Yara: i dubbi e le incongruenze dell'inchiesta
 ANSA/ UFFICIO STAMPA POLIZIA 
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Yara: i dubbi e le incongruenze dell'inchiesta

A dispetto dei toni trionfalistici il caso non è affatto chiuso. E non solo perché Bossetti continua a professare la propria innocenza  Chi ha pensato ai figli del presunto killer? Alfano, che dici?   Il dilemma del killer - L'intreccio di casa Bosetti - I due investigatori eroi

 

E se “il mostro” non fosse lui? E se Massimo Giuseppe Bossetti fosse innocente? O se, colpevole, la sua colpevolezza non si potesse provare “oltre ogni ragionevole dubbio”? In carcere per la convalida del fermo, il carpentiere di Mapello giura di essere totalmente estraneo all’omicidio di Yara, la ginnasta 13enne di Brembate di Sopra uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata tre mesi dopo in un campo a Chignolo d’Isola, a una decina di chilometri dalla palestra dove si allenava.

Troppi errori sono stati già commessi, per un’inchiesta che dura da più di tre anni e si sta rivelando in queste ore tutt’altro che conclusa. Se Bossetti, muratore di Mapello, 44 anni, sposato, tre figli dagli 8 ai 13 anni, risultasse innocente, dovranno per forza cadere delle teste. Per la giustizia italiana sarebbe uno smacco clamoroso (ma non il primo). Già adesso si può dire che la gestione della comunicazione dopo l’arresto è stata come minimo imprudente, a partire dal ministro dell’Interno Angelino Alfano fino al procuratore generale di Brescia competente anche per Bergamo, Pier Luigi Maria Dell’Osso. E i giornalisti non sono stati meno incauti.

Mi ha colpito l’incipit di un articolo-intervista di Repubblica sull'arresto del presunto killer a uno degli investigatori che non si era mai fatto intevistare. “L’hanno preso (Bossetti, ndr) quelli che per quattro anni non si sono fatti prendere. Mai un’intervista, non un’apparizione, neanche un grammo di aria fritta nei talk show dell’orrore. L’hanno stanato i segugi sguinzagliati dalla scienza che alla fine non ammette errori”. Peccato che il caso non sia chiuso, anche se a leggere i giornali o a sentire certi magistrati e il ministro Alfano, s’è già tenuto il processo e la sentenza è pubblicata. E peccato che la scienza ammetta, eccome, degli errori. Figuriamoci poi la giustizia…

Bossetti protesta la propria innocenza, e scopre in carcere di non essere figlio di suo padre. Gli effetti collaterali dell’inchiesta ricadono su famiglie intere. Minori compresi. Con un piccolo giallo, anche in questo caso. Una fonte definita qualificata dall’ANSA avrebbe detto che il test del DNA ha certificato la discendenza di Bossetti da un autista di Gorno la cui salma è stata riesumata, e la cui saliva lasciata su un vecchio francobollo è stata raccolta e analizzata. Poi c’è stato lo screening su oltre 500 donne con le quali l’autista aveva avuto contatti, fino alla madre di Bossetti. Solo che oggi, sui giornali, i dubbi crescono.

Lo racconta Il Messaggero. La prova del DNA è una prova regina, ma non decisiva in assenza di altri riscontri. Anche perché lo stesso perito della famiglia Gambirasio, Giorgio Portera, aveva sottolineato che a furia di analisi la piccola traccia organica trovata sugli slip di Yara si è ormai esaurita, ciò che resta oggi è solo una “stringa” di memoria sui computer. I periti non sono neanche riusciti a stabilire di che natura sia quella traccia: forse, sangue. Forse. In ogni caso, la prova del DNA non può essere certa al 100 per cento.

Bossetti, da parte sua, sostiene che la sera del delitto era in casa e che il cellulare non mandava segnali perché era in carica. Un’ora prima della scomparsa di Yara, il segnale sarebbe stato agganciato nella zona sud di Brembate, ma forse la cella copre anche casa di Bossetti a Mapello. Altro elemento incongruente, possibile che il carpentiere abbia superato i 40 senza mai una segnalazione che lo ricolleghi a reati o patologie sessuali?

Forse è per questa incompletezza del quadro che il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, si è prudentemente rifiutato di definire “chiuso” il caso, dicendo anzi che occorre fare ancora accertamenti e che dovrà esserci un processo e un contraddittorio. Tutto il contrario del procuratore generale di Brescia, Dell’Osso, per il quale “ci troviamo davanti a una situazione che ci fa dire che il caso è praticamente chiuso… La giustizia è arrivata e va perfettamente calibrandosi tanto da farlo ritenere perfettamente risolto”. Con una sola avvertenza: “Prima di dire questo, attendiamo ancora qualche giorno”. Ma intanto lo ha detto. Il ministro Alfano, invece, annunciando l’arresto ha subito parlato di “assassino”. Il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, ha protestato dicendo che sarebbe stato preferibile “il massimo riserbo”, anche per tutelare l’indagato e la sua “presunzione di innocenza”.

Fra l’altro, il passato non ha insegnato nulla. Le indagini su Yara avevano già sbattuto un “mostro” in prima pagina, poi rivelatosi innocente. Era il muratore 23enne marocchino Mohamed Fikri, arrestato nel giugno 2012 con un abbordaggio al traghetto che lo portava per un periodo di vacanza a Casablanca. Tutto per la traduzione sbagliata di una telefonata: “Allah, perdonami, non l’ho uccisa io, non l’ho uccisa io…”. In realtà aveva detto altro: “Allah, fa’ che mi risponda”, o qualche altra cosa che comunque non aveva nulla a che fare con Yara ma più con la preoccupazione del viaggio. Ma nonostante la topica, il carcere ingiusto e l’essere stato dato in pasto ai giornali come “il mostro”, Mohamed è rimasto indagato per ben due anni e otto mesi. Sono state fatte diverse perizie sulle sue telefonate. Quattro mesi dopo l’arresto, la magistratura di Bergamo negava ancora l’archiviazione e chiedeva nuove traduzioni e perizie, pure sul modo in cui erano state fatte le analisi del DNA (in quel caso, la non corrispondenza “assolveva” Fikri).

Su Yara, si sono seguite tutte le piste possibili immaginabili: il furgone bianco, i pozzi, la palestra, la discoteca, i cantieri... Fino ad analizzare la saliva di qualcosa come 18mila persone, più del doppio dei 7.800 abitanti di Brembate di Sopra (tra i 18mila non c’era già pure Bossetti?). Quanto è costato tutto questo? E per quanti altri casi di bambini uccisi o scomparsi (non) è stato fatto lo stesso sforzo investigativo?

Illuminanti le confidenze al Secolo XIX di un “superpoliziotto” del caso Yara, per capire il clima e tutto ciò a cui sono soggetti psicologicamente gli investigatori: “L’indignazione per l’omicidio di una ragazzina, che ti fa crescere dentro la voglia di poter essere tu a far giustizia, costi quel che costi. La pressione dell’opinione pubblica, che chiede risultati e li chiede in fretta, perché non sopporta che ci sia un tale mostro in libertà. E magari la fretta che ti mettono anche i capi, che vogliono risultati subito per placare a loro volta le sollecitazioni della politica e della piazza. E quando sei in quelle condizioni rischi di prendere la topica colossale, di rovinare la vita di una persona forzando all’inverosimile le tracce che hai”. Come nel caso del marocchino, “primo arrestato sulla base di un’intercettazione che si ‘voleva’ tradurre a tutti i costi in senso colpevolista”.

Ecco, c’è da sperare per la giustizia, per noi tutti, che non sia successo lo stesso con Massimo Giuseppe Bossetti. Ma, appunto, c’è la serenità per ricostruire serenamente la verità dei fatti? Se Bossetti fosse colpevole, al posto suo vorrei morire. Ma se fossi innocente, non mi sentirei per nulla tranquillo.

Parla l'avvocato di Bossetti

 

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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