giulia cecchettin
(Ansa)
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L'ultima moda? Colpevolizzare psicologo o psichiatra per la morte di Giulia Cecchettin

Nell'analisi di quanto accaduto si sentono da un mese opinioni poco sensate che vanno in un'unica direzione: quella della deresponsabilizzazione

Come più volte ho delineato stiamo vivendo nell’epoca della deresponsabilizzazione, resa possibile anche dai meccanismi di autoinganno. Il modo migliore per autoingannarsi è mantenersi volontariamente non informati su una verità sgradita. Gli individui sono consapevoli della realtà che cercano di negare, ma creano un’apparenza che gli consente di poter fraintendere quello che sta accadendo. La simulazione pubblica ha il preciso scopo di evitare la disapprovazione sociale e, quando più persone si trovano nella stessa situazione moralmente difficile da accettare, è facile che si verifichi una simulazione collettiva.

E accade così che la colpa sia sempre di qualcun altro, sino a giungere a puntare il dito anche sulle figure che si occupano della salute mentale, come se, anziché rispondere ad una professione deontologicamente strutturata, fossero in possesso delle doti della Sibilla Cumana.

Questo meccanismo è estremamente pericoloso sotto diversi punti di vista. In primis risponde al bisogno di deresponsabilizzazione in quanto, l’addossare la responsabilità a qualcuno di ben definito risponde alla paura che si prova nel momento in cui si comprende che, la parte oscura, può essere presente in ogni individuo. Al contempo ci si deresponsabilizza per evitare la messa in discussione di sé come individui che, facenti parte della società, attraverso la messa in atto di atteggiamenti e condotte di natura individualistica e giudicante, contribuiscono al mantenimento di una struttura societaria altamente narcisistica. In secundis, in un’epoca in cui l’autoinganno collettivo assolve al proprio bisogno di approvazione, l’esigenza di riconoscimento comporta la presa di sopravvento della frustrazione. Si consideri difatti come, la società attuale, grazie all’accessibilità alle informazioni che mal si coniuga con la mancanza di pensiero critico, abbia portato alla credenza che ogni individuo sia possessore della verità assoluta e, in quanto tale, sia autorizzato a sentirsi superiore, o quanto meno migliore, rispetto agli altri. Fermamente convinti della propria individualità non ci si accorge che, in realtà, si rincorre un modello imposto, non legato alla sostanza dei contenuti, ma all’apparenza. Ed è così che si può comprendere come, la deresponsabilizzazione, risponda a un altro bisogno, quello di scaricare la rabbia prodotta da questa dicotomia, consentendo la legittimizzazione delle proprie condotte aggressive utilizzando un signor Malussène, ovvero una figura al di fuori di sé, come capro espiatorio.

È importante comprendere, soprattutto in situazioni di estrema delicatezza, come ogni agito, di qualsiasi natura, non possa prescindere dal libero arbitrio. Determinate situazioni che vedono protagonisti specifici comportamenti possono essere lette e comprese appieno solo da persone qualificate, in possesso di specifiche competenze indispensabili per decodificare gli agiti umani. Psicologia e psichiatria convivono, collaborano nel sostenere, nel trattare e, dove è possibile, nel curare, ma l’operato di un buon tecnico non potrà mai sostituirsi alla scelta e alla responsabilità individuale.

Ho chiesto così a Federico Boaron, psichiatra responsabile dell’Unità Operativa Psichiatria Forense, AUSL di Bologna, con cui collaboro da molti anni sia in ambito di perizie che in campo scientifico il suo pensiero su quanto sta avvenendo ad un mese dalla tragica uccisione di Giulia Cecchettin. “Non ci sorprende, ma ci inquieta, la tendenza dei media ad attribuire i reati più efferati alla malattia mentale, anche quando non vi siano informazioni sufficienti a formulare concretamente ipotesi diagnostiche di nessun tipo. Al di là dei comportamenti intrusivi e controllanti nei confronti della povera Giulia, cosa sappiamo di lui? Sappiamo che dormiva con un orsacchiotto (qualcuno ci aggiorni: da quando in qua è un sintomo psichiatrico?). Poiché riteniamo impossibile formulare una diagnosi attendibile con così pochi elementi, a differenza di altri colleghi, preferiamo non svelarvi le nostre ipotesi, certi che sarà il Giudice a far chiarezza sul punto, avvalendosi -se lo riterrà opportuno- di periti di sua fiducia. Avendo scelto di tacere, ci chiediamo invece perché i media si siano lanciati fin da subito -quando si sa ancora così poco- sulla questione della diagnosi, rischiando clamorosi errori. Certo il binomio crimine follia attira i lettori, come ogni scrittore di thriller sa bene. Gioca anche il fatto che far ricadere simili atrocità entro il recinto della follia ci fa sentire più protetti ed al sicuro: poter equiparare alcune diagnosi alla “licenza di uccidere” darebbe una rassicurante chiarezza su chi siano i soggetti “pericolosi” da cui guardarci, quelli da cui la società dovrebbe proteggerci. Una idea bella e semplice, peccato solo che sia del tutto sbagliata: la maggior parte di questi assassini alla fine del processo, alla fine del balletto di perizie e consulenze tecniche, risulta perfettamente in grado di intendere e di volere. È un’idea che, oltre ad essere sbagliata, è anche estremamente dannosa; danneggia i pazienti psichiatrici, che nella maggior parte dei casi non sono affatto inclini alla violenza o all’aggressività, creando attorno a loro un clima di diffidenza e sospetto. Danneggia gli operatori della salute mentale che si vedono attribuire il compito di impedire i reati prima ancora che avvengano -una versione sanitaria, ma alquanto casereccia, di Minority Report- e che quando questo compito impossibile non viene portato a termine si trovano al centro di un tripudio di critiche, accuse, qualche volta anche processi e, sia pur raramente, condanne. Danneggia infine tutta la società, dal momento che deresponsabilizza il reo: se i più efferati reati sono espressione diretta di patologia mentale, simili assassini sarebbero interamente pilotati dalla propria patologia: senza nessuna scelta, nessuna colpa, nessuna responsabilità, nessun libero arbitrio. Punirli sarebbe assurdo quanto punire una persona con l’influenza perché ha la febbre.

Certo esistono reati - anche gravi, anche femminicidi - in cui la malattia mentale veramente abolisce o riduce di molto la capacità di intendere o quella di volere. Sono casi tragici e nel complesso relativamente infrequenti. In queste situazioni la legge garantisce al reo percorsi di cura, generalmente in Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), strutture detentive votate alla cura ed alla riabilitazione delle persone che abbiano compiuto reati a causa di una patologia mentale. Come è noto anche queste strutture hanno alcune criticità, anzitutto la “lista di attesa” per accedervi, ma di questo parleremo un’altra volta.”

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Cristina Brasi