​Il sindaco di Firenze, Dario Nardella
Ansa
Politica

Firenze, l'insostenibile leggerezza dell'ex bastione rosso

Firenze non sogna più. La sinistra, da sempre al potere, è troppo presa dalla propria sopravvivenza per elaborare una strategia di governo. Il primo cittadino Dario Nardella silura assessori, s’impantana tra i guai contabili del Teatro del Maggio e i tira-e-molla sullo stadio.

I fiorentini non riconoscono più la loro città. Basta una passeggiata sui social, lo specchio dei tempi, per mettere in fila le confessioni amare di chi si sente straniero in patria. Straordinaria, unica patria, ma maltrattata e deludente. O forse deludente proprio perché maltrattata. Il black-out del Covid ha peggiorato, se possibile, il clima, invece di migliorarlo come quasi tutti avevano giurato di voler fare durante la segregazione. Questa storia del Rinascimento fiorentino non scalda più. Ma quale Rinascimento? Questo è un Medioevo, altro che storie. Bei tempi quando la sinistra di governo aveva un’idea, magari discutibile, ma sapeva dove andare a parare.

Oggi c’è una gran confusione. Il Pd ha la maggioranza, una delle poche città ad averla - almeno fin qui - salda, ma non sa che farsene. Firenze, 380 mila abitanti di cui 58 mila stranieri, è una città in stand by, calpestata dal turismo, molto peggio di quanto lo fosse prima del lockdown. Che pure aveva insegnato qualcosa. Sono stati giorni terribili con il centro storico deserto e spettrale, segno che spariti i turisti, in piazza del Duomo, piazza della Signoria, piazza Pitti e sul Ponte Vecchio non c’era rimasto nulla se non una città fantasma, senza residenti. Doveva essere una lezione. Mai più, si disse. Come no? Eccoci diventati, invece, un mangificio al quadrato, una Disneyland al cubo. Negozi di vicinato non ce ne sono più, molti hanno chiuso, prima e dopo il Covid, ma nessuno ne parla.

Ti giri e sei assediato da ristoranti, pizzerie, paninoteche e, nelle strade più alla moda, da grandi marche tutte in fila e tutte uguali come a Roma, Milano, Parigi, Madrid. Ancora alberghi e, soprattutto, B&B, la piaga del secolo, turisticamente parlando, che non si vedono ma sono dappertutto. Nessuno riesce a frenare l’invasione indiscriminata. La sinistra, dicevamo, è troppo presa dalla sua sopravvivenza per affrontare una strategia di governo. Del centrodestra neanche parlarne, ma loro hanno l’alibi di aver perso le elezioni e le prossime sono ancora lontane (nel 2024!). Figuriamoci, c’è ancora tempo: e con questa logica le hanno perse tutte dal 1995 a oggi. L’effetto Schlein ha mandato in tilt i leader che, schierati quasi tutti con Stefano Bonaccini, ora hanno l’incubo di doversi riposizionare, anche a costo di rinnegare qualche scelta già fatta.

Vale per il sindaco Dario Nardella, che è a fine mandato (2024) senza sapere che cosa farà da grande, e vale per il governatore della Regione Eugenio Giani, che deve garantirsi la conferma nel 2025, malgrado alcune sue decisioni ora siano in conflitto con le idee del neo segretario regionale Emiliano Fossi. Sul fronte del nuovo corso filo ambientalista è già stata sacrificata l’assessore all’urbanistica Cecilia Del Re, fino a qualche mese fa candidata a succedere all’inquilino di Palazzo Vecchio, che aveva riesumato il passaggio della tramvia da piazza del Duomo forse occhieggiando ai nuovi padroni del Pd, tifosi del trasporto pubblico a ogni costo, e indispettendo Nardella, che quella soluzione l’aveva archiviata insieme a Matteo Renzi quando era sindaco, per evitare rogne con una città sempre divisa su tutto.

Sulla tramvia Nardella ha mantenuto il punto, ma sullo scalmanato che ha imbrattato di vernice la facciata di Palazzo Vecchio, prima gli si è lanciato contro, anche fisicamente, poi ha ceduto alla maggioranza Schlein del suo partito, che chiedeva comprensione per le ragioni di questi ragazzotti che pongono pur sempre problemi seri, e si è pentito affrettandosi a convocare un summit fra sindaci e movimenti per l’ambiente.

L’aria che tira è d’incertezza. La Toscana è ostaggio del Pd, che non trova una coerenza al suo interno, figuriamoci nelle scelte strategiche che vanno condivise e sostenute come succedeva una volta. Già è stato un pasticcio il caso del Teatro del Maggio, ormai più che altro un «autunno», dove il soprintendente Alexander Pereira, voluto fortemente da Nardella, è stato messo sotto inchiesta e costretto ad andarsene, lasciando il posto a un commissario. Il nuovo teatro, inaugurato 12 anni fa (Franco Zeffirelli disse che somigliava a «una scatola da scarpe») è il riflesso della grandeur di Firenze, spesso sopravvalutata: uno spreco per questi tempi, dove gli enormi spazi sono inutilizzati, il pubblico è quello che è e gli sponsor sono più o meno gli stessi, cioè insufficienti. Non è una cattedrale nel deserto ma poco ci manca.

L’ultimo problema è quello dello stadio, che si è rovesciato addosso al sindaco e per cui Nardella rischia di offuscare quanto di buono ha fatto governando per nove anni una città difficilissima. Perché a Firenze puoi toccare tutto, ma non la Fiorentina. All’«Artemio Franchi» faranno i lavori di restyling, sempre che Bruxelles confermi il finanziamento di 55 milioni del Pnrr, su cui l’Europa ha chiesto chiarimenti. I fiorentini hanno scoperto che la squadra del cuore dovrà giocare due anni in trasferta. Finora nessuno aveva messo in conto questo rischio. Sotto accusa naturalmente Nardella, prima di tutto per aver rifiutato la proposta del patron della società viola, Rocco Commisso, di costruire un nuovo stadio a sue spese dopo aver realizzato anche un grande centro sportivo nel comune di Bagno a Ripoli. I fiorentini non capiscono perché sia stato rifiutato l’investimento privato. E come mai il sindaco abbia preferito coprire e ammodernare il vecchio impianto progettato da Pier Luigi Nervi, considerato monumento nazionale, spendendo i soldi pubblici del Pnrr, piuttosto che lasciar fare tutto a un privato, che ovviamente in cambio pretendeva la gestione completa dell’operazione. Ora Nardella si trova a brancolare fra le varie ipotesi senza sapere dove andrà a giocare la Fiorentina.

Un rebus in più per lui, come quelli che assediano il presidente della Regione Eugenio Giani, rimasto solo (fuori la bonacciniana Simona Bonafè, la leadership del Pd toscano è cambiata) a dirimere questioni magari meno popolari ma più importanti. Giani deve risolvere la partita del rigassificatore di Piombino, su cui ha corretto il tiro: prima aveva detto «avanti tutta» ora vuole aspettare il Tar che si pronuncerà il 5 luglio. Stesso discorso per il Centro di permanenza per i rimpatri, sui quali prende tempo, attento a non scontentare la nuova linea dem. Deve rispondere al segretario regionale Fossi che gli ha messo fretta sull’efficienza della Sanità toscana, che ha buchi neri nei servizi territoriali e nelle interminabili liste d’attesa per gli esami diagnostici. E prima o poi dovrà affrontare la questione potenziamento dell’aeroporto di Peretola, già stabilito da tempo ma sul quale Schlein-Fossi sono contrari.

Le idee chiare sono merce rara. A corollario di tutto ciò, l’opposizione non sta meglio. Se per la candidatura in Regione è quasi certo che il centrodestra punterà sul sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi, super confermato nel suo secondo mandato (l’alibi per non muovere un dito) per Firenze non c’è traccia di un pensiero. Un film già visto.

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Marcello Mancini

(Castelfiorentino, Firenze, 1956). Ha diretto La Nazione, dopo esserne stato capocronista e vicedirettore. Per il quotidiano fiorentino ha seguito l'ascesa di Matteo Renzi da presidente della Provincia a premier. Caporedattore dell'edizione toscana del Giornale dal 1998 al 2000. Opinionista radiofonico e televisivo. Autore di libri su storia di Firenze, politica, calcio e cattolicesimo del Novecento. Di prossima uscita Il parroco cardinale, biografia dell'arcivescovo Silvano Piovanelli.

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