corte suprema
(Ansa)
Dal Mondo

La Corte Suprema Usa ha abolito l'affirmative action

La maggioranza dei togati ha di fatto cassato la pratica di considerare l'etnia come un fattore da tener presente nell'ammissione degli studenti all'università

Schiaffo della Corte suprema americana all’amministrazione Biden. La maggioranza dei togati ha stabilito ieri de facto di abolire la cosiddetta “affirmative action”: la pratica, cioè, di considerare l’etnia un fattore di cui tener conto nell’ammissione degli studenti all’università. La decisione è nata in risposta a un doppio ricorso, intentato dall’organizzazione Students for Fair Admissions, contro Harvard e l’Università del North Carolina, a cui è stata contestata l’adozione di questo metodo di selezione. Ad esprimersi contro l’“affirmative action” sono stati i sei giudici di nomina repubblicana, mentre quelli di designazione dem l’hanno difesa.

In sostanza, la sentenza stabilisce che tale pratica viola la clausola di eguale protezione davanti alla legge, stabilita dal Quattordicesimo emendamento. “I programmi di ammissione di Harvard e dell’Università del North Carolina non possono conciliarsi con le garanzie della clausola di eguale protezione davanti alla legge. Entrambi i programmi mancano di obiettivi sufficientemente mirati e misurabili che garantiscano l'uso della razza, utilizzano inevitabilmente la razza in modo negativo, implicano stereotipi razziali e mancano di una scadenza significativa. Non abbiamo mai permesso ai programmi di ammissione di funzionare in questo modo e non lo faremo oggi”, recita la sentenza. “Nulla vieta alle università di prendere in considerazione la discussione di un candidato su come la razza abbia influenzato la vita del candidato stesso, a condizione che tale discussione sia concretamente legata a una qualità del carattere o a un'abilità unica che il particolare candidato può apportare all'università”, continua la sentenza, per poi sottolineare: “Lo studente deve essere trattato in base alle sue esperienze come individuo, non in base alla razza”. Dall’altra parte, i togati di nomina dem hanno dissentito, sostenendo che questa sentenza rappresenterebbe un regresso storico.

Ricordiamo che i sostenitori dell’“affirmative action” hanno sempre affermato che tale pratica considerasse l’etnia soltanto come uno dei fattori di cui tener conto nel corso del processo di ammissione e che fosse necessaria per incrementare la "diversity" nel corpo studentesco degli atenei. Di contro, i critici l’hanno sovente tacciata di essere una sorta di discriminazione al contrario: secondo costoro, avrebbe infatti introdotto in modo surrettizio un sistema di quote, che la stessa Corte suprema aveva dichiarato incostituzionale nel 1978. Una tesi, quella dei critici, che – come abbiamo visto – è stata in gran parte accolta dalla maggioranza dei supremi giudici. È utile inoltre sottolineare che già nove Stati avevano vietato di fatto l’“affirmative action” nel corso degli anni.

Neanche a dirlo, la politica si è divisa, anche perché l’amministrazione Biden si era schierata a favore dei due atenei nel corso del dibattimento processuale. Non a caso, Joe Biden è andato all’attacco. “Sono fortemente, fortemente in disaccordo con la decisione della Corte”, ha dichiarato. “Non possiamo lasciare che questa decisione sia l'ultima parola”, ha aggiunto. Il presidente ha poi criticato direttamente i togati. “Questa non è una Corte normale”, ha affermato. Il che suscita qualche perplessità. L’inquilino della Casa Bianca ha tutto il diritto di dissentire dalla sentenza. Non ha però il diritto di delegittimare la Corte suprema: queste sue dure parole potrebbero essere infatti lette come un’indebita intromissione del potere esecutivo in quello giudiziario. Di parere opposto a quello del presidente in carica si è invece mostrato Donald Trump, che ha accolto favorevolmente la sentenza. “Tutto tornerà basato sul merito, è così che dovrebbe essere”, ha dichiarato.

TUTTE LE NEWS DAL MONDO

I più letti

avatar-icon

Stefano Graziosi