Alienati da smartphone
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Alienati da smartphone

Questa smania di digitalizzare tutto. Che cancella l'atmosfera del reale

Avete presente quei sociopatici che passano l’intero concerto armati di iPhone per riprendere lo show dall’inizio alla fine? La cosa che più mi sbalordisce di questi disadattati è che essendo spesso lontani chilometri dal palco, non vedono nemmeno i musicisti, e si trovano a fissare uno schermo che riprende uno schermo più grosso in cui sono proiettate le immagini di quello che sta accadendo dal vivo, per vedere il quale, in teoria, hanno pagato il biglietto.

Sembra la definizione scientifica del concetto di alienazione.

Alcuni sollevano gli iPad sopra la testa come icone votive. Altri, più retrò, imbracciano falliche microtelecamere. Il risultato, in ogni caso, è un nauseante filmato malfermo, dal pessimo audio, inframmezzato dall’odioso chiacchiericcio dei vicini e dalle boccacce degli amici più istrionici.

Ci sono quelli che condividono in tempo reale i contenuti sui social network, quelli che li inviano ad amici e amanti rimasti a casa per condividere con loro la canzone del cuore.

Contro videotraballanti che nessuno riguarderà mai più e foto di pessima qualità si sono scagliati vari artisti, da Jack White agli Yeah Yeah Yeahs, da Bjork a Prince, passando per iWilco. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato il pianista Keith Jarret che dopo aver abbandonato il palco di Umbria Jazz in seguito ai fastidiosi scatti ha preteso di suonare al buio.

Non è una novità di oggi, è un dibattito che va avanti da anni. Ma l’altra sera sono andato al concerto di Leonard Cohen, a Lucca. Vuoi che il pubblico era più adulto, vuoi più selezionato, quella massiccia invadenza dei cellulari era praticamente assente, solo uno sporadico riverbero qua e là. Qualche anno fa erano le sigarette e gli accendini a puntellare di lucine l’oscura massa del pubblico. Oggi domina incontrastata una luce azzurrognola che, come i lampioni nelle metropoli, offusca la visibilità delle stelle.

La compulsione di possedere, immagazzinare e oggettivare ogni momento è parte integrante delle nostre ansie contemporanee. La digitalizzazione ha moltiplicato le metastasi dei nostri reportage vacanzieri, imposto una costante mappatura dei nostri spostamenti, ci ha reso diari viventi, che nessuno ha voglia di leggere ma tutti di scrivere.

Impossibilitati a perderci e abbandonarci all’urgenza dell’ora, siamo fiaccati da una rincorsaal rivivibile,un futile tentativo di rendere ogni momento dilatabile e infinito. Questa presunta democratizzazione dei mezzi ha posto al centro più il momento di condivisione virtuale che non la bellezza e la qualità di una fotografia o di una ripresa.

Minando la selezione e la professionalità necessarie per dare un senso a quello che accade rischia di lasciarci fra le mani solo un accumulo indistinto di momenti mai vissuti in prima persona. L’esperienza live ne esce mutilata dell’unica prerogativa che non possa essere riprodotta con un buon Home Theatre: l’atmosfera.

Nel caso di Leonard Cohen, i pochi che hanno armeggiato tutto il tempo con lo smartphone e hanno messo lo schermo tra loro e la sua voce, hanno perso qualcosa di inafferrabile da qualsiasi iPhone: la lussuria sfrenata della sua presenza scenica, il senso di profonda religiosità quando si getta in ginocchio continuando a cantare, l’eleganza aristocratica dei sui gesti, il modo in cui tiene il cappello, e la sua voce, così elegante, così profonda, da diventare la personificazione del godimento nel qui e ora.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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