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Ansa
Calcio

Ibrahimovic non è la soluzione alla crisi del Milan

Tutti vogliono lo svedese come dirigente e tutor del contestato Pioli, ma la storia (recente) dice che nemmeno Zlatan è stato capace di incidere sul destino rossonero da fuori campo

Tutti lo vogliono, tutti lo bramano. Gerry Cardinale lo ha incontrato di persona e ne pensa benissimo, Paolo Scaroni non fa mistero di sperare di vederlo al più presto a Milanello e nella narrazione rossonera di questo inizio di stagione sembra esserci posto per un dubbio sul quando e non sul se. Zlatan Ibrahimovic al Milan da dirigente, possibilmente vicino alla squadra, magari dentro uno spogliatoio che con il suo addio al calcio e l'allontanamento di Paolo Maldini e Ricki Massara ha perso tutti i riferimenti calcistici ad eccezione di Stefano Pioli.

Il quale, a sua volta, viene descritto come pronto ad accogliere a braccia aperte colui che nell'immaginario del tifoso scontento dovrebbe rappresentare una figura di garanzia. Una specie di tutor per correggere le mancanze del tecnico, finito sul banco degli imputati per alcune scelte tattiche, per la questione infortuni che si moltiplicano senza fine e per i rapporti con i giocatori su cui i riflettori si sono accesi dopo le discussioni con Calabria, Giroud e Leao. Tutto spiegabile e spiegato se preso singolarmente, tutto inquietante se messo in fila dentro un autunno in cui rischia di bruciarsi prematuramente il sogno della Champions League.

Dunque, serve Zlatan Ibrahimovic è il sentimento comune. Non da allenatore insieme all'amico Abate, ipotesi spinta praticata da una minoranza di ultra arrabbiati, ma da figura che leghi società e parte tecnica. Qualcuno in grado di mediare tra Pioli e i calciatori e di imporre, se necessario, riflessioni al tecnico accusato di aver perso umiltà e di non voler mettere in discussione le proprie idee tattiche. Ibra riflette ma non ha ancora sciolto la riserva che nasce non da scarso amore verso il Milan, ma dalla necessità di comprendere a fondo ruoli e confini del suo futuro impiego, il primo non da calciatore.

Da quando è tornato a Milano nel gennaio 2020 il suo ruolo è stato esaltato quasi più per l'impatto extra campo che per il rendimento da giocatore. Dove, va ricordato, l'ultima stagione (4 presenze e un gol) è stata quasi da ex e quella precedente condizionata dai problemi fisici. E però si è detto e scritto molto sul vantaggio di averlo inserito comunque nel gruppo, presente negli allenamenti e a bordo campo: una sorta di capitano non giocatore con poteri taumaturgici.

Apporto difficile da misurare in maniera oggettiva. Serve o no al Milan per uscire dalla crisi? Il paragone più sensato è con quanto accaduto a inizio 2023 dopo la serie di sconfitte culminata nel ko nel derby di ritorno di campionato contro l'Inter. Era l'8 febbraio e Ibrahimovic, pronto al rientro che significava anche tornare a vivere il Milan da vicino dopo essere stato a lungo distante, tuonò: "Sono ancora dio, sono ancora il numero uno: adesso torno e cambio la musica".

In campo sfortunatamente si è visto poco, ma il Milan post-Ibra è andato più o meno con lo stesso passo di quello pre-Ibra: 1,79 punti a partita contro 1,65, ribattuto dall'Inter nella semifinale di Champions League senza troppa storia e quinto in classifica prima del salvataggio per la penalizzazione della Juventus. Insomma, qualche segnale ma nessuna inversione. Tradotto: può essere che Ibrahmovic rappresenti una scossa per lo spogliatoio rossonero e anche che in assoluto una figura di raccordo serva, ma è assai probabile che il destino del Milan in questa stagione non sia legato all'influsso di un uomo della provvidenza. Meglio concentrarsi su quello che c'è e su quello che manca: infortuni, un attaccante da alternare a Giroud e qualche soluzione tattica in più. Se poi Zlatan torna, meglio. Ma il futuro del Milan è nelle meno di chi già ci lavora, non di altri.

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Giovanni Capuano