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Terrorismo e latitanti: i debiti vanno pagati

Maurizio Belpietro commenta la bella vita dei latitanti dell'epoca del terrorismo cui è dedicata la storia di copertina di Panorama

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orse qualche lettore si chiederà se abbia senso, a quarant’anni dai fatti, parlare ancora dei fantasmi del terrorismo. I latitanti degli Anni di piombo sono vecchi, in qualche caso pure malati, e a quanto pare non più in attività. Dunque, nonostante molti di loro non abbiano mai regolato i propri conti con la Giustizia dovremmo dimenticarceli e far finta che non esistano invece di chiederne l’estradizione? Io credo di no e per una serie di motivi che cercherò di spiegare.

Il primo è che se si dà la caccia a un comune assassino fino a che non sia stato preso, non si capisce perché si debba rinunciare a farlo per meriti politici. Un criminale è un criminale e un delitto è un delitto, a prescindere dalle motivazioni. Che si sia uccisa una persona per rapinarla, per vendicarsi o per fare la rivoluzione non cambia: si è sempre un assassino. Ho in mente un tizio che si fece giustizia da sé per quelli che gli atti di polizia giudiziaria chiamano «futili motivi». Per molti anni riuscì a farla franca, nascondendosi all’estero, ma alla fine, non essendosi dimenticati di lui, gli inquirenti gli presentarono il conto. Perché, dunque, non dovremmo farlo per un assassino che impugnava la pistola nel nome della lotta di classe? Lasciarli al loro destino significherebbe in qualche modo precostituire un attenuante ai delitti di terrorismo: uccidono ma, per degli ideali. Sparare a una persona è un reato gravissimo, a prescindere dal perché sia stato fatto. E dire che dopo quarant’anni si può dimenticare o perdonare una stagione di follia, è un insulto alle vittime e ai loro familiari.

C’è poi una seconda ragione che mi spinge a dire che non si possa fare una specie di «amnistia della memoria», dimenticandosi delle condanne non scontate. Molti terroristi, dopo essere fuggiti all’estero, si sono rifatti una vita. C’è chi - grazie ai soldi di papà o di mammà - ha ripreso la vita comoda che conduceva prima di abbracciare la lotta armata, chi si è laureato ed è salito in cattedra, chi ha avviato un’intraprendente carriera commerciale, chi ha fatto figli e si è goduto la vita. Sebbene in molti fossero condannati all’ergastolo, al «fine pena mai» hanno condannato la moglie e i figli delle loro vittime, incatenati al ricordo di una vita spezzata all’improvviso, senza ragione. Per loro, per i famigliari delle vittime, la sentenza di morte per il congiunto ha rappresentato un’esistenza segnata dal dolore e dalle difficoltà economiche. Un contrasto, quello tra la nuova vita del terrorista e la vita difficile dei parenti delle vittime, che stride troppo e che ancora reclama giustizia.

Anni fa, a Cortina d’Ampezzo, mi capitò di partecipare a un dibattito con la figlia di Guido Rossa, l’operaio genovese ucciso dalle Br per aver denunciato un terrorista, e Sergio D’Elia, coordinatore dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Quest’ultimo, ex militante di Prima linea, il gruppo responsabile di decine di assassini, alla fine degli anni Settanta venne arrestato con l’accusa di aver fatto parte di una banda armata e di concorso nell’omicidio dell’agente penitenziario Fausto Dionisi, durante un assalto al carcere di Firenze. Condannato a 25 anni, ne scontò 12 e, una volta libero, si dedicò all’attività politica con i Radicali, in favore degli ex detenuti. A seguito di una sentenza che gli restituì i diritti politici, D’Elia nel 2006 si candidò al parlamento con La Rosa nel pugno e, una volta eletto, divenne segretario della presidenza della Camera, con un supplemento di stipendio.

Ecco, chiesi al pubblico di Cortina, vi sembra giusto che la vedova di Fausto Dionisi, l’agente ucciso a Firenze, viva con una pensione da fame, pagata da quello Stato per cui il marito è morto, e quello stesso Stato corrisponda una retribuzione da favola a una delle persone condannate per concorso nel suo omicidio? D’Elia, colto di sorpresa, reagì accusandomi di populismo e io, a mia volta, replicai di preferire l’accusa di populismo piuttosto che avere sulle spalle una condanna per omicidio.

Perché vi racconto tutto ciò? Per introdurre il tema a cui questa settimana abbiamo dedicato la copertina. La dolce vita dei latitanti non è un modo di dire. In molti, dopo aver ucciso o aver pianificato di uccidere, si sono rifatti una vita, spesso bella, piena di affetti, di figli e in qualche caso di nipoti. È un diritto farsi un’altra vita. Certo, ma è un diritto che si ottiene dopo aver saldato i conti con il passato. È un diritto che è stato negato ad altri, i quali avevano spesso il solo torto di essere servitori dello Stato, di quello Stato che li retribuiva con un salario minimo e che poi ha risarcito i familiari con una pensione ancora più minima. E a proposito di pensione, ricostruendo la dolce vita dei latitanti, abbiamo anche scoperto che a uno di questi, Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, lo Stato paga la pensione. Millecinquecento euro che mensilmente vengono accreditati a Parigi sul conto di un latitante. Un uomo in fuga dalla giustizia, ma con il conto in banca e un assegno dell’Inps più cospicuo di quello che incassa la vedova della sua vittima. 

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Maurizio Belpietro