atto di questo scoop, è bene forse fare qualche considerazione, perché – almeno allo stato attuale – non tutto sembra chiarissimo.

In primo luogo, lo stesso Guardian riconosce che una simile fuga di notizie da parte del governo russo sia "insolita". La testata sostiene inoltre di aver "mostrato i documenti a esperti indipendenti che affermano che sembrano autentici. I dettagli incidentali risultano accurati. Si dice che il tono generale e il succo siano coerenti con il pensiero sulla sicurezza del Cremlino". Ora, è indubbiamente vero che, in caso si trattasse di materiale autentico, possa essere stato fatto trapelare magari nel contesto di uno scontro interno ai vertici russi. Tuttavia, dall'altra parte, lo stesso Guardian sostiene che tale materiale "sembri" autentico, mentre non è al momento dato sapere se, oltre a considerazioni sul contenuto, tale autenticità possa essere suffragata anche da ulteriori elementi.

Un secondo fattore da considerare è la stranezza della tempistica. La testata sostiene che Putin avrebbe dato l'ordine durante una riunione del 22 gennaio 2016: "a quel punto", chiosa il Guardian, "Trump era il favorito nella corsa alla nomination del Partito Repubblicano". In realtà non è che le cose stessero esattamente così. Per capirlo, dobbiamo tornare al contesto e alla temperie di quei giorni. Il 22 gennaio 2016 non erano ancora iniziate le primarie repubblicane. E' pur vero che, a livello sondaggistico, Trump fosse all'epoca dato al primo posto a livello nazionale. Tuttavia non era ancora affatto il candidato inevitabile. E questo per due ragioni. Innanzitutto perché, nel passato, si erano già registrati casi di candidati molto forti nei sondaggi prima dell'inizio delle primarie, che si erano successivamente sciolti come neve al sole (si pensi a Howard Dean alle primarie dem del 2004): la forza sondaggistica di Trump in quel periodo non implicava quindi ancora un suo successo ineluttabile.

Inoltre, scendendo più nel dettaglio, a metà gennaio 2016 Trump stava iniziando ad incontrare delle difficoltà sondaggistiche in alcuni Stati chiave: tant'è che proprio in occasione del caucus dell'Iowa – con cui si aprirono ufficialmente le primarie repubblicane il primo febbraio 2016 – il magnate newyorchese finì per arrivare secondo, dietro il senatore Ted Cruz. La situazione per Trump ha iniziato a mutare concretamente dalle primarie del New Hampshire, in cui stravinse, ma che si tennero soltanto il 9 febbraio. E' quindi solo dal 9 febbraio 2016 che iniziò ad essere considerato un serio contender per la nomination repubblicana. E questo, nonostante i giochi – subito dopo il New Hampshire – non fossero ancora fatti: Trump avrebbe blindato matematicamente la nomination solo nel maggio del 2016. Tra l'altro, un conto era la conquista della nomination repubblicana, altro conto era la vittoria presidenziale. Ricordiamo, a questo proposito, che gran parte degli analisti avrebbe dato per mesi come scontato il trionfo di Hillary Clinton. In virtù di tutto questo, è un po' strano ritenere che, già il 22 gennaio, il Cremlino ritenesse Trump un cavallo (anche solo potenzialmente) vincente.

Un terzo fattore da considerare è che, nei documenti citati dal Guardian, si faccia riferimento al fatto che i russi avessero "materiale compromettente" su Trump: materiale raccolto in occasione di sue visite non ufficiali a Mosca. E' abbastanza chiaro che il riferimento sia alle presunte condotte sessuali scabrose che si sarebbero consumate alcuni anni prima nell'hotel Ritz Carlton di Mosca: condotte di cui parlava il controverso Dossier di Steele (un documento che fu usato per sostenere che il magnate newyorchese risultasse sotto ricatto dei russi). Tuttavia bisogna procedere con i piedi di piombo. L'anno scorso, fu infatti pubblicato l'interrogatorio a cui, nel 2017, l'Fbi sottopose una delle principali fonti dello stesso Steele: ebbene, in riferimento alla questione specifica delle condotte sessuali scabrose, l'interrogato sostenne che quelle informazioni si basassero su "voci e speculazioni" e che Steele non fosse stato in grado di confermare la cosa. Questo poi non vuol dire che allora quegli eventi non si siano necessariamente verificati. Ma è bene essere molto prudenti.

Ulteriore elemento da considerare è il fatto che, anche qualora il materiale del Guardian si rivelasse inoppugnabilmente e integralmente autentico, non si parla di "collusione": ricordiamo infatti che, per tre anni, il Partito Democratico americano abbia delegittimato la vittoria elettorale di Trump, sostenendo che il suo team si fosse coordinato con i russi per conquistare la Casa Bianca. Un'accusa che è stata smentita dal rapporto del procuratore generale per il caso Russiagate, Robert Mueller. Costui ha, sì, confermato che Mosca abbia interferito nel processo elettorale americano del 2016 attraverso WikiLeaks e attività sui social network contro Hillary Clinton. Ma ha al contempo chiarito che "l'indagine non abbia stabilito che i membri della campagna di Trump abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle sue attività di interferenza elettorale". Più in generale, come sostenuto da un'analisi del politologo Brendan Nyhan pubblicata nel febbraio del 2019, la fake news sul web hanno avuto - nella campagna elettorale americana del 2016 - un peso modesto nello spostamento di voti: più che convincere a cambiare la preferenza nel voto, esse hanno semmai contribuito a rafforzare le opinioni pregresse di determinati elettori. Quindi, più che favorire un candidato, hanno semmai contribuito a polarizzare il clima politico. Ed è verosimile che proprio l'incremento di tale polarizzazione sia stato l'intento effettivo di Mosca con le sue azioni social.

Infine, ci sia concessa una considerazione più generale. Trump è arrivato alla Casa Bianca nel novembre del 2016. Ebbene, nei suoi quattro anni di presidenza, le relazioni oggettive tra Washington e Mosca sono realmente migliorate? La risposta a questa domanda è in larga parte negativa. Indubbiamente l'allora presidente repubblicano era in sintonia personale con Putin ed è vero che fosse anche favorevole ad una distensione con Mosca. Ciò detto, questo non ha prodotto un notevole miglioramento nel rapporto tra i due Paesi. Nell'agosto del 2017 si consumò una crisi diplomatica molto grave sulla questione del consolato russo di San Francisco, mentre – nel dicembre 2019 – Trump comminò delle sanzioni contro le aziende coinvolte nella realizzazione del gasdotto Nord Stream 2: un progetto a cui Russia e Germania tengono da sempre in modo particolare. In tutto questo, nel 2018, gli Stati Uniti hanno anche imposto sanzioni contro Mosca sulla questione delle interferenze elettorali. Infine, vale la pena ricordare che – tra il 2018 e il 2021 – il Dipartimento di Stato americano sia stato guidato da Mike Pompeo: un profilo politico non certo sospettabile di eccessiva simpatia nei confronti di Putin.

Insomma, i rapporti tra America e Russia non sono stati esattamente idilliaci durante i quattro anni di Trump: un Trump che è quindi sbagliato bollare semplicisticamente come "filorusso". Se è vero che l'allora presidente repubblicano volesse collaborare con Mosca in Medio Oriente e in funzione anticinese, è altrettanto vero – anche in forza di pressioni provenienti dall'establishment statunitense – Trump non abbia intavolato una distensione basata su delle cambiali in bianco. La situazione, come si vede, è spesso più complessa di come talvolta viene dipinta.

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Stefano Graziosi