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Pablo Bustos
Lifestyle

Wehbba e l’arte di trasformare la vita in techno

Il deejay brasiliano combina musica elettronica e suoni del mondo reale, per ottenere tracce dall'effetto più autentico. A Panorama.it racconta il suo nuovo disco appena pubblicato per l'etichetta di Adam Beyer

Treni che vanno e che vengono, e poi gli altri rumori di una stazione. Passi, echi, distorsioni, il sottofondo di un tramonto. Intorno, ad accompagnare e sovrastare ogni brano, i battiti della techno, i suoi ritmi cadenzati che trascinano e avvolgono. Un mix che rende «le creazioni elettroniche stranamente più organiche, senza fargli perdere l'essenza». Parola di Wehbba, deejay brasiliano trapiantato a Barcellona, apprezzato talento di lungo corso del genere. È appena uscito Straight Lines and Sharp Corners (linee dritte e angoli appuntiti), album in cui il sound è contaminato dai suoni della natura e della vita quotidiana. Una soluzione che gli conferisce una poderosa autenticità, anche nei passaggi più intensi e lunari. Il disco è stato pubblicato da Drumcode Records, l'etichetta di Adam Beyer, uno dei guru mondiali della techno. Panorama.it ha approfondito direttamente con Wehbba genesi, ispirazioni e intenzioni del suo nuovo disco.

Può raccontarci il suo processo creativo, come funzionano le sue registrazioni sul campo, come decide che possano diventare rilevanti?

«Mi piace uscire e registrare. Con un'attrezzatura relativamente economica, puoi catturare suoni straordinari, specie quando impari come i microfoni reagiscono di fronte a certi tipi di rumori. A volte registro ciò che mi smuove dentro qualcosa, a volte altro che mi capita intorno, o giusto dei riverberi. La vita è una fonte d'ispirazione senza fine».

Nella traccia 14th to Grand Central ci sono i rumori di una stazione e di un treno. Come possono arricchire l'esperienza di un disco?

«Tutto è aperto all'interpretazione, mi piace ascoltare la musica come la colonna sonora del film che è la mia vita. Ascoltare suoni organici, familiari, combinati con composizioni elettroniche, mi porta un senso di prossimità con l'ascoltatore, anche in maniera molto sottile. Facilità una connessione emozionale a ogni tipo di traccia, non importa quanto concettuale possa essere. Mi piace anche credere che l'energia del suono si porti dietro l'intera energia della sua fonte, perciò quando registro qualcosa che intendo usare dopo, ne tengo conto. In definitiva, è un'esplorazione dei sensi».

Il titolo del disco è un omaggio a un lavoro di Antoni Gaudí. Cosa apprezza della sua arte?

«Amo il modo in cui percepiva la purezza e come l'applicava alle sue opere. È una grande fonte di ispirazione per me. Era inesauribile e sento un'energia naturale provenire da ciascuna delle sue creazioni».

Pensa sia possibile istituire un paragone tra La Sagrada Familia e la musica techno? Può essere vista, come la chiesa di Barcellona, come un qualcosa di stratificato, sempre più complesso ma costantemente incompiuto?

«La techno è un'idea molto aperta, la Sagrada Familia ha sempre avuto una forma. E sarà completata, prima o poi. Io non penso che la techno possa essere definita o contenuta, è contro la sua natura e il suo proposito. È totalmente libera, non è intrappolata in un'essenza coesiva».

Perché c'è un riferimento a Goya nel preludio dell'album?

«Si tratta di uno dei nomi della strada nella quale vivo e dove si trova il mio studio. E la registrazione di background che si sente al suo interno viene dalla mia passeggiata quotidiano dal mercato fino al mio appartamento. Ma alla fine, deve il suo nome al pittore».

Come definirebbe il suo lavoro? Ottimistico? Pessimistico? Che tipo di viaggio invita a intraprendere?

«Diciamo che è entrambe le cose e nessuna di quelle. È contrasto e connessione. Ho dovuto lottare con me stesso per raggiungere la purezza delle intenzioni, per riuscire a fare attenzione a ciò che mi si agitava dentro e prenderlo a ispirazione, a prescindere se fosse cattivo o buono, felice o malvagio. Le ho accettate e sono stato onesto con le mie reazioni, poi le ho applicate alla musica. Sento che questa onestà possa ispirare il pubblico a continuare ad ascoltare e a scavare ancora, per trovare la loro interpretazione di questo lavoro e farne esperienza in modo diverso».

L'ultima traccia, Digital Sunset, ha il suono di una catarsi, un respiro di aria fresca dopo una lunga apnea. Era questa la sua intenzione?

«Mi stavo immaginando di guardare un tramonto a Ibiza dopo un'intensa esperienza di clubbing. È un momento in cui il bello e l'astratto s'incontrano, mentre le cose diventano quiete e i toni caldi del tramonto rilassano il corpo, mentre la mente è ancora al lavoro. Arriva l'accogliente accordo della chitarra acustica e il flauto che oscilla tra il profondo e il selvaggio, ma anche il contrasto delle percussioni e delle armonie synth. È un modo per mantenere l'attenzione dell'ascoltatore e, allo stesso tempo, consentirgli di perdersi».

Il suo album paga un tributo alle tracce degli artisti che ascoltava negli Anni Novanta, un'epoca, sono parole sue, in cui si sentiva libero e aperto di ascoltare ogni tipo di genere.

«Ci sono molti artisti che mi ispirano, potrei spingermi a dire che alcuni di essi non mi piacciono per niente. Ho fatto il mio ingresso nella musica elettronica nei tardi Anni Novanta, per me era un modo di rompere con le mie vecchie abitudini e le mie cerchie sociali, e concentrarmi su un'altra musica. Penso che il fatto di essere stato un esploratore solitario sin dal principio, l'avere incontrato persone e deejay di ogni tipo lungo il mio percorso, mi abbia arricchito. Ho avuto la mente aperta e ho cercato di trovare valore in ogni cosa».

Le sue radici brasiliane l'hanno in qualche modo condizionata?

«Il limite di essere in Brasile, mi ha plasmato profondamente. Mi ha forzato a imparare la mia tecnica e ottenere risultati senza budget o senza poter accedere a studi e strumenti. E anche se la musica che faccio viene per la maggior parte dall'Europa e gli Stati Uniti, il Brasile ha avuto un'impronta nelle note profonda fino agli Anni Ottanta, con movimenti come la Bossa Nova, il tropicalismo, la soul music, così come il movimento concretista nell'arte. Per me è impossibile non essere influenzato da tutto ciò che mi si muove intorno, perciò sì, la mia intera esperienza di vivere in Brasile ha giocato un grande ruolo in quello che è diventato il mio lavoro».

Questo è il suo terzo album e il disco di debutto con l'etichetta Drumcode. Arriva dieci anni dopo il suo primo LP, Full Circle. Come si è evoluta la sua musica in questo decennio?

«Molte cose sono successe in questi anni, ho vissuto in tre differenti Paesi e due continenti, ho cambiato studio e attrezzature un po' di volte. Grazie alle mie antenne sempre dritte, ho continuato a crescere. Penso che Straight lines and sharp corners sia una riflessione necessaria di tutto ciò che è stato il mio passato e dove andrò da adesso. Il mio primo album era un modo per presentarmi, per raccontare chi sono. Ora che ho più chiarezza di me stesso e una tecnica maggiormente avanzata, sono stato capace di fare un album raccontando chi sono. Cercando di coinvolgere l'ascoltatore mostrandogli un riflesso puro del mio processo creativo, anziché cercare di impressionarlo».

Ascolta l'album cliccando qui.

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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