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La sfida della Florida alla Silicon Valley e ai social

I repubblicani hanno approvato una legge in Florida contro la censura delle piattaforme social. Ma i colossi del web non ci stanno e incassano l'appoggio dei democratici

La questione della libertà di espressione – soprattutto se connessa alle piattaforme social – è diventata da tempo uno dei principali cavalli di battaglia del Partito repubblicano americano. Un argomento che si è reso tanto più urgente a seguito della decisione, da parte di Facebook, Youtube e Twitter, di bloccare il profilo dell'ex presidente statunitense, Donald Trump. E' quindi in questo quadro che, a fine maggio, il governatore repubblicano della Florida, Ron DeSantis, ha siglato una legge volta ad affrontare questo problema. Nel dettaglio, tale norma proibisce alle piattaforme di bloccare o sospendere i profili di candidati politici nello Stato e prevede, in caso, delle multe piuttosto salate. Inoltre, secondo l'Herald Tribune, prescrive che la piattaforma comunichi all'utente il rischio censura con almeno sette giorni di preavviso e offre la possibilità ai cittadini di fare causa contro i colossi del web per il de-platforming. Si tratta del primo provvedimento di questo genere approvato oltreatlantico, anche se – come sottolineato dal sito della Cnn – altri Stati starebbero lavorando a disegni di legge similari (in particolare Arkansas, Kentucky, Oklahoma e Utah).

La polemica politica è tuttavia subito esplosa. A capo della "rivolta" si è posto in particolare il senatore democratico dell'Oregon, Ron Wyden, che ha tuonato: "Le persone desiderose di eliminare le protezioni fondamentali del Primo emendamento per la libertà di parola devono ricordare che le conseguenze non avranno solo un impatto sui contenuti che non amano, ma si applicheranno a tutto. Il controllo governativo del discorso on, o off-line, sarà inevitabilmente abusato da chi detiene il potere, come evidenziato chiaramente dai legislatori statali repubblicani in patria e dai governi all'estero come l'India e la Cina che stanno già censurando i critici". Cause legali, già alla fine di maggio, sono inoltre state intentate. In particolare, ha riferito l'Associated Press, a muoversi con particolare celerità sono state "NetChoice, una società di lobbying che rappresenta Twitter, Facebook e altre società online, e la Computer and Communications Industry Association". L'accusa, nuovamente, è quella di violazione del Primo emendamento. Del resto, proprio il vicepresidente di NetChoice, Carl Szabo, aveva dichiarato che "il primo emendamento vieta al governo di imporre o controllare il discorso sui siti web privati".

Ora, che la norma del Sunshine State abbia alcuni aspetti problematici è senz'altro vero. In particolare, ha, per così dire, salvaguardato Disney e le sue app, anche in un'ottica di tutela del parco a tema di Orlando (in Florida). Tuttavia la questione merita di essere trattata più a fondo. In primis, invocare la protezione per i "siti web privati" regge fino a un certo punto: le grandi piattaforme svolgono ormai un ruolo pubblico innegabile e ulteriormente sancito dall'ultima campagna elettorale per le presidenziali americane. Ostinarsi a trattarle come "soggetti privati" qualunque non ha quindi troppo senso, proprio perché si è constatato il peso della loro influenza politico-elettorale. In secondo luogo, il rischio di "controllo governativo" di cui poi parla Wyden presuppone che i colossi tecnologici agiscano oggi come entità completamente autonome e libere, soprattutto sul versante dell'affiliazione partitica. Peccato che non sia così. I legami tra alcuni colossi della Silicon Valley e il Partito democratico americano sono infatti conclamati. Lo scorso novembre, Joe Biden ha incluso vari ex dirigenti di Facebook nel proprio team di transizione presidenziale, mentre sono note le strette connessioni che intercorrono tra il vicepresidente americano, Kamala Harris, e la direttrice operativa della stessa Facebook, Sheryl Sandberg. Inoltre, secondo quanto riferito dal sito Open Secrets, i finanziamenti per il ciclo elettorale 2020 provenienti dall'area dei big del web sono andati a schiacciante maggioranza in favore dell'asinello.

Del resto, proprio Wyden fu colui che redasse la famosa sezione 230 del Communications Decency Act del 1996: il dispositivo, cioè, che esonera di fatto le piattaforme social dal sobbarcarsi gli oneri spettanti agli editori. Un dispositivo di cui Trump ha invocato più volte l'abolizione e che lo stesso Wyden di contro difese un anno fa con un editoriale sul sito della Cnn, in cui sosteneva che quello strumento fosse necessario per la libertà di espressione. Non si capisce tuttavia che cosa c'entri la libertà di espressione con colossi che, attraverso regole opache e insindacabili, censurano politici dello schieramento avverso a quello con cui essi stessi intrattengono legami. Di questo cortocircuito Wyden si occuperà?

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Stefano Graziosi