giovanna pedretti
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I meccanismi dello «shitstorm», la violenza verbale di massa

La vicenda di Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria che ha perso la vita dopo le polemiche social e non solo per un suo post ci devono portare a capire cosa ci sia dietro questo atteggiamento popolare sempre più diffuso

Le giustificazioni della violenza mediatica assumono varie forme, quella più efficace è la protezione costituzionale della libertà di parola. Ma i veri meccanismi che consentono attacchi improvvisi, anche quando attuati sentendosi forti perché si prende parte a un movimento di massa, consistono nel fatto che i social consentono un indebolimento dei freni morali per mezzo della spersonalizzazione. Si consideri infatti che, sulle differenti piattaforme, ognuno può fornire l’immagine di sé che vuole offrire e lo schermo offre la possibilità di modellare gli altri attori in gioco come personaggi dai tratti che, in quel momento, possono rispondere a dei nostri precisi bisogni psichici. Ma quanto appare essere di maggiore rilevanza è che, l’indebolimento dei freni morali dato dalla spersonalizzazione, favorisce i comportamenti trasgressivi e aggressivi.

Nelle relazioni personali reali c’è una stretta connessione tra azione e risultato, mentre nel mondo virtuale questa correlazione diretta viene a mancare.

Senza la percezione di effetti avversi è chiaro come non esista una situazione moralmente difficile per chi mette in atto questa tipologia di condotte. L’abuso verbale, nella forma di commenti offensivi, denigrazioni, insulti e quant’altro ha effetti nocivi specifici. A differenza delle condotte fisicamente distruttive non abbiano una lesione in evidenza o urla di dolore a dare una manifestazione riconoscibile ai sensi. Il vedere e il sentire il dolore sono elementi che attivano i meccanismi di affiliazione e di cura e, in taluni casi, riescono anche a interrompere l’agito truculento. Gli effetti psicologici di questa tipologia di violenza non sono tangibili e gli effetti sociali possono essere devastanti. La distruzione dell’autostima e della reputazione sociale producono ferite psichiche che perdurano nel tempo. Si pensi inoltre a come le ferite possano essere esacerbate e moltiplicate dalle modificazioni nelle relazioni interpersonali conseguenti alla pubblicazione di determinati post o commenti. Un altro aspetto concerne la struttura della psiche umana.

Nel corso dell'evoluzione ci siamo adattati in modo che la memoria ricordasse e rievocasse più facilmente le esperienze negative rispetto a quelle positive. Questo semplicemente perché, in quanto fallibili, per una questione di sopravvivenza risultava più adattivo ricordare un frutto malevolo rispetto ad uno buono, anche perché quello buono sarebbe comunque rientrato in automatico nella dieta. E siamo fallibili perché non possiamo ricordare e non possiamo processare tutto in maniera consapevole, per cui si sono create delle scorciatoie chiamate bias cognitivi in grado di consentirci la strada più rapida, seppure non sempre la più efficace, nel momento in cui vi sono troppe informazioni da elaborare in un lasso di tempo troppo breve. E tra questi abbiamo i “negativity bias” o “negativity effect” che fanno sì che si sia più reattivi dinnanzi a uno stimolo negativo, come nel caso di insulti o offese, rispetto a uno positivo o neutro, al punto che le informazioni negative vanno a incidere maggiormente su quelle positive in un processo di valutazione di qualsiasi natura.

Questi elementi vanno a spiegare come lo stigma sociale perduri nel tempo e difficilmente venga cancellato. “Nella misura in cui determina il modo in cui gli altri trattano la vittima, una reputazione macchiata da falsità può creare una realtà sociale che si autoconferma “(Snyder).

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Cristina Brasi