Anthony Blinken Usa
(Ansa)
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Antony Blinken, il nuovo Segretario di Stato Usa, favorevole alle maniere forti

Biden sceglie una figura di basso rilievo ma dal passato sempre favorevole alle azioni militari e alla linea dura con la Russia

Sarà quasi certamente Antony Blinken il segretario di Stato dell'amministrazione Biden. E' quanto ha riportato domenica scorsa Bloomberg News, secondo cui il presidente eletto avrebbe già ufficiosamente effettuato la sua scelta. Si tratta di una figura che ha ricoperto vari incarichi nel corso dell'amministrazione di Barack Obama: consigliere per la sicurezza nazionale per l'allora vicepresidente Joe Biden (dal 2009 al 2013), vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti (dal 2013 al 2015) e vicesegretario di Stato (dal 2015 al 2017). Da sottolineare risultano inoltre non solo i suoi legami con la dinastia Clinton (ha infatti assunto vari ruoli ai tempi della presidenza di Bill Clinton), ma anche le strette connessioni con lo stesso Biden (prima che quest'ultimo diventasse vicepresidente, Blinken aveva infatti lavorato per la sua sfortunata campagna elettorale in vista della nomination democratica del 2008).

Le motivazioni che hanno portato il presidente eletto a puntare su questa figura possono essere molteplici. In primo luogo, è chiaro che Biden punti ad avere uno segretario di Stato con cui intrattiene storicamente saldi legami. In secondo luogo, Blinken – nonostante i suoi numerosi incarichi pregressi – è una figura poco esposta e non particolarmente nota la grande pubblico: un basso profilo che – almeno secondo i desiderata di Biden – potrebbe ottenere più facilmente la ratifica di un Senato a eventuale maggioranza repubblicana. Del resto, il nome di Blinken – che finora era circolato come papabile consigliere per la sicurezza nazionale – è indubbiamente meno controverso di quello di Susan Rice: anche lei considerata, fino a pochi giorni fa, tra i possibili profili in corsa per guidare Foggy Bottom. Il suo problema risiedeva tuttavia in una serie di polemiche che l'avevano riguardata dopo l'attacco terroristico di Bengasi, avvenuto nel 2012: elemento che ha quindi reso politicamente più debole la sua posizione. In terzo luogo, puntare su Blinken evidenzia come molto probabilmente l'amministrazione entrante auspichi una decisa virata, rispetto alla politica estera di Donald Trump. Se quest'ultimo si è infatti mosso sui binari del realismo ed aveva in tal senso evitato il più possibile coinvolgimenti militari all'estero, Blinken si colloca su posizioni ben diverse.

Definito da alcuni un "centrista", il nuovo segretario di Stato potrebbe rispolverare una linea maggiormente interventista. Come riferito da Jeffrey Goldberg nel suo celebre articolo The ObamaDoctrine (pubblicato nell'aprile del 2016 su The Atlantic), Blinken fu – nel 2011 – tra i fautori dell'intervento militare in Libia: un intervento di cui lui stesso ha comunque riconosciuto i limiti lo scorso luglio, durante un evento organizzato dall'Hudson Institute. Tutto questo, mentre nel 2014 – ai tempi della crisi della Crimea – fu tra i volti dell'amministrazione Obama che mantenne le posizioni più dure nei confronti della Russia: posizioni da lui sostanzialmente ribadite in un'intervista alla Cbs nel gennaio del 2019. Il Washington Post ha inoltre recentemente ricordato come Blinken abbia cercato di spingere lo stesso Obama verso una politica dura in Siria, mentre anche il Guardian registrava questa sua linea già nel settembre del 2013. È quindi abbastanza probabile che, almeno in parte, il nuovo responsabile di Foggy Bottom possa irrigidire i rapporti tra Washington e Mosca, con qualche conseguente fibrillazione per lo scacchiere mediorientale.

Tra l'altro, non bisogna dimenticare che, nel 2017, Blinken abbia fondato la società di consulenza strategica, WestExec Advisors, insieme a Michèle Flournoy: figura considerata da molti come probabile nuovo segretario alla Difesa. Una vicinanza, quella di Blinken alla Flournoy, molto significativa: quest'ultima è infatti un notorio falco, che ha sostenuto l'intervento bellico in Libia, invocato il cambio di regime in Siria e chiesto un approccio muscolare verso la Russia. Ragion per cui, se Biden dovesse realmente nominarla capo del Pentagono, va da sé che la politica estera statunitense cambierebbe totalmente rotta rispetto al realismo dei tempi di Trump. La riluttanza del presidente uscente nei confronti delle cosiddette "guerre senza fine" potrebbe infatti lasciare il posto a un rinnovato interventismo liberal. Con tutte le conseguenze che questo approccio rischia di comportare: a partire da un aumento dell'instabilità in Medio Oriente, senza contare una Russia sempre più vicina a Pechino. Si tratta indubbiamente di musica per le orecchie del complesso militare industriale. Ma la domanda che sorge a questo punto è: la sinistra di Bernie Sanders accetterà tutto questo?

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Stefano Graziosi