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(Ansa)
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Verità e bugie sulla società e la violenza contro le donne

Livello culturale, economico, provenienza geografica; non è facile riuscire a delineare un profilo unico di chi usa violenza e di chi la subisce

La letteratura scientifica si è spesso concentrata sullo studio del profilo sociale delle vittime, cercando di ricostruire l’eventuale educazione infantile alla passività, all’accettazione di un ruolo sessuale subordinato e ad un’immagine di sé debole e vulnerabile. Queste spiegazioni valgono però solo per una parte delle vittime, molte donne non rispondono a questo schema esplicativo. Abbiamo donne autonome, indipendenti, economicamente forti, con personalità strutturate che sono vittime di violenza. A causa dello stereotipo descrittivo di una donna passiva e inerme, queste ricadono in una seconda tipologia di vittimizzazione, non vengono credute come reali vittime in quanto rispondo all’offesa con tenacia e in maniera combattiva.

Se è vero che le definizioni di genere sono culturalmente fondate, e che i due elementi della coppia maschile-femminile si definiscono anche per reciprocità l’uno verso l’altro, una parte del problema della violenza contro le donne sta nel fatto che il femminile, ossia il ruolo, l’autorevolezza e lo spazio pubblico delle donne italiane, è molto cambiato nel tempo, mentre il maschile non altrettanto. Un limite serio degli studi italiani è che l’indagine si focalizza esclusivamente sulla vittima: la storia, la personalità, il vissuto della relazione, il necessario empowerment della stessa. Dobbiamo invece porre attenzione ai ruoli sessuati e alla variabilità dei modi in cui essi vengono rappresentati. La donna vittima di violenza non è solo la casalinga dipendente dal partner; molte storie di violenza mostrano che le radici della dinamica risiedono in un amalgama di amore, sessualità, controllo e colpa.

Le condizioni lavorative, la presenza dentro la famiglia e l’autorità degli uomini sono cambiate moltissimo, in parte a causa dell’evoluzione femminile, in parte a causa di processi ancora più ampi, come la globalizzazione del mercato del lavoro, la caduta di prestigio di alcune professioni e la perdita di status delle classi medie. Fino a cinquant’anni fa, il principio di autorità era indiscutibilmente esercitato dall’uomo che occupava uno spazio centrale nella comunità, ma oggi le società affluenti sono società senza padre, comunità dove gli uomini rischiano di diventare superflui in senso stretto, ossia ai fini della procreazione e del mantenimento della prole, e in senso metaforico, poiché si ritiene di poter fare a meno tout court del principio di autorità, a prescindere da chi e come si eserciti. Questi mutamenti hanno trasformato l’identità maschile, fondata anche dai modelli culturali che vengono trasmessi per mezzo di processi inculturativi, ossia di trasmissione della cultura tra generazioni e attraverso il controllo sociale. Oltre a trasmettere e a conservare l’esperienza teorica e pratica del gruppo, tali sistemi orientano i membri a privilegiare nella scala dei valori, i valori del proprio gruppo, che tenderanno a conservare a proprio vantaggio i rapporti di forza e i rapporti diseguali, all’interno della società. Una società intesa come un insieme di pratiche e di istituzioni, atte a trasmettere almeno una parte del patrimonio culturale che ha accumulato nel corso delle generazioni.

La socializzazione è lo strumento attraverso il quale il patrimonio culturale della società viene appreso dagli individui. Più precisamente, la socializzazione è quell’insieme dei processi tramite i quali un individuo sviluppa il grado minimo di competenza comunicativa e di capacità di prestazione, compatibile con le esigenze della sua sopravvivenza psicofisica, entro una data cultura e a un dato livello di civiltà. Un processo di apprendimento e introiezione della cultura, delle norme, delle regole, dei comportamenti ammessi e di quelli ritenuti riprovevoli, si sviluppa durante tutto l’arco della vita, dalla nascita fino alla morte, attraverso l’interazione sociale. Con i familiari prima, con i compagni di classe, con gli amici, i colleghi e altre collettività e organizzazioni varie poi. Ed è in questo contesto che i pregiudizi sono spesso mascherati da araldi della saggezza. Questi si attivano per i motivi più diversi: per rimozione di verità sgradite, per sublimazione di interessi egoistici, per la difesa ad oltranza di rendite di posizione, per l’universalizzazione dei propri valori culturali che si vorrebbe anche far passare per naturali. A sostegno di questi processi di produzione, conservazione e riproduzione dei pregiudizi, opera il tentativo di affermare o mantenere degli interessi di parte. E ogni tentativo di riconoscere i nostri pregiudizi rappresenta una sfida alla nostra sicurezza.

Se osserviamo la struttura profonda delle società in cui viviamo essa appare basata su alcuni pilastri fondamentali: la centralità sociale e culturale del lavoro nella sfera pubblica, come strumento principale di produzione di valore economico e simbolico, elemento fondamentale di misurazione nell’opinione comune della ricchezza della società, e la separazione di questa sfera da quella privata, al centro della quale è la famiglia. Una divaricazione dello spazio sociale rappresentata anche, nell’organizzazione esistenziale degli individui, dalla netta distinzione tra tempo necessario e tempo libero. Al centro della rappresentazione sociale c’è quindi l’individuo, considerato come soggetto autonomo, pensato come se potesse agire indipendentemente dal contesto in cui vive, potenzialmente in grado e chiamato continuamente ad effettuare scelte, cioè a determinare il corso della propria esistenza e la sua posizione nella società, considerato come parte della famiglia, centro naturale della vita umana e luogo di imputazione più completo degli interessi individuali. Come molta letteratura critica ha messo da tempo in evidenza, la riproduzione di questa rigida rappresentazione della realtà continua ad essere garantita dall’attribuzione oggettiva di ruoli sulla base del sesso.

Fino ad oggi la sociologia ha utilizzato l’equazione potere-violenza per spiegare tali eventi. Negli anni ’70 tale spiegazione era plausibile; cinquant’anni dopo, essa trascura i cambiamenti avvenuti nella condizione della donna e nella parallela evoluzione dell’identità maschile. La violenza “di genere”, scrivono ancora oggi alcuni studi, è esercitata dagli uomini “come classe” al fine di mantenere i vantaggi che essi traggono dalla dominazione femminile. Ma il genere non è una classe. Tale impostazione non offre alcun vantaggio euristico; ciò che dobbiamo spiegare non è perché gli uomini sono violenti, bensì perché e quando alcuni uomini lo sono.

Gli elementi da tenere in considerazione dovrebbero competere le situazioni specifiche e le dinamiche interazionali tra aggressore e vittima, i ruoli di aggressore e vittima, i dati socioeconomici che li caratterizzano, il tipo di network familiare, le caratteristiche della comunità di appartenenza, la sua soglia di tolleranza a specifici eventi violenti, le politiche di contrasto alla violenza e gli elementi simbolico culturali che la favoriscono.

Quando ricostruiamo il comportamento dei due attori, emozioni come la rabbia, la paura, l’umiliazione, la vergogna, l’attrazione erotica, la possessività, la frustrazione, insieme all’incapacità di controllarle, definiscono la situazione nella quale ha luogo l’azione violenta.

Dalle ricerche empiriche disponibili in Italia e all’estero sappiamo che variabili come la classe sociale, il livello di istruzione e la professione non sono particolarmente significative, che un retroterra di povertà e disagio non genera, di per sé, violenza contro i deboli. Gli aggressori sono spesso incensurati (se non per reati legati appunto a violenza e maltrattamenti) e capaci di intendere e di volere. I dati mostrano come sia probabile che la maggiore propensione a denunciare appartenga a donne di status alto rispetto alle donne degli strati più modesti della popolazione; le prime appartengono ad ambienti oggi più sensibili al tema e dotati di una soglia di tolleranza più bassa, per cui una vittima incontra meno ostacoli nel rompere la scorza della vergogna. Eppure i dati Istat indicano con chiarezza che, anche laddove il reddito, il lavoro e il titolo di studio sono strumenti di emancipazione a disposizione delle donne, queste ultime non sono immuni alla violenza. Ci si trova quindi in una condizione diversa generante la violenza, si ha a che fare con uomini violenti, ma che, dentro il nucleo familiare, non ricoprono uno status di rilievo; non svolgono nemmeno il ruolo di capofamiglia, così tipico del modello tradizionale di maschilità dentro una coppia. Il potere non è forza bruta; questa è una definizione priva di alcun contenuto sociologico. Il potere è un attributo generato da una base di legittimità: il denaro, una posizione di rilievo occupata nella struttura sociale, un talento o personalità fuori dal comune. Questi uomini sembrano reagire alla perdita di potere, a una crisi di status; reagiscono al conflitto con dosi di aggressività e violenza che sono tanto grandi quanto è fragile ed emotiva la loro maschilità.

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Cristina Brasi