I fantasmi di Portopalo
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Televisione

Beppe Fiorello: "I fantasmi di Portopalo, tra dramma e impegno civile"

La miniserie racconta la tragedia dell'inabissamento di una carretta del mare stipata di migranti al largo di Portopalo

Il giorno della vigilia di Natale 1996 il pescatore Saro Ferro salva un naufrago al rientro da una battuta di pesca nel mare in tempesta. È un adolescente dai tratti indiani che non ricorda nulla di sé. Nei giorni successivi altri pescatori recuperano altri cadaveri in mare, segno che nel Canale di Sicilia è successo qualcosa di grave, che sconvolgerà la comunità di Portopalo, un paesino di 4000 abitanti sulla punta meridionale della Sicilia. Comincia così I fantasmi di Portopalo, la miniserie in due puntate, in onda su Rai 1 il 20 e 21 febbraio, una storia di coraggio e impegno civile tratta dall’omonimo libro di Giovanni Maria Bellu. Protagonista assoluto del film in due puntate è Giuseppe Fiorello, che anche questa volta presta il volto a un eroe destinato a lasciare il segno.

Beppe, sono tanti anni che avevi voglia di raccontare I fantasmi di Portopalo. Perché?

Era giusto e doveroso. Ricordo la prima emozione quando ho letto il libro: mi colpì l’idea che quel naufragio, nel quale morirono centinaia di migranti, avesse provocato anche un naufragio metaforico e psicologico nell’anima delle persone, nella comunità di Portopalo. Subirono la tragedia e il loro modo di vivere fu stravolto.

Cosa accadde dopo che la carretta del mare si inabissò, il giorno della vigilia Natale del 1996?

Succede che il pescatore Saro Ferro salva un naufrago, un giovane dai tratti indiani, al rientro da una battuta di pesca. Nei giorni successivi alcuni pescatori trovarono un corpo tra le reti e quando portarono i corpi a riva cominciarono i problemi, il prezzo che pagarono quei pescatori fu altissimo: a Portopalo, un paesino più a sud della Tunisia, siamo lontani dalla vita facile e si campa di pesca. Se li blocchi, sono finiti.

Perché l’intera comunità decide di allearsi?

Perché l’avvio di qualsiasi indagine avrebbe causato la chiusura dello spazio di pesca per un tempo indeterminato. Furono costretti al silenzio perché si ritrovarono soli a gestire la situazione, senza l’aiuto dello Stato e delle Istituzioni. Fu un patto doloroso.

Fino a quando il pescatore Saro Lupo, il personaggio che interpreti, decide di rompere il silenzio.

È lui che decide di dire basta. Trova un documento che raffigura un giovane ragazzo e dice basta. «Era come se fosse mio figlio, non ce l’ha più fatta», mi ha raccontato quando ci siamo conosciuti. Così decide di raccontare tutto a un giornalista che era lì in vacanza.

Come hai lavorato per preparare questo personaggio?

Ho lavorato d’istinto, di conoscenza profonda dei fatti, anche a stretto contatto con il giornalista e saldando l’amicizia con Saro. Ci ho messo tutto me stesso, vivendo a contatto con i pescatori di Portopalo, sono andato a conoscerli. È un posto che ho frequentato, sono siciliano e penso che la mia sicilianità mi abbia aiutato.

C’è un momento delle riprese che ricordi con particolare emozione?

La scena del recupero dei cadaveri. Io ero scioccato e impressionato ed era solo finzione scenica: con noi c’erano i pescatori veri, che ci avevano affittato le barche. Quel giorno, alla fine della scena ci fu un silenzio fortissimo da parte di tutta la troupe, carico di rispetto per quello che era accaduto: io mi sono voltato e in fondo alla barca c’erano tre pescatori, padre figlio e nipote, con le lacrime agli occhi. «Quell’emozione noi per anni l’abbiamo vissuta. È ancora un dolore», mi ha spiegato il padre.

Oltre che protagonista, sei anche sceneggiatore de I fantasmi di Portopalo. Cosa ci hai messo di tuo?

Non è un atteggiamento di proprietà o di prepotenza. Voglio appartenere a quel progetto a 360° e mi voglio assumere le responsabilità: sono un attore che decide di raccontare una storia, complessa e delicata, spesso non narrata perché scomoda.

L’impegno civile è la tua cifra stilistica. Non ti manca la commedia o il disimpegno?

Mi trovo bene e mi appassiono a raccontare queste storie, perché ci entro dentro con tutto me stesso. Lo faccio per me stesso, perché è un mestiere che mi sta facendo crescere anche da un punto di vista umano. La commedia arriverà presto, la sto sviluppando: questo è il paese delle etichette ma io sono aperto a tutto.

Ci sono altri progetti televisivi che realizzerai a breve?

Sono nella fase più creativa, quella di ricerca. Cerco storie e ispirazione, idee. Ho delle storie molto affascinanti tra le mani.

Il grande sogno del cassetto?

Raccontare una storia senza metterci il corpo. Vorrei fare la regia e mi basterebbe farla una sola volta. Sto lavorando per questo, sto monitorando la storia giusta.

È vero che il tuo primo provino per il cinema lo devi a Daria Bignardi?

(ride) Sì è vero. Un giorno Daria mi presentò Niccolò Ammaniti, che ancora non era lo scrittore famosissimo di adesso. Stava presentando un suo libro, s’incuriosì a me e mi disse: «Perché non vieni a Roma a fare il provino per un film ispirato a un mio racconto?». È iniziato tutto così.

Ultima curiosità: cos’è rimasto di Fiorellino, il nome d’arte con cui hai esordito?

Era un vezzeggiativo che in qualche modo mi ha portato bene. Ho cominciato nei villaggi nel 1985, poi ho continuato con il cabaret e stranamente facevo anche molto ridere. Poi sono diventato un narratore. All’inizio ero incosciente, oggi sono più maturo e consapevole, ma sono sempre lo stesso.

 

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Beppe Fiorello

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Francesco Canino