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(Ansa)
Economia

Il Green Deal è morto, viva il Green Deal

Le rinnovabili non ci salveranno, mai. Prima lo capiremo, meglio sarà

L’utilizzo del celebre “Le Roi est mort, vive le Roi!” era funzionale, nella Francia del ‘400, ad affermare la continuità ininterrotta dell’istituto monarchico ed evitare il vuoto istituzionale tra la morte del sovrano e la salita al trono del suo successore. Così oggi nella politica italiana, mentre comincia a farsi strada il concetto che l'uscita dai fossili sarà un questione di generazioni e non di decenni, si realizza sia opportuno buttare, almeno temporaneamente, a mare le miracolistiche (fino a ieri) pale e pannelli nel tentativo di perpetrarne l’esistenza.

Si sta assistendo ad un tentativo “bipartisan” di porre un freno agli effetti di cinque anni di continui innalzamenti dell’asticella degli obbiettivi climatici che hanno portato, in larga parte dell’elettorato, ad associare l’ideologia del Green Deal alla deindustrializzazione del Paese che sta procedendo, spinta dai prezzi dell’elettricità, ad una velocità tale che nessuno forza sembra in grado di arrestare. Meglio quindi, evitare di intestarsene la paternità nell’imminente competizione elettorale europea, anzi, opportuno prenderne le distanze, quasi qualcuno vi avesse appeso un cartello, come sui fili dell’alta tensione, “Chi tocca muore”.

Nel contempo i provvedimenti che vengono adottati non si presentano come un cambiamento di rotta ma lasciano aperte le porte per un opportuno riposizionamento a competizione elettorale conclusa. Eppure è ormai evidente come la situazione sia sfuggita di mano: i dati di Terna, evidenziano come le richieste di connessione da fonte rinnovabile pervenute al gestore della rete elettrica nazionale abbiano raggiunto l’iperbolica cifra di 328 gigawatt (GW) rispetto ai 70 GW richiesti dall’obbiettivo fissato, a livello europeo, dal pacchetto Fit for 55. Risulta inoltre indefinito il numero delle richieste di connessione di grandi impianti fotovoltaici a terra con potenza inferiore a 6 megawatt (MW), che non entrano nei dati di Terna, e che potrebbero rappresentare ulteriori decine di GW di capacità.

Un numero di installazioni spropositato, quasi 5 volte l’obbiettivo richiesto, da raggiungere entro il 2030, che fa intuire come le energie rinnovabili siano in realtà un mezzo per consentire, a pochi, di arricchirsi attingendo all’intervento pubblico per lo sviluppo di queste forme di energia intermittente finanziate o incentivate con fondi pubblici: duecento miliardi di euro già spesi, e centinaia ancora da spendere. Per un comprendere l’enormità di quanto sta accadendo si consideri che la produzione pubblica di energia elettrica nel nostro Paese nel 2023 ha richiesto mediamente circa 50 GW di capacità installata.

Mentre i lobbisti del settore eolico e fotovoltaico si stracciano le vesti preconizzando perdite miliardarie evitano però di spiegare che la quota di centrali a combustibili fossili che sarà possibile spegnere sarà solo il 10% di quelle attualmente in funzione. Questi enormi esborsi economici produrranno risultati insignificanti ai fini della dipendenza energetica del Paese dai combustibili fossili poiché il sistema elettrico italiano potrebbe essere soggetto a rischi di distacco di carico, ovvero blackout, qualora avvenisse la dismissione di una quota importante del parco termoelettrico. L’elevata penetrazione nel mix energetico di fonti intermittenti come eolico e fotovoltaico fornisce un contributo limitato, più che altro problematico, all’affidabilità del sistema elettrico che quindi rimane a carico del parco termoelettrico, alimentato a combustibili fossili, il cui valore minimo deve rimanere a circa 50 GW di potenza massima.

Numericamente, spiega Terna, le condizioni di adeguatezza del nostro sistema elettrico si mantengono in linea con quanto previsto nel Decreto Ministeriale del 28/6/2019 in termini di sicurezza energetica, in corrispondenza di una dismissione massima di circa 3,9 GW del parco termoelettrico: meno del 10% del totale. Quindi sarà necessario continuare a sovvenzionare le centrali a combustibili fossili affinché rimangano in esercizio per garantire quella sicurezza energetica che le fonti rinnovabili intermittenti non saranno mai in grado di offrire. Perché se scegliessimo di lasciare che venisse dismessa la capacità termoelettrica, la cui sostenibilità economica verrà messa a rischio dalle rinnovabili intermittenti, l’affidabilità del nostro sistema elettrico crollerebbe.

Non si pensi che questo sia un quadro di medio periodo: nel lungo termine le criticità legate al rischio di dismissione di impianti termoelettrici a causa dell'insostenibilità economica aumentano proprio a causa dell’aumento della penetrazione nel mix energetico di fonti rinnovabili intermittenti che rende sempre più irregolare e ridotto il tempo di funzionamento degli impianti termoelettrici. Pertanto pur installando oltre 120 GW di potenza eolica e fotovoltaica, oltre il doppio della domanda di capacità del Paese, e pur includendo oltre 27 GW di batterie potremo dismettere solo poco più del 20% dell’attuale flotta di centrali a combustibili fossili per contenere il rischio blackout nei limiti previsti dalla legge italiana.

Pertanto non c’è molto da scandalizzarsi quando il Ministro Pichetto Fratin ha ritenuto opportuno precisare che «non si può pensare di riempire il Paese di pannelli fotovoltaici e pale eoliche ovunque» sottolineando come siaanche necessario che il mix energetico vada rivisto « per dare quella continuità che le rinnovabili non sono in grado di fornire». Ma soprattutto perchéil vero asset da difendere nel Bel Paese è il suoPaesaggio messo sempre più a rischio dalla soluzione climatica cinese: l’energia eolica e fotovoltaica.

Alle stesse conclusioni è arrivata anche la Regione Toscana che, in accordo con l’Emilia Romagna, ha rinviato a data da destinarsi la conferenza dei servizi che si doveva tenere in aprile per l’impianto eolico industriale “Badia del Vento”, composto da 50 pale dai 180 ai 200 metri d’altezza, che dovrebbe sorgere in alta Valtiberina al confine con la Romagna. Un progetto realizzato con aerogeneratori di enormi proporzioni le cui fondazioni andrebbero ad insistere su un territorio tra i più franosi d’Italia: uno dei più inadatti a ospitare queste infrastrutture le cui fondazioni profonde andrebbero a riattivare i piani di scivolamento e distacco delle frane.

Anticipando le scelte del Governo, che si accinge a varare un decreto legge che impedirà di rendere idonee all’installazione del fotovoltaico a terra tutte le zone classificate come “agricole”, qualche settimana fa l’Assessore all’Agricoltura dell’Emilia Romagna, Alessio Mammi, ha proposto una petizione “percambiare la norma nazionale che consente di coprire centinaia di migliaia di ettari di terreno fertile e agricolo con pannelli fotovoltaici tradizionali”. Perché “Se tutto dovesse rimanere come è, il nostro Paese corre il rischio di coprire di pannelli fotovoltaici molti terreni agricoli, andando a colpire la bellezza del paesaggio, la biodiversità ambientale e la produzione agricola in campo.”

Anche in Sardegna, dove la nuova giunta è espressione di un'area politica contigua e sensibile alla promozione delle rinnovabili intermittenti, il Movimento 5 Stelle, è stata varata una moratoria sugli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili che comporta il divieto di realizzazione di questa tipologia di impianti poiché pregiudicano paesaggio, territorio e consumo di suolo. Anche in questo caso si tratta di un’iniziativa che entrambe i candidati della recente campagna elettorale in Sardegna avevano inserito nel loro programma.

Ora visto che non si cambiano le leggi della fisica e dell'economia e considerato che l’unica altra variabile è la classe politica, quest’ultima potrebbe aver optato per la “morte del Re” per affermare, con la continuità ininterrotta dell’ideologia green, anche la propria. Perché, costi quel che costi, per raggiungere la neutralità climatica al 2050, si dovrà comunque coprire di pale e pannelli il Bel Paese... Salvo non cambi qualcosa a Bruxelles.

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Giovanni Brussato