La terra di Treblinka non durerà per sempre
News

La terra di Treblinka non durerà per sempre

Siamo di fronte a lei, giovani e vecchi che viviamo in Russia. La nostra è un'epoca inquieta... Le ferite ancora non si sono rimarginate, ancora fumano i falò, e ancora fremono i tumuli sopra le fosse comuni di milioni di soldati - nostri figli e fratelli. Nelle campagne arse vive sono ancora in piedi pioppi e ciliegi morti e bruciati, l'erbaccia cresce, triste, nei villaggi partigiani, sui corpi inceneriti di nonni, madri, ragazzi e ragazze. È ancora smossa la terra sulle fosse dove riposano i corpi dei bambini ebrei uccisi insieme alle loro madri. La notte ancora si leva il pianto delle vedove nelle tante, infinite izbe russe, nei casolari bielorussi e ucraini. La Madonna ha patito con noi ogni momento, perché lei siamo noi, perché siamo noi suo figlio.


Non è stato facile, né lieto, essere ebrei nel ventesimo secolo. Non è stato facile, o lieve, essere russi nel ventesimo secolo. Né l'essere umano nel suo complesso ha attraversato con leggerezza il Novecento. Ma meno di tutto è stato agevole essere scrittori, durante il ventesimo secolo, perché lo scrittore campa di vita e di umanità, infila là dentro le mani e l'arte come un fornaio con la farina, e scrivere di Novecento significa impastare una massa compatta di illusioni e dolore.
Vasilij Grossman, ebreo russo, cittadino sovietico, scrittore del Novecento, ha visto in realtà tutti i dolori e ha attraversato ogni illusione. La prima illusione, per un ragazzo che viene dall'Ucraina dei pogrom e degli shtetl-ghetto, è che la rivoluzione sovietica, che ha liberato gli ebrei dalle brucianti limitazioni della legge zarista e dagli arbitrî dei suoi ufficiali, abbia liberato tutti e per sempre, e che nessuno debba più soffrire per colpe che non ha commesso, per colpe ereditarie e collettive; invece il giovane ingegnere ebreo (ma che vuol dire ebreo nel 1930, in Urss? Se gli ebrei sono quelle creature spaurite dalla torcia e dallo knut, che non possono viaggiare, possedere, studiare e combattere, quelli che non possono vivere liberamente... Allora no! non ci sono più ebrei nella terra dell'ateismo e della fratellanza degli uomini!), diretto nel Donbass del carbone e dell'acciaio, a lavorare per la grande patria socialista che sta dando inizio ai grandi piani quinquennali, vede nelle terre grasse e nere del Don e del Dniepr la fame, la carestia, la morte. Com'è arrivata la carestia e la morte in quelle terre fertili, fra quei fiumi possenti? L'ingegnere Grossman non ha risposte, è solo un ragazzo; o forse non vuole ancora cercarne. Ma pur nell'oscurità gassosa della cupa Smoljanka-II, la miniera più profonda e pericolosa del Donbass, Grossman non dimentica gli occhi che hanno chiesto pane; non può scordare la terra nera dell'Ucraina e l'aria polverosa del Donbass.

È proprio lei, sì. L'ho vista anche nel 1930 alla stazione di Konotop: si avvicinò al vagone di un rapido, terrea di sofferenza, e alzò i suoi occhi meravigliosi per dire senza voce, muovendo appena le labbra: «Pane...».

Qualche anno più tardi, l'ingegnere Grossman è ormai lo scrittore Grossman. Vive a Mosca, nel centro del potere e della gloria sovietica; lo hanno elogiato maestri sommi come Gor'kij e Bulgakov: è un inserito, quanto meno, o persino un privilegiato. Eppure le purghe sfiorano anche lui; eppure anche lui per poco non finisce nelle fauci di quella follia che tritura i propri figli migliori, in quella rivalsa cieca della burocrazia e della paranoia del regime ormai consolidato contro la giovinezza del comunismo, contro la sua spensieratezza battagliera e ingenua, quella in cui non esistevano più lettoni, russi, armeni ed ebrei, quella in cui in cui non esistevano i titoli e le mostrine e tutto, anche gli errori più brutali, veniva compiuto per generosità e per principio. Lo scrittore Grossman, tuttavia, viene risparmiato dal turbine; ma non dimentica l'asfalto silenzioso di Mosca, la paura bianca e la delazioni grigie e livide, o il nero lucido del piombo. Né scorderà mai il gelo dei gulag siberiani che pure non ha visto, duro come pietra, come pietra inscalfibile ed apparentemente eterno.

E l'abbiamo incontrata nel 1937, nella sua stanza, mentre stringeva a sé per l'ultima volta il figlio, gli diceva addio, fissava il volto di lui prima di correre giù per le scale deserte di un condominio muto... Sulla porta della sua stanza un sigillo di ceralacca, da basso l'aspettava una macchina... Che silenzio strano, inquieto, in quell'alba grigia e polverosa dove non fiatavano neanche i palazzi.

Passano ancora degli anni e lo scrittore Grossman è il corrispondente di guerra Grossman: si è arruolato volontario e, senza combattere in prima linea, diventa ben presto uno dei più noti ed efficaci soldati dell'Armata Rossa. Con l'Armata Rossa Grossman è davanti a Mosca, all'epoca della prima e decisiva vittoria, poi è a Stalingrado, a Kursk, ovunque lo porti l'irrefrenabile controffensiva dell'esercito sovietico. La guerra costa la vita a sua madre, intrappolata in Ucraina dalla rapida avanzata nazista e uccisa sul posto come decine di migliaia di ebrei rimasti nella repubblica; ma il soldato Grossman è tra i primi ad entrare a Treblinka, il più sottile e brutale dei campi di concentramento nazisti, quello maggiormente specializzato nell'eliminazione degli ebrei. A Treblinka vede un orrore che non aveva immaginato neanche nel paese della collettivizzazione e delle purghe. A Treblinka vede e comprende anche la grandezza e l'eroismo del proprio paese, tanto imperfetto, che pure si è eretto solitario e ha vinto contro un Male che non ha descrizione possibile. Ma a Treblinka conosce anche il ritorno dell'ipocrisia e della convenienza, adesso che la guerra sta per essere vinta, adesso che non si può più scrivere dei collaborazionisti ucraini o dei rumeni che hanno ucciso novantamila ebrei ad Odessa. Di sicuro il soldato Grossman non dimentica la terra troppo grassa di Treblinka, "senza fondo", scrive lui, una terra nutrita da un orrore che non ha fine.

Continuiamo a camminare su quella terra senza fondo, ma poi ci fermiamo. Di colpo. Capelli biondi dai riflessi color del rame, i capelli, ondulati, folti, sottili, lievi, incantevoli di una ragazza si mescolano alla terra calpestata. Poco distante altri boccoli chiari, e poi trecce nere, pesanti sulla sabbia chiara, e poi altre chiome e altre ancora. Dev'essere il contenuto di un sacco - uno solo! - dimenticato e mai partito. È tutto vero! L'ultima assurda speranza crolla. E intanto i baccelli di lupino tintinnano, tintinnano, e i semi tamburellano sul terreno come se davvero, da sotto terra, si levassero alti i rintocchi a morto di un'infinità di minuscole campane. E il cuore sembra fermarsi, stretto da una tristezza, da un dolore, da un'angoscia che un essere umano non può sopportare...

Passano dei lustri, ancora. Il soldato Grossman, famoso e amato da ogni milite dell'eroica Armata Rossa, è diventato nel frattempo il dissidente Grossman, un fantasma che ha scritto dei libri che non possono essere pubblicati (perché ricordano troppo, e con oggettiva precisione; con la nuda, pacata precisione di chi non odia il proprio paese e nessuno dei suoi governanti, ma che non può dimenticare nessuna vita stroncata ingiustamente o senza motivo). L'ebreo Grossman ha visto anche, negli ultimi anni di Stalin, una campagna infame che ha per la prima volta vellicato il vecchio antisemitismo russo, sia pure sotto forme nuove e ambigue; allo stesso modo il soldato Grossman viene a sapere, lui che ha raccontato la guerra sacra e giusta del popolo sovietico, delle deportazioni avvenute in quegli stessi anni; in seguito, sotto Chruščëv, lo scrittore Grossman non vede poi i cambiamenti tanto attesi e strombazzati (anzi, è in quegli anni che le sue opere vengono censurate, sequestrate, distrutte, e che da uomo noto diventa un fallito mezzo tollerato).
Nel 1962 questo uomo già finito, levigato dal tempo, arriva in Armenia, al confine reale e simbolico dell'Unione Sovietica; deve tradurre dall'armeno, lui che non conosce quella lingua, l'opera minore di uno scrittore secondario. L'Armenia lo accoglie con la sua pietra, con i suoi campi di pietre che non sono montagne franate, ma piuttosto montagne morte; come si addice a un paese vecchio, vecchissimo, che ha contato innumerevoli invasioni e infiniti massacri, un paese in cui sono decedute anche le pietre, ma dove l'essere umano sopravvive ancora ed è ancora e sempre armeno, come quando vivevano gli idoli pagani e i cimiteri di basalto non erano ancora morti.
In un villaggio di montagna, nell'Armenia più povera e profonda, un giorno il carpentiere di un kolchoz, durante un pranzo di nozze, brinda allo scrittore Grossman; e gli parla della guerra, della prigionia che ha subito per mano dei tedeschi, e soprattutto di ciò che ha visto capitare ai commilitoni ebrei, alle donne e ai bambini ebrei. Gli parla della forza, dell'intelligenza degli ebrei, dell'ammirazione che ogni armeno porta loro e della vicinanza che ogni armeno prova. Il carpentiere armeno brinda agli ebrei, a quello scrittore ebreo che parla solo russo e che vuole tradurre dall'armeno, e spera che un figlio del popolo martire armeno voglia anche lui, un giorno, scrivere del popolo ebraico martire. Fra quelle pietre lo scrittore Grossman ritrova l'affetto, la considerazione, l'umanità che gli erano state negate a Mosca dopo la censura dei suoi romanzi. Potrà forse il traduttore Grossman, colui che non sa l'armeno e dall'armeno traduce, dimenticare le pietre antiche e morte dell'Ararat e dell'Aragac? Non dimenticherà.

Il mondo intero - tutta l'immensità dell'Universo - è schiavitù rassegnata della materia inerte, solo la vita è miracolo di libertà.

Vasilij Grossman, non ancora sessantenne, muore l'anno dopo a Mosca, di cancro allo stomaco. Che l'umano sia umano ovunque, in ogni tempo e luogo, lo sanno tutti; ma Grossman, che ha visto la terra ucraina, la polvere del Donbass, l'asfalto di Mosca e le pietre morte dell'Armenia, sa che anche la materia è la stessa dappertutto, dappertutto è uguale alla terra di Treblinka: ma non può vincere la vita, può al massimo ucciderla. Ma essa sbucherà invincibile dalla materia che muore, non meno viva, come la treccia di una ragazza ebrea uccisa a Treblinka o il sorriso eterno di una Madonna di Raffaello.

Che le montagne immortali si riducano pure a scheletri, l'uomo esisterà in eterno.

(le citazioni sono tratte da L'inferno di Treblinka e Il bene sia con voi, di Vasilij Grossman)

I più letti

avatar-icon

Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

Read More